L'UNITA' del 6 luglio 2008 pubblica un articolo di Umberto De Giovannangeli sui terroristi palestinesi non affiliati a nessun gruppo, che agiscono isolatamente.
La predicazione d'odio e di incitamento al suicidio-omicidio (detto "martirio") che sta alla base di questo fenomeno merita solo un cenno distratto.
I terroristi sono presentati come persone apparentemente irreprensibili, a volte modelli di generosità, che hanno subito i lutti della guerra.
Il risultato inevitabile sarà che molti lettori vedranno nel fenomeno una conseguenza delle azioni di Israele. Il che è il contrario esatto della verità: Israele non fa altro che difendersi da un terrorismo preesistente, aggressivo , non reattivo.
Ecco il testo:
Agiscono da soli. Mimetizzati da una vita «ufficiale» irrepresensibile. Coltivano nel segreto della loro mente un odio che li accompagna giorno dopo giorno. Fino all’attimo fatale. Quando divengono «shahid». Sono i «free lance» del terrorismo palestinese. Non sono inquadrati nei gruppi radicali dell’Intifada, non godono del loro sostegno militare e logistico. Compaiono dal nulla e lasciano il segno. Di sangue. Colpendo in una via affollata o seminando la morte in un collegio rabbinico. L’intelligence di Tel Aviv ammette la difficoltà di prevenire queste azioni, perché con i «free lance» del terrore non c’è infiltrazione che regga: agiscono da soli, al massimo con coperture familiari. Agiscono da soli. Come ha fatto Hussam Tayassir Dwayat, che a bordo di una gigantesca ruspa in una torrida mattinata di luglio (il 2) ha seminato la morte nella centrale Jaffa Road. (tre le vittime). Dwayat aveva 30 anni e viveva con la moglie e due figli nel sobborgo di Zur Baher, alla periferia di Gerusalemme Est. I vicini di casa lo descrivono come una persona tranquilla, dedito alla famiglia, un padre che dedicava molto del suo tempo ai due figli. Per anni Dwayat ha avuto come fidanzata una ebrea israeliana, ha rivelato la suocera dell'attentatore palestinese, spiegando che la relazione con la donna risaliva a un periodo precedente al suo matrimonio con una connazionale. Hoda Dabash, suocera dell'attentatore poi ucciso dalle truppe israeliane, ha raccontato oggi che l'ex fidanzata israeliana del figlio era stata ospitata per un mese e mezzo dalla famiglia di lui. L'uomo aveva anche fatto da padre a un figlio di lei, che adesso ha nove anni. Negli ultimi mesi, raccontano ancora i vicini, Dawyat si era chiuso in se stesso, e aveva avuto problemi di droga: si era avvicinato all'Islam, anche se non sembrava avere particolari simpatie politiche. Gli 007 dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano), hanno rovistato nella sua vita, giungendo alla conclusione che Hussam Tayassir Dwayat, non era inquadrato in alcuna delle tante fazioni armate palestinesi.
Come non era inquadrato Ala Hisham Abu Dheim, 25 anni. Di mestiere faceva l’autista. I suoi datori di lavoro raccontano di un giovane riservato, «parlava poco, mai di politica, ed era sempre puntuale...». Puntuale anche nel giorno dell’orrore. Quella notte del 6 marzo, quando «Hisham l’autista» fa irruzione nel Merkaz Harav Yeshiva, il più importante collegio rabbinico di Gerusalemme, nel quartiere di Kyriat Moshe, noto centro di studi ebraici vicino al movimento dei coloni. Hisham, travestito da studente, raggiunge l’ingresso del collegio e si dirige verso la biblioteca, in quel momento affollata di studenti intenti alla lettura. In un attimo si scatena un inferno di piombo. Il bilancio è di nove morti (otto studenti più l’attentatore) e sette feriti. Hisham Abu Dheim aveva passaporto israeliano e abitava a Gerusalemme Est. Aveva lavorato come autista anche nel collegio che quella notte aveva trasformato in un campo di battaglia. Anche lui era un «free lance» del terrore. Hisham veniva da una famiglia benestante, molto conosciuta: Hisham, racconta suo cugino Yad, era una persona semplice, lavorava come autista, era religioso certo, ma non integralista. Doveva sposarsi con Rihad, 17 anni; stava allestendo l’appartamento in cui sarebbe andato a vivere con la moglie, sempre nella grande casa della famiglia. «Nessuno in famiglia si occupa di politica», ripete Yad.
Persone all’apparenza irreprensibili, se non addirittura un modello di generosità. Come Wafa Idris, la prima donna-kamikaze palestinese. Wafa Idris era una volontaria delle squadre di pronto soccorso della Mezzaluna Rossa, una che curava feriti e salvava vite umane. «Voleva essere d’aiuto, ne traeva grande soddisfazione», è il ricordo di Wael Qadan, direttore della Mezzaluna Rossa di Ramallah. Wafa Idris il 28 gennaio 2002 si è fatta saltare in aria in Jaffa Street: oltre se stessa, ha ucciso una guida turistica di 81 anni e ferito alcune dozzine di persone. Wafa aveva 28 anni. Qualche mese prima si era iscritta a un corso di specializzazione che sarebbe dovuto cominciare in marzo e che l’avrebbe qualificata a dedicarsi esclusivamente, a tempo pieno e professionalmente, e dunque non più solo come volontaria, agli interventi di assistenza medica urgenti.
Nelle prigioni israeliane vi sono 75 terroriste palestinesi che hanno tentato un’azione suicida, o l’hanno progettata o hanno fiancheggiato altri attentatori. Tra le 75 c’è Samaa Atta Bader, 23 anni di Nablus, laureanda in legge dell’università Al-Najah: «Io - racconta - ho deciso di sacrificarmi per vendicarci uccidendo più soldati che potevo». Samaa è stata arrestata, in seguito ad una soffiata, il 16 giugno 2004. Ha detto che non ha avuto bisogno di particolare preparazione ideologica, giacché aveva sentito parlar molto a scuola della «shaidada » (il martirio) e poi, ha aggiunto, «il 99% dei miei amici che hanno avuto fratelli o parenti ammazzati è pronto al sacrificio».
Hussam, Hisham, Wafa, Samaa...Sono solo alcuni dei terroristi «free lance». Un frammento di un terrorismo che si proietta su scala mondiale, più pericoloso perché invisibile, anonimo e autonomo da ogni organizzazione e comando superiore, centralizzato. I nuovi terroristi, rimarca Jason Burke, tra i più autorevoli studiosi di Al Qaeda, saranno «operatori free lance» privi di connessioni palesi con i gruppi tradizionali.
Non solo Gerusalemme ma anche altre città israeliane hanno conosciuto la determinazione feroce di questi terroristi dal volto «angelico». Come era quello di Hanadi Taysir Jaradat. Hanadi, 29 anni, aveva studiato in Giordania ed esercitava la professione di avvocato a Jenin, in Cisgiordania, sua città natale. Jenin, tristemente nota come la «capitale» dei kamikaze. È il 4 ottobre 2003, quando una potente esplosione in un ristorante sul lungomare di Haifa, città portuale nel nord d’Israele, provoca 19 morti, tra cui cinque bambini fra i due e i quattro anni, oltre una cinquantina di feriti. A farsi saltare in aria è Hanadi Taysir Jaradat, la kamikaze dalla faccia d’angelo. Si è voluta sacrificare, spiegarono i familiari, per vendicare il fratello e suo cugino, ambedue miliziani della Jihad islamica uccisi dalle truppe israeliane. Sono solo alcune storie esemplari di una lunga gallerie di terroristi «free lance», di uomini e donne della «porta accanto» che un giorno hanno spalancato le porte dell’inferno.
Sempre dall'UNITA' un articolo, ripreso da The Indipendent, su un serial televisivo israeliano che affronta il tema del conflitto con i palestinesi:
Durante Good Intentions (NdT, Buone intenzioni), una fiction televisiva molto innovativa che va in onda in prima serata sul secondo canale della televisione israeliana, c’è un momento in cui una delle due protagoniste dal carattere d’acciaio lascia un messaggio in segreteria all’altra che si appresta a salutare il figlio che parte per il servizio militare obbligatorio. «Volevo solo augurarti buona fortuna per tuo figlio», dice. «Spero che torni sano e salvo».
Sembrerebbe una cosa del tutto normale. Ma la novità sta nel fatto che la donna che lascia il messaggio in segreteria si chiama Amal, è una palestinese di Ramallah il cui fratello è paralizzato dalla cintola in giù a seguito dei colpi sparatigli contro da una pattuglia israeliana, ha appena attraversato un odiato posto di blocco israeliano tornando a casa dal lavoro e fa di tutto per proteggere la figlia dai pericoli e dalle durezze della vita sotto l’occupazione israeliana.
Entrambe le donne sono chef e nella fiction sono protagoniste di un programma televisivo di cucina ideato dagli scettici e ignoti responsabili dell’emittente con l’esotico intento di affiancare ad una presentatrice israeliana una presentatrice palestinese. Il legame che si stabilisce tra le donne è rafforzato dall’implacabile opposizione che ciascuna di loro incontra nel proprio ambiente di amici e familiari estremamente nazionalisti. Il marito di Tami, che in passato, quando era nell’esercito, ha sparato ad un palestinese disarmato, è arrabbiato e imbarazzato per il fatto che la moglie cucina in pubblico con il nemico. La donna con la quale gestisce il ristorante, il cui marito è stato ucciso quando si trovava sotto le armi, la lascia per un locale concorrente perché disapprova la sua decisione di condurre lo show e suo figlio le dice che lavorando con una palestinese «lo mette in pericolo come soldato».
In Cisgiordania Amal affronta problemi altrettanto seri e dolorosi. Suo fratello la considera una collaborazionista perché lavora con il nemico anche se Amal ha accettato il lavoro solo per mantenerlo e aiutarlo. «È cibo di co-esistenza?», le chiede sgarbatamente mentre respinge un piatto che Amnal ha cucinato per lui. Sua figlia dodicenne viene picchiata dai compagni di classe. «Mi hanno detto che mamma collabora con gli israeliani e che la debbono uccidere», dice la bambina al nonno.
Parlato per lo più in ebraico e arabo - con sottotitoli in entrambe le lingue - Good Intentions è cio che il regista Uri Barabash, cineasta israeliano che ha avuto la nomination all’Oscar e ha studiato negli anni ‘70 alla London Film School sotto la guida di Mike Leigh, definisce giustamente una “svolta” nel panorama della televisione israeliana. Il popolare programma Arab Work, trasmesso di recente dal secondo canale, era una sitcom nella quale gli arabi sono cittadini israeliani e il conflitto israelo-palestinese è completamente assente. Invece in Good Intentions il conflitto è onnipresente. E non si tratta di una commedia, bensì di un dramma a tinte forti sceneggiato dallo scrittore israeliano Ronit Weiss-Berkovich.
Ma dice Barabash: «la cosa veramente importante è che il canale più seguito e tradizionale della televisione israeliana trasmette in prima serata una volta la settimana una fiction che si svolge per metà a Ramallah, in arabo e che ha per protagonista una famiglia palestinese. Ne sono molto felice e orgoglioso».
La società Reshet che fa capo all’emittente televisiva ha dovuto faticare non poco per convincere i dirigenti della rete a trasmettere Good Intentions. L’ispirazione è venuta dal Parents Circle-Families Forum (Pcff), una organizzazione di base di famiglie israeliane e palestinesi colpite nei loro affetti dal conflitto. Una delle esponenti più in vista dell’organizzazione è Robi Damelin, il cui figlio ventottenne, David, riservista dell’esercito, è stato ucciso da un cecchino palestinese nel 2002.
La signora Damelin, che è convinta che «l’occupazione stia distruggendo la fibra morale di Israele», per diversi anni ha viaggiato molto in patria e all’estero per far conoscere gli obiettivi del Pcff insieme ad Ali Abu Awwad, un palestinese della prima Intifada che ha trascorso diversi anni in carcere e il cui fratello, Yousef, è stato ucciso con un colpo d’arma da fuoco da un soldato palestinese ad un posto di blocco, ora convinto fautore della resistenza non violenta.
Robi Damelin considera Good Intentions una «insolita occasione per Israele di dare uno sguardo dall’altra parte e viceversa, di cogliere l’aspetto umano del cosiddetto nemico».
Ad un certo punto l’organizzazione ha redatto in tutta fretta una proposta indirizzata all’UsAid (NdT, Agenzia Usa per lo sviluppo internazionale) per la concessione di un finanziamento da utilizzare per la realizzazione di una serie televisiva. «Può immaginare la nostra sorpresa quando abbiamo saputo che la nostra richiesta era stata accolta», dice Robi Damelin. Ma se la donazione dell’UsAid di circa 750.000 dollari - tra un terzo e la metà del costo di produzione totale della fiction - ha certamente contribuito a far decidere la Reshet, la signora Damelin resta convinta che la rete ha mostrato un «incredibile coraggio» decidendo di trasmettere la serie.
Il Pcff ha organizzato un incontro tra gli attori della fiction e otto palestinesi e otto israeliani che hanno raccontato le loro storie personali di lutti e sofferenze. Per Clara Khoury, la trentunenne attrice araba israeliana che interpreta il ruolo di Amal, si è trattato di una esperienza «veramente toccante e profonda». Clara è stata particolarmente colpita da una donna palestinese della Cisgiordania, Shireen, il cui fratello era stato ucciso con alcuni colpi d’arma da fuoco dai soldati israeliani. «Questa persona così forte mi ha dato il coraggio di calarmi nei panni del personaggio», dice Clara, aggiungendo che già prima «mi piaceva l’idea della serie. Ho accettato la parte senza nemmeno leggere il copione».
Il segreto consisteva nel piazzare quella che il produttore Haim Sharir definisce una “trappola” per indurre i telespettatori israeliani a non cambiare canale come solitamente fanno quando si parla del conflitto israelo-palestinese e per coinvolgerli emotivamente al punto tale da far capire anche “il punto di vista dell’altro”.
Haim Sharir e Barabash sono arrabbiati per il fatto che la rete ha deciso di trasmettere le prime cinque puntate in concomitanza con i campionati europei di calcio tanto che l’audience è stata di appena 600.000 telespettatori, ma sono soddisfatti perché la serie è stata venduta in molti Paesi stranieri.
Quando le ho chiesto se la fiction aveva attirato l’interesse dei telespettatori palestinesi, Clara Khoury mi ha detto che le erano giunte notizie confortanti e positive, anche da amici che abitano a Ramallah. E ora anche l’emittente araba Al Jazeera si è mostrata interessata a trasmettere la serie - e in questo caso la vedrebbero milioni di persone in tutto il mondo arabo.
Sharir è convinto che la storia sia adatta all’emittente satellitare «sempre che si sia disposti a mostrare gli altri per come veramente sono».
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