Ma sanno chi è Tariq Ramadan ?
l'ideologo fondamentalista inizia a collaborare con il quotidiano arancione
Testata:
Data: 24/09/2008
Pagina: 1
Autore: Tariq Ramadan
Titolo: Cari musulmani dovete essere cittadini d'Europa

Con un articolo pubblicato il 24 settembre 2008, Tariq Ramadan inizia la sua collaborazione con Il RIFORMISTA.
L'articolo è un buon esempio di quell'arte della dissimulazione di cui Ramadan è maestro. Ciò che Ramadan dice e scrive quando si rivolge a un pubblico non musulmano è ben diverso da ciò che scrive e dice quando esorta i fedeli del'islam alla conquesta dell'Europa.
Una giornalista francese, Caroline Fourest, lo ha ampiamente documentato. I fatti però continuano ad essere ignorati. A Ramadan si offrono tribune, riconoscimenti, credibilità. La sua strategia, con l'aiuto determinate dei ciechi volontari che abbondano in Europa e in Occidente, funziona.
Anche Il RIFORMISTA, quotidiano spesso intelligente e non conformista, ha dato il suo contributo.

Ecco il testo dell'articolo:



Da ormai venticinque anni sono impegnato sulla questione dei musulmani d'occidente. Ho seguito gli sviluppi sul campo, partecipato al dibattito pubblico e contribuito alla formazione di una nuova identità del cittadino europeo di confessione musulmana. Ho visitato la quasi totalità dei paesi occidentali da est a ovest e discusso con politici, ulema e leader religiosi o di associazioni. Oggi posso dire, basandomi su cifre e fatti concreti, che non condivido il pessimismo che segna la riflessione sulla presenza dell'Islam in occidente.
È tempo di prendere le distanze dalle posizioni dei partiti di estrema destra e dalla strumentalizzazione politica della «questione islamica» da parte di leader che sconfinano nel populismo più greve, (integrando una versione rivista delle tesi di estrema destra nei loro discorsi), per conquistare facili consensi elettorali. La verità è che le comunità musulmane vivono tuttora una rivoluzione silenziosa (intellettuale, psicologica e sociale) che si può toccare con mano.
Stiamo parlando ormai di milioni di cittadini europei (ma anche americani, australiani eccetera) che parlano la lingua del paese, ne rispettano le leggi e sono leali alla nazione (sebbene possano essere critici sul piano delle scelte politiche come qualunque cittadino dovrebbe poter esserlo). In Inghilterra e in Francia (i due paesi storicamente all'avanguardia in quanto ad accoglienza degli emigranti musulmani), le seconde, terze e quarte generazioni sono ormai sempre più visibili in ogni settore della vita civile (università, mass media, affari, lavori sociali eccetera) perché provengono da vecchi ghetti geografici, sociali o etnici nei quali erano stati rinchiusi (o si erano rinchiusi) i loro genitori.
Ed è questa nuova visibilità che paradossalmente, ma in modo assai naturale, spaventa: i musulmani sono numerosi, si pensa che cambieranno l'Europa, e l'immigrazione non si fermerà (l'Europa stessa ne ha bisogno). La percezione del pericolo è in ritardo rispetto all'evoluzione positiva della storia e spinge a interpretare in maniera errata i fatti: la nuova visibilità dei musulmani non rappresenta un segno di isolamento comunitario bensì un segno di integrazione sempre più effettiva. È tempo ormai di passare, su un piano religioso e culturale, alla fase della «post- integrazione»: il successo dell'integrazione consiste nello smettere di parlare di integrazione.
L'escalation populistica. L'immigrazione non si fermerà e si continuerà a parlare nei media di casi difficili, di fatti di cronaca eccetera. Fatti che possono essere anche gravi, ma invece di usare i nuovi immigrati musulmani (che hanno difficoltà a integrarsi) per gettare una cattiva luce su tutti i cittadini musulmani pienamente integrati, dovremmo fare il contrario: usare questi ultimi per facilitare l'inserimento dei nuovi arrivati.
Non è questa la strada seguita da una classe politica che si lascia trascinare, a sinistra come a destra, dall'escalation populistica e finisce con l'usare notizie che dimostrerebbero che i musulmani sono «non integrabili», come si diceva a suo tempo degli italiani in Svizzera o dei polacchi in Francia durante gli anni Sessanta.
Bisogna assolutamente uscire da questo clima politico malsano che semina il terrore e rende impossibile la coesione sociale e un pluralismo pacato. Il rapporto dell'istituto americano Pew Research Center pubblicato la settimana scorsa rivela che circa la metà degli europei (45%) ha un'immagine negativa dell'Islam e parallelamente cresce in modo inquietante l'antisemitismo. Invece di pensare solo a vincere le prossime elezioni, la classe politica dovrebbe occuparsi di questo problema cruciale per il futuro delle nostre società.
Gli islamici devono fare di più. I musulmani, dal canto loro, se vogliono invertire la tendenza devono assumersi maggiori responsabilità. Sono anni che ripeto che i musulmani devono prendere le misure delle paure dei loro concittadini e imparare a parlare chiaro. Ovviamente esistono politici o intellettuali che utilizzano «la questione islamica» per stigmatizzare, ma la maggior parte dei cittadini ha dei dubbi genuini da ascoltare e ai quali bisogna dare risposte.
Innanzitutto bisogna smettere di sentirsi in minoranza e di assumere un atteggiamento vittimistico. Come spiego nel breve saggio uscito ieri in Italia ("Islam e Libertà", Giulio Einaudi editore), i cittadini europei di confessione musulmana devono avere posizioni chiare sul rispetto delle leggi, contro la violenza terrorista, sul miglioramento dello status delle donne. E devono integrarsi pienamente nella vita sociale guardando a tutti i suoi aspetti, non solo all'Islam.
Gli islamici devono fare di più. I musulmani hanno iniziato a farlo ma bisogna andare oltre. I musulmani dovrebbero essere i primi a non voler «islamizzare» i problemi sociali della disoccupazione o della violenza urbana. Tali questioni non hanno nulla a che vedere con la religione o la cultura. Sono problemi socioeconomici che richiedono politiche sociali. Dobbiamo ricordarlo ai politici privi di progetti e impegnarci a fondo in questo campo.
È tempo che i cittadini musulmani diventino una forza attiva, che contribuisce pienamente alla vita della società. La loro presenza deve diventare positiva per quanto riesco a portare sul piano sociale, politico e culturale. La loro apertura alla comunicazione interculturale e interreligiosa, la loro creatività (sociale e artistica) e il loro apporto critico (in quanto cittadini, in materia di politica interna ed estera) e l'impegno solidale devono trasformare la loro presenza in un messaggio: abbiamo molti valori in comune e la nostra presenza non rappresenta un problema per il futuro ma una promessa di reciproco arricchimento.
(traduzione a cura di Daria Greco)

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