Da Il FOGLIO dell''11 luglio 2008:
Roma. L’ultimo messaggio dell’Iran è arrivato all’occidente forte e chiaro. I missili lanciati durante le esercitazioni militari degli ultimi due giorni “hanno fornito la prova che Teheran è assolutamente pronta a combattere”, come ha ricordato il comandante delle Guardie rivoluzionarie, Mohamed Ali Jafari. Le foto dei suoi temuti Shahab-3, dicono gli esperti, sarebbero state ritoccate; reale è invece la risposta dell’occidente alle minacce iraniane. Ieri i vertici di Total, compagnia energetica francese, hanno annunciato che rinunceranno a futuri investimenti in Persia perché il rischio del business è diventato troppo alto: “La gente potrebbe pensare che siamo disposti a tutto pur di fare soldi”, ha detto il presidente della società, Christophe de Margerie. I rischi non sono soltanto d’impresa. L’Iran sfida da mesi i divieti della comunità internazionale con il suo programma di arricchimento dell’uranio e minaccia di “cancellare Israele dalla faccia della terra”. I servizi segreti americani pensano che la Repubblica islamica stia costruendo armi nucleari nella centrale di Natanz, nel centro del paese. Le voci di un possibile attacco contro obiettivi iraniani sono sempre più decise. Ma per il momento l’arma più micidiale usata dalla Casa Bianca è quella delle sanzioni economiche. I “consigli” americani hanno convinto le major del petrolio a ritirarsi dall’Iran: prima di Total, già Repsol e Shell avevano preso decisioni analoghe. Senza di loro Teheran non può sfruttare i giacimenti di gas e di greggio, unica risorsa su cui poggia lo sgangherato sistema economico degli ayatollah. Applicando sanzioni unilaterali, la Casa Bianca ha costretto le major del petrolio a una scelta difficile ma vitale: proseguire il “risky business” in Iran o quello più tranquillo negli Stati Uniti. Allo stesso tempo l’Amministrazione Bush ha creato consenso internazionale su restrizioni economiche contro la Repubblica islamica. Per Total, Repsol e Shell non è stato semplice lasciare i ricchi pozzi iraniani. I francesi, insieme con Petronas, avrebbero dovuto gestire lo sviluppo di South Pars, un immenso giacimento di gas che attraversa il Golfo persico. A South Pars erano impegnate anche Repsol e Shell. Nessuno – scrive il Financial Times – intende abbandonare il paese per sempre, ma in questo momento è meglio prendere le distanze dal regime islamico, dai suoi programmi nucleari e dalle esercitazioni missilistiche. Non sono molte le società occidentali rimaste in Iran, fra loro Eni e StatoilHydro. L’amministratore delegato della compagnia italiana, Paolo Scaroni, ha ribadito ieri che non firmerà nuovi contratti con Teheran ma si limiterà a rispettare quelli siglati nel 2001. Sempre Scaroni, nei giorni scorsi, aveva spiegato che Eni non lascerà il paese “a meno che a imporlo non siano cause di forza maggiore”, come potrebbero essere indicazioni del governo italiano o delle Nazioni Unite. Tuttavia è poco probabile che Roma spinga Eni a lasciare gli investimenti in Iran, che nel 2007 hanno fruttato qualcosa come 26 mila barili al giorno. Il futuro non si può ipotecare in maniera netta, dicono al Foglio fonti della Farnesina, ma la tendenza è quella di adeguarsi alle norme dell’Onu e ai più importanti fori diplomatici cui l’Italia partecipa. I missili iraniani, per il momento, hanno soltanto avallato le preoccupazioni degli Stati Uniti per la sicurezza internazionale. Secondo la tv di stato di Teheran, l’esercito ha portato a termine con successo il secondo lancio di Shahab-3 nel giro di 24 ore: i razzi sono in grado di raggiungere Israele e potrebbero essere armati con testate nucleari. Il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, ha ribadito che Washington difenderà gli “interessi degli alleati”. Nel Golfo, oltre alle vedette dei pasdaran, ci sono le navi dell’esercito americano impegnate nell’operazione “Stake net”, “rete per i salmoni”: cinque giorni di prove generali per un improvviso – ma non impossibile – confronto militare con l’Iran.
Sempre dal FOGLIO, un'intervista di Amy Rosenthal a Nathan Sharansky
L’Iran è “un regime non convenzionale che possiede armi non convenzionali”, un regime che “ricatta il mondo libero”, un regime che ha già avuto troppo tempo a disposizione per cambiare atteggiamento nei confronti della comunità internazionale. “Questo significa che la probabilità di una risposta militare diventa di giorno in giorno più concreta”. Natan Sharansky riassume la crisi iraniana in poche parole, test missilistici compresi: “Non stiamo parlando di democrazia qui, è un discorso che va oltre, è la sopravvivenza stessa della civiltà”. Di democrazia Sharansky se ne intende, non soltanto perché era un dissidente ebreo ai tempi dell’Unione Sovietica, ma perché ha scritto un libro nel 2005 – “The case for democracy” – di cui si è discusso tantissimo e che è finito nientemeno che sul comodino del presidente americano George W. Bush. Ora Sharansky ha scritto “Defending Identity: Its Indispensable Role in Protecting Democracy”, che John McCain ha già letto e apprezzato – “O sei disposto a morire per la libertà o non potrai mai difenderla”, ha detto a Sharansky il candidato repubblicano alla Casa Bianca. La tesi del libro è che identità e democrazia non sono in contrasto come vogliono farci credere quei “liberal progressisti il cui sogno è quello sintetizzato da Lennon in ‘Imagine’”. La canzone mitica di John Lennon “parla di un mondo senza religioni e senza stati in cui non ci sarà nulla per cui valga la pena morire”, spiega quasi inorridito Sharansky. Per Lennon e chi ha fatto di “Imagine” un inno, l’identità è un nemico da combattere, ma “i leader di al Qaida e Hezbollah sostengono proprio che loro ci batteranno perché noi amiamo la vita laddove loro amano la morte. Che cosa intendono dirci? Che noi non siamo pronti a morire in nome di nulla”. Cioè rifuggiamo dalla nostra identità, cerchiamo di annacquarla illudendoci così di salvarci dall’odio islamista. “Ma la democrazia e l’identità sono alleate – dice Sharansky – Soltanto se sono concepite assieme possiamo avere la pace”. Non a caso, i regimi cercano di cancellare le identità. Quella di Sharansky stesso – “Ero un ebreo sovietico che doveva assimilarsi in tutto e per tutto al resto della comunità” – ma soprattutto di quella di quei dieci milioni di persone che il regime comunista uccise perché non ne tollerava la “diversità”. Eppure alla fine le identità religiose e nazionali hanno vinto, non si possono cancellare. Ma ci può pure essere identità senza democrazia, così si arriva al fondamentalismo, per questo “le società libere devono imparare non soltanto come godere della loro libertà ma anche come battersi per essa”. Molti iraniani l’hanno imparato. Si battono, si oppongono. Per quanto possono, naturalmente. “Non riescono a superare la linea del dissenso perché non sentono l’appoggio della comunità internazionale – accusa Sharansky – Dobbiamo boicottare il regime e non dobbiamo ricevere i leader di Teheran quando viaggiano all’estero”. Così la dissidenza può avere qualche speranza. L’Urss crollò grazie a un mix di dissidenza e deterrenza. Perché non può funzionare con l’Iran? “I comunisti credevano in un paradiso in questo mondo, gli islamisti credono in un paradiso nell’altro mondo. Uno scontro definitivo mondiale per i comunisti significava la fine del loro sogno terreno, per i leader di Teheran questo non vale. La distruzione reciproca significa che loro andranno dritti in paradiso e che noi andremo dritti all’inferno. Le condizioni della deterrenza sono molto differenti”. E il tempo stringe, quel che si poteva concedere è stato concesso, l’ipotesi militare è sempre più concreta.
Da La STAMPA, un articolo di Maurizio Molinari:
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