De Giovannangeli ci racconta che i bambini di Gaza soffrono per la guerra
ma non spiega che la colpa è di Hamas
Testata:
Data: 10/06/2008
Pagina: 10
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: I bambini di Gaza

L' UNITA' del 10 giugno 2008 pubblica un articolo di Umberto De Giovannageli sui bambini di Gaza.
Vi si legge di "bombardamenti" israeliani che appaiono indiscriminati (in realtà sono diretti contro i terroristi), di "sparatorie"il cui contesto non viene precisato, di "granate sparate da carri armati israeliani" che uccidono bambini sui campi di calcio, senza spiegare che i terroristi lanciano i kassam dalle vicinanze dei campi di calcio e delle case.
Si legge inoltre che "anche gli  aiuti umanitari sono soggetti a restrizioni. Aya, 4 anni, affetta da meningite ha atteso per tre mesi il permesso di essere curata in Israele. Dopo tanto penare, l’agognato permesso alla fine è arrivato, per Aya ma non per i suoi genitori, che non potranno quindi accompagnarla". Non viene spiegato che i terroristi hanno già cercato di utilizzare i permessi sanitari per compiere attentati.

Non mancano le informazioni false. Come quelle fornite da fotografie che mostrano Gaza al buio, e bambini che studiano alla luce delle candele.  Si tratta, come è stato documentato, di  un efficace spot propagandistico di Hamas.

Nel complesso, però, noi non intendiamo negare le sofferenze dei bambini palestinesi raccontate da u.d.g. Piuttosto, ciò che gli va rimproverato è il non indicarne le cause. Ad aver scelto la guerra contro Israele, a  condurla facendosi scudo dei civili, è Hamas. Israele risponde cercando di minimizzare le perdite civili dei palestinesi. Andrebbe spiegato ogni volta che si pubblicano reportage sui "bambini di Gaza". A meno di non voler servire la causa della criminalizzazione di uno Stato aggredito dal terrorismo.

Ecco il testo completo:


IL TERRORE si riflette nei loro occhi. La paura li accompagna dalla nascita. Hanno visto i loro genitori o amici morire. La violenza segna anche i loro giochi. Nabil, Ahmed, la piccola Zahira... Storie di una infanzia negata. Storie dei bambini di Gaza. Senza diritti, senza speranze. Dimenticati dal mondo

Rabh Masoud ha 8 anni e vice con i genitori e sei fratelli in un monolocale a Jabaliya, il più grande campo profughi nella Striscia di Gaza, vicino al confine con Israele. «Per dormire - dice - dobbiamo fare i turni - i miei fratellini sono terrorizzati dai bombardamenti. Piangono, e per giorni si rifiutano di uscire. Io provo a far loro coraggio, ma anch’io ho paura, tanta paura». Subhiya ha 6 anni e vive anche lei con la famiglia a Jabaliya. La sua salute non è buona. La bimba soffre di orifizio ovale, problemi di deambulazione, deviazione al setto nasale e ha un fragile sistema nervoso. Necessità di un’assistenza medica pressoché costante. Il padre di Subhiya è morto sotto un bombardamento. Ora la sua famiglia dipende interamente dagli aiuti umanitari delle organizzazioni non governative.
La vita bloccata dei bimbi di Gaza. Storie di sofferenze, patimenti, mancanza di tutto che marchia fin dai primi giorni la vita di bambine e bambine «ingabbiati» in quella enorme prigione a cielo aperto che è Gaza. Storie di vite bloccate. In attesa di un aiuto che tarda ad arrivare. Storie come quelle dei bambini della scuola elementare Omar Bin Abdul Aziz che tornati a scuola dopo la pausa invernale, hanno trovato le aule buie e fredde: in quella scuola, come nelle altre 400 della Striscia, la corrente elettrica è saltuaria e le finestre sono murate per proteggere gli alunni da proiettili vaganti. Storie di piccole vite appese a un filo. A Gaza anche gli aiuti umanitari sono soggetti a restrizioni. Aya, 4 anni, affetta da meningite ha atteso per tre mesi il permesso di essere curata in Israele. Dopo tanto penare, l’agognato permesso alla fine è arrivato, per Aya ma non per i suoi genitori, che non potranno quindi accompagnarla. Storie di bambini costretti a divenire «grandi» prima del tempo. Come Ahmed, 11 anni e 5 fratelli e sorelle più piccole. Ahmed deve mantenere la famiglia dopo che il padre, Nabil, è stato ucciso, due anni fa, in un raid di Tsahal a Khan Yunes, sempre nella Striscia. «La mera sopravvivenza è ormai lo standard di vita dei bambini di Gaza», sottolinea un recente rapporto dell’Unicef. I bambini di Gaza piangono per l’orrore e l’indifferenza. Uno studio della Queen’s University ha rivelato che il 90% dei bambini di Gaza sono state vittime dirette di gas lacrimogeni, perquisizioni alle proprie case, danni personali e testimoni di sparatorie ed esplosioni. Dall’inizio della seconda Intifada, settembre 2000, studi del Gaza Community Mental Health Programme, indicano che il 70% dei bambini non riesce a concentrarsi, il 96% ha paura del buio, il 35% si isola e il 45% soffre alti livelli di ansia e di stress. «Abbiamo visto che i bambini non vogliono uscire perché sanno che qualcosa di terribile gli può succedere in qualsiasi momento, sono aumentate le liti in casa, così come il numero dei minori con incubi o attacchi di panico», riferisce il dottor Fadel Abu Hin, specialista del centro.
L’infanzia cancellata. Come quella di Faysal, 6 anni, che da quella notte di fuoco, due anni fa, ha lo sguardo perso nel vuoto: quella notte, Faysal ha visto morire sua madre, Zahira, colpita da una pallottola vagante: a Rafah, era in corso un raid dell’esercito israeliano. Da quel giorno, il piccolo Faysal non ha più parlato. Se potesse parlare, Faysal racconterebbe una storia comune alla grande maggioranza degli 884mila bambini di Gaza, dei quali 588mila sono rifugiati. È la storia di Ayman, 13 anni, e della sua sorellina, Amira, 5 anni: le sparatorie e i bombardamenti hanno terrorizzato così tanto Amira, racconta Ayman, che «mia sorella continua a svegliarsi di notte urlando». Ayman ha un sogno: poter studiare. Ayman e i suoi fratelli leggono a lume di candela. A causa del blocco dei rifornimenti di carburante (imposto da Israele in risposta ai lanci di razzi da Gaza) l’elettricità è sospesa per 8 ore al giorno. «La notte - racconta - accendiamo una candela e fino a quando non si spegne facciamo i compiti...La scuola? È stata bombardata e da mesi siamo costretti a restare a casa...». «Una intera generazione di bambini giornalmente assiste sempre più a episodi di violenza , persino all’interno delle scuole. Uno studio della Birzeit University ha rilevato che il 45% degli studenti nella Striscia di Gaza ha visto la propria scuola assediata dall’esercito israeliano, il 18% ha assistito all’uccisione di un compagno di scuola e il 13% a quello di un insegnante», rileva Save the Children, la più grande organizzazione internazionale indipendente per la tutela e la promozione dei diritti dei bambini nel mondo. Ma i bambini di Gaza non hanno diritti. E neanche speranze. Bamini come Talal, 5 anni. che allo staff di Save the Children racconta: «Vado all’asilo ogni giorno da solo. Ho paura quando vado da solo. Ho paura che gli israeliani mi spareranno. Vorrei che fosse mia madre a portarmi all’asilo, ma mia madre è occupata. Mio padre è stato arrestato dagli israeliani e adesso è in prigione. Ho visto gli israeliani prenderlo. Non l’ho più visto d’allora».
A Gaza gioco e realtà s’intrecciano. Marchiati da un comun denominatore: la violenza. Fra la polvere e la sabbia nell’infuocata periferia di Gaza City, i piccoli palestinesi giocano alla guerra. Ma non a una guerra lontana, come fanno milioni di altri bambini del mondo, ma alla guerra vera, proprio quella che praticamente ogni giorno si combatte davanti alle loro case. La guerra con Israele. La guerra tra Fatah e Hamas. Realtà e gioco. «Se noi catturiamo un giocatore di Hamas - dice Ahmed, 11 anni, che nella battaglia indossa l’uniforme di Al Fatah - possiamo deciderlo di picchiarlo, oppure ucciderlo subito. Ma se l’altra squadra ha fatto uno di noi prigioniero, allora scambiamo i due giocatori, e torniamo alla pari...». La squadra di Hamas è appena riuscita a scoprire il nascondiglio di tre miliziani di Fatah: come a mosca cieca basta toccarli perché in questa finzione si considerino presi. Hamas adesso non ha nessuno dei propri giocatori da liberare, e così sfrutta il vantaggio. I tre giocatori avversari vengono fatti inginocchiare, urlano «aiuto, aiuto» ma secondo un copione che si ripete mille volte, vengono fucilati senza esitazione. «Boom, boom, boom», scandisce il bambino tenendo puntato il fucile di legno. Poi si ricomincia, con tre punti di vantaggio. Quel giorno Nabil, 9 anni, era fiero delle sue nuovissime scarpe da calcio. Nabil non vedeva l’ora di raggiungere i suoi amici nel campetto di calcio a Jabaliya. Nabil era in ritardo, e quei minuti gli hanno salvato la vita. Il campo di calcio era stato raggiunto da granate sparate da carri armati israeliani. Nabil ha visto morire quattro bambini. Dilaniati dall’esplosione. Ancora oggi, a distanza di mesi, Nabil piange mentre ricorda di aver visto la testa decapitata di suo cugino lanciata lontano dal suo corpo, dalle sue braccia e dalle sue gambe, lontano da dove stavano giocando a calcio. Piange mentre racconta la storia, il piccolo Nabil, e le sue lacrime gli fanno più male del suo dolore psicologico, dal momento che ha ustioni sugli occhi. Ricordo di un incubo che porterà sempre con sé.

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