Due articoli sull'Iran, oggi, 26/07/2008. Il primo sul FOGLIO, a pag.3, con il titolo " Bush apre all'Iran perchè scommette sulla fine di Ahmadinejad " di Alexandre Adler, tradotto da Le Figaro. Il secondo, dall'UNITA', a pag.9, dal titolo " Solo noi della resistenza possiamo abbattere il regime iraniano " di Gabriel Bertinetto. Due articoli intressanti, ma la realtà è quella lucida e precisa raccontata da Benny Morris nel suo ultimo articolo sul CORRIERE della SERA (vedi IC). Difficile anche solo immaginare altra via d'uscita.
IL FOGLIO:
Henry Kissinger aveva divertito molto i suoi interlocutori inventando l’espressione “anche i paranoici a volte hanno dei nemici”. Vorrei dire, parafrasandolo, che anche i sostenitori delle teorie del complotto – tra i quali io mi annovero – cadono a volte in complotti reali. Le relazioni tra Iran e Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 appartengono interamente a quell’esercizio difficile che è la diplomazia segreta. Ma se ne possono ricostruire alcuni frammenti che permettano di comprendere alcune cose. All’indomani dell’11 settembre, sono gli iraniani, attraverso l’ex presidente Hashemi Rafsanjani, che allora giocava il ruolo dell’“uomo forte” della direzione collettiva dello stato iraniano, a chiedere contatti con Washington. Gli iraniani contribuiscono così ad agevolare l’invasione americana dell’Afghanistan, per partecipare alla distruzione dei talebani, nemici giurati di Teheran. Rafsanjani e il suo amico fidato, l’ayatollah Sadeq Rouhani, nel 2003 fanno capire che aiuteranno ancora gli americani in Iraq e che finiranno per raggiungere un buon compromesso sul programma nucleare. Al momento di concludere, è il colpo di stato semilegale dei pasdaran a mettere fine al flirt nato tra Teheran e Washington. Il presidente, Mahmoud Ahmadinejad, pone fine a tutti i negoziati sul nucleare e – per aggravare ancor di più la questione – porta deliberatamente avanti una propaganda negazionista e antisemita fatta apposta per mobilitare Israele. Sul territorio, l’Iran ravviva i suoi contatti con Hamas in Palestina, e incita Hezbollah ad assumere una posizione molto più militante in Libano. La speranza di Ahmadinejad e del suo alleato iracheno, Moqtada al Sadr, è quella di mettere fine il più velocemente possibile alla guerra diligione tra sunniti e sciiti in corso a Baghdad, riunificando tutti gli integralisti contro Israele e contro i “crociati” americani in Iraq. Gli americani all’inizio fanno fatica a capire in diretta la sottigliezza della politica iraniana, ma dispongono dell’aiuto di alcuni professori, come gli ayatollah più moderati d’Iraq. Al Sistani e Abdulaziz al Hakim, in particolare, sostengono che la politica di concessioni di Ahmadinejad e di Sadr ai guerriglieri sunniti si sia incagliata; che gli americani debbano restare un tempo sufficiente in Iraq per aiutare a costruire uno stato sotto la loro guida; che Teheran debba riprendere il cammino del dialogo con l’occidente, sostenuto dai “pragmatici” di Rafsanjani e dai “progressisti” di Mohammed Khatami. Poco a poco la Cia convince George W. Bush – ma non il suo vice, Dick Cheney, che a ciò si oppone con forza – ad aprire il dialogo interrotto con emissari iraniani non legati ad Ahmadinejad. Un grande indizio di questa ripresa è la dichiarazione ufficiale del padrone americano sul terreno, l’afghano Zalmay Khalilzad, che nel 2006 chiede alla Casa Bianca l’autorizzazione a dialogare con gli iraniani. Gli verrà accordata. Dopo l’indebolimento di Ahmadinejad alle elezioni municipali di Teheran che ridanno ai “riformatori” una maggiore credibilità, si succedono una serie ininterrotta di concessioni reciproche, e la loro trama complessa mostra che, come al bazar, un interlocutore tira comunque sul prezzo con colui che ha di fronte. Dopo la dichiarazione solenne – e menzognera – dei servizi d’intelligence americani del 2007, secondo la quale l’Iran sarebbe ancora lontano dalla realizzazione di armi nucleari, Teheran risponde al garbo di Washington allontanando Sadr dall’Iraq, tenendolo in caldo in Iran e costringendolo persino a proclamare una tregua durante il “surge” del generale David Petraeus. Meglio ancora, l’Iran lascerà fare fino a che le Brigate Badr, sciite “moderate” agli ordini del governo di Nouri al Maliki a Baghdad, infliggeranno nella primavera scorsa una punizione severa alle milizie di Sadr a Bassora. E per finire, l’Iran si è accontentato in Libano di un compromesso abbastanza leggero, che permette, per il momento, ai partigiani dell’indipendenza antisiriana sostenuta dall’occidente di restare in sella. In cambio, William Burns, il numero due del dipartimento di stato, si è fatto vedere con Javier Solana e gli europei in un dialogo con Teheran, che esclude implicitamente ogni soluzione militare. Mentre gli israeliani, così simbolicamente sottomessi da Washington da rinunciare per ora a ogni operazione unilaterale, l’Iran accorda agli americani l’apertura di una rappresentanza diplomatica diretta a Teheran. Fin dove arriveranno le concessioni reciproche? Tutto procede come se gli iraniani avessero ottenuto una certa calma sul fronte nucleare in cambio di un sostegno finalmente effettivo all’occupazione americana in Iraq. Bush, che vuole lasciare il potere con una situazione considerevolmente migliorata a Baghdad, si è lasciato convincere – contro Cheney – dai capi della diplomazia e della Difesa, Condoleezza Rice e Bob Gates, che il gioco valesse la candela. “Un’anticipazione della presidenza Obama”, secondo l’ambasciatore John Bolton, molto vicino a Cheney. Quindi ecco: il cuore di questa strategia si basa sulla sconfitta elettorale di Ahmadinejad nel 2009, e sulla ripresa di un dialogo serrato con Washington. La guida suprema della Rivoluzione, l’ayatollah Ali Khamenei, nel frattempo si è mostrato irrequieto davanti alle provocazioni di Ahmadinejad e piuttosto aperto alle sirene della negoziazione. Se i “pragmatici” iraniani – Larijani, Velayati, Qalibaf e Rafsanjani – non saranno capaci di onorare le loro promesse, la probabilità di una reazione israeliana, un’ipotesi ancora molto incerta, si trasformerà in certezza, forse perfino con l’assenso imbarazzato di un Obama arrivato, nel frattempo, alla Casa Bianca.
L'UNITA':