Cronache dall'Islam quotidiano. Da Kabul, sul CORRIERE della SERA di oggi, 22/06/2008, a pag.15, un servizio di Lorenzo Cremonesi su Sayed Parwz Kambakhsh, il reporter in carcere a Kabul dove rischia la morte per aver sostenuto la parità delle donne. Sempre sul CORRIERE della SERA, la cronaca di Viviana Mazza sulla stentessa iraniana finita in prigioni per aver denunciato il professore che la molestava. Su l'UNITA', a pag.11, un servizio di Roberto Anselmi su Hana Abdi, femminista ventenne condannata a 5 anni per CORRIERE della SERA: Rischia la morte per aver sostenuto la parità delle donne |
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«L'Italia ha contribuito alla ricostruzione del sistema giuridico, ma qui siamo ancora dominati da giudici medievali» DAL NOSTRO INVIATO KABUL — Il parlatoio del carcere distrettuale in centro città è uno stanzone lungo e sporco, diviso a metà da una grata arrugginita cementata al soffitto e al pavimento. Dove i fori sono troppo larghi, i secondini hanno aggiunto filo di ferro. Ma, nella confusione di grida e decine di persone accalcate le une sulle altre, non riescono a bloccare il passaggio di banconote, bigliettini, persino piccoli dolci dal pubblico ai detenuti. All'entrata una guardia ha requisito i cellulari e firmato in pennarello il suo nome sul polso dei visitatori. «Così non vi confondete con i prigionieri», spiega. Pochi secondi di attesa appoggiati a un bancone di cemento scrostato ed ecco apparire il «blasfemo». «Sayed, Sayed», lo chiama il fratello Yaqub. Si riconoscono immediatamente. Il prigioniero sorride. Appare meglio di quanto potrebbe essere dopo 8 mesi di cella e una condanna a morte. Capelli neri a spazzola, le occhiaie, ma lo sguardo vivo, attento. L'aiutano i suoi 23 anni, la fibra forte, e forse anche l'intima certezza di essere nel giusto. «Sono un prigioniero politico. Le accuse nei miei confronti sono assurde, artificiali», dice ad alta voce, quasi gridando per sovrastare la ressa. Aggiunge che è in cella con otto detenuti comuni: «Nessun assassino, solo ladri, che non mi disturbano. Però non esco mai nei corridoi, temo che qualche militante filo-talebano possa cercare di uccidermi, come avevano minacciato nel carcere di Mazar-e-Sharif». Pensi davvero che le donne abbiano gli stessi diritti degli uomini? Riscriveresti oggi quello che hai scritto su Internet l'anno scorso, e cioè che se per il Corano un uomo ha diritto a quattro mogli anche una donna dovrebbe poter avere quattro mariti? Lui ci pensa sopra un attimo, poi replica: «Certo che le donne sono eguali agli uomini. Sono solo alcuni mullah estremisti a distorcere il Corano per affermare le loro interpretazioni. Ma altro non voglio dire, rischio di pregiudicare la mia posizione processuale. Purtroppo temo che il presidente Karzai non mi aiuterà, è troppo occupato a ingraziarsi i circoli religiosi più conservatori nella speranza di vincere le elezioni dell'anno prossimo. Ma, visto che parlo a un giornale italiano e che l'Italia ha contribuito a finanziare la ricostruzione del nostro sistema giuridico, vorrei dire che qui siamo ancora dominati da giudici medioevali. Non servono tribunali nuovi, se poi gli amministratori della legge sono vecchi». È disarmante incontrare in carcere Sayed Parwez Kambakhsh: uno dei casi più indicativi di una nazione che ha perso le speranze sorte dopo la sconfitta talebana del 2001 e ora sta rapidamente ricadendo nelle lotte tribali tra signori della guerra e sotto il dominio delle teocrazie religiose più conservatrici. Lo scorso 27 ottobre Sayed viene infatti arrestato dai servizi di sicurezza interni nella sua città natale, Mazar- e-Sharif, con l'accusa di «ehaant be Islam», il termine usato dalla «Sharia» (la legge religiosa) per i blasfemi. I fatti sono ancora sotto inchiesta. Lui, studente di giornalismo, ha mandato via e-mail ai compagni un articolo di un intellettuale iraniano dove si sostiene che le donne dovrebbero avere gli stessi diritti degli uomini, anche in materia di matrimonio. Secondo il pubblico ministero, avrebbe aggiunto del suo. La difesa nega. Il fratello, Yaqub Ibrahimi, è tra l'altro noto per le sue inchieste contro droga e corruzione, che danno un mucchio di fastidio ai signori della guerra e mafiosi locali. La vicenda è raccontata dai media di tutto il mondo. E tanta fama lo trasforma in vittima. Sostiene di essere stato torturato e messo al buio in cella d'isolamento. Yaqub assieme alle associazioni dei giornalisti locali cercano di aiutarlo: da Mazar, dove è stato riconosciuto colpevole di avere offeso il Corano e la figura del Profeta e rischia la condanna a morte, viene trasferito per il processo d'appello a Kabul. «Ma è peggio che andar di notte. Qui il giudice capo, Abdul Salam Qazizada, è noto per i legami con le ali più conservatrici degli Ulema (i capi religiosi sunniti, ndr) e persino i mullah più filo-talebani», dice il suo avvocato, Afzal Nooristani, a sua volta già minacciato di morte perché ha accettato di difendere Sayed. Tra gli esponenti dell'Unione Europea è diffusa l'opinione che in qualche modo ne verrà fuori, magari spedito in sordina all'estero, come avvenne un paio d'anni fa per Abdel Rachman, il convertito al cristianesimo poi fuggito a Roma in esilio. Però non subito. Spiegano: «Se il caso di Sayed fosse avvenuto tre anni fa, Karzai sarebbe intervenuto immediatamente per liberarlo. Ma i tempi stanno cambiando. In Parlamento i conservatori stanno proponendo leggi degne del tempo dei talebani, per esempio il divieto alle donne di uscire di casa senza essere accompagnate da un uomo di famiglia. E Karzai sta cercando consensi tra i religiosi pashtun in vista delle presidenziali nell'estate 2009. Ecco perché non ha risposto agli appelli, neppure dopo l'ultima seduta del processo una settimana fa. Addirittura si è detto favorevole alla censura delle telenovelas indiane sulle tv locali». Lorenzo Cremonesi |
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L'UNITA':
Iran, cinque anni a femminista ventunenne. La Corte: ha complottato contro lo Stato
Pugno di ferro della Repubblica islamica contro le attiviste per i diritti delle donne, condannata anche la giornalista Parvin Ardalan vincitrice del premio Olof Palme
di Roberto Anselmi
Hana Abdi ha ventuno anni. Hana Abdi ne avrà ventisei quando le porte del carcere le si chiuderanno alle spalle. I capelli continueranno a crescerle sotto al velo, i lineamenti del viso le si faranno più duri. Sono lunghi cinque anni, a vent’anni. Un lustro che l’Iran le ruberà perché le sue battaglie per i diritti delle donne rappresentano un «complotto contro la sicurezza dello stato», un attentato alla rivoluzione. A dare la notizia della condanna della ragazza, fermata nell’ottobre dello scorso anno a Sanandaj nel Kurdistan iraniano e trattenuta a lungo senza un’accusa precisa e senza poter contattare un legale, è il quotidiano Kargozaran.
Se, come pare, il ricorso in appello contro la sentenza non sortirà effetti, Hana sarà rinchiusa per cinque anni a Garmi, remota località di frontiera nel nord ovest del paese al confine con la Turchia. Un esilio oltre che una carcerazione: un avvertimento per tutte le donne e gli uomini che lottano per la parità dei diritti. Quella di Hana è la condanna finora più dura mai inflitta ad un’attivista da quando, due anni fa, è stata lanciata una campagna, sostenuta anche dal Nobel per la Pace Shirin Ebadi, per raccogliere un milione di firme contro le leggi che discriminano le donne della Repubblica islamica. Questo provvedimento non è purtroppo un caso isolato. Altre quattro femministe sono state condannate a sei mesi di reclusione e a dieci frustate, con la possibilitò, però, di usufruire della sospensione. Sospensione alla quale può ricorrere, per sua fortuna, anche la giornalista Parvin Ardalan, condannata a due anni dopo che, in aprile, le era stato impedito di espatriare per andare a Stoccolma a ritirare il premio Olof Palme, il riconoscimento intitolato all’ex premier svedese assassinato che va alle persone che si sono impegnate nella difesa dei diritti umani. Quella per la tutela delle donne iraniane non è però una lotta tutta al femminile: Amir Yaqubali, giovane attivista, è stato condannato alla fine di maggio a un anno di reclusione per esser stato sorpreso in un parco di Teheran a raccogliere adesioni per la campagna femminista. Le condanne arrivano a pochi giorni dalla «Giornata di solidarietà con le donne», un giorno che dal 2004 è dedicato proprio alla difesa contro quelle discriminazioni alle quali si opponevano anche Hana e gli altri. Dopo l’arrivo al potere di Ahmadinejad ogni manifestazione e celebrazione di questo giorno è stata negata e nove attiviste sono infatti state fermate quest’anno mentre tentavano di tenere una riunione in una galleria d’arte di Teheran. Liberate l’indomani all’alba, l’incontro è stato comunque annullato. Una condanna al silenzio che riguarda un’intera nazione. Le leggi incriminate, e contro le quali si sta realizzando la raccolta firme sono quella che assegna ad una donna la metà della parte di eredità dei fratelli maschi, quella che attribuisce alla sua vita la metà del valore pecuniario rispetto all'uomo in caso di risarcimenti e ancora quella che dà alla sua testimonianza davanti ai giudici la metà del valore rispetto alla testimonianza di un uomo. La metà di tutto. La metà della dignità. Oltre al riconoscimento della parità legale, le attiviste per i diritti delle donne chiedono anche la revisione delle normative riguardanti il matrimonio e il divorzio nelle quali la posizione del marito è in larga misura privilegiata, e per la custodia dei figli quasi sempre riconosciuta all'ex marito. Tutte rivendicazioni che però non sono piaciute alla Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, che ha ammonito l'anno scorso le femministe a non «giocare con la Sharia». Con la libertà delle donne iraniane, invece, si può giocare liberamente. |
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