Lacrime di coccodrillo
quelle di chi denuncia l'antisemitismo, ma non rinuncia alla demonizzazione di Israele
Testata:
Data: 10/05/2008
Pagina: 1
Autore: Umberto De Giovannangeli - Simone Collini
Titolo: Ebrei, L’Italia è il Paese dei Pregiudizi - Ebrei, L’Italia è il Paese dei Pregiudizi - Dario Fo: un errore non invitare anche i palestinesi
L' UNITA' del 10 maggio 2008 lancia l'allarme sull'antisemitismo in Italia.
L'articolo è di Umberto De Giovannangeli:


Non c’è solo l’antisemitismo militante, quello predicato e praticato dalle frange estreme della destra radicale tropo sbrigativamente «sdoganate» per calcoli elettorali. C’è anche un antisemitismo meno aggressivo ma non per questo da sottovalutare. È l’antisemitismo dei pregiudizi della «gente perbene», quello che si manifesta con una battuta, «sei tirchio come un ebreo», che svela pregiudizi e stereotipi duri da smantellare. È l’antisemitismo della porta accanto. La porta italiana. Vanno analizzati con grande attenzione i dati di un recente sondaggio condotto dall’Ispo di Renato Mannheimer. Con attenzione e inquietudine.
Perché dalle risposte degli intervistati emerge un quadro che certo non rassicura ma, al contrario, racconta di una società italiana ancora permeata da un virus letale. Letale per la costruzione di una cultura del rispetto verso l’altro da sé.
Il sondaggio, per l’appunto. Le risposte date mettono in luce un antisemitismo impastato di vecchi e nuovi pregiudizi con il collante dell’ignoranza. Quando si fa riferimento all’atteggiamento verso gli ebrei, si manifesta un 12% di antisemiti puri; un 11% con pregiudizi di tipo moderno; un 10% con pregiudizi di tipo classico; un ulteriore 11% con pregiudizi contingenti. Sommati insieme, fanno il 44% degli intervistati. Una cifra consistente, un dato preoccupante. Tanto più se lo si integra con un altra tabella, relativa alle risposte date alla questione «gli ebrei non sono italiani fino in fondo». Su questa affermazione, il 23% degli intervistati concorda mentre il 44% si dice «neutrale». Neutrale, che sa tanti di lavarsene le mani, o di guardare da un altra parte quando l’antisemitismo militante si mette in mostra. Diffidenza. Ignoranza. C’è tutto questo nelle risposte che delineano le dimensioni dell’antisemitismo della porta accanto.
Un antisemitismo di infausta memoria, quello che ci riporta agli anni tragici del ventennio fascista, al clima di caccia al «diverso» che portò alla promulgazione, nel 1938, delle leggi razziali. Ieri come oggi l’«ebreo», come per altri versi lo zingaro, incarna il simbolo della diversità, culturale, identitaria, di cui si diffida e che si vuole ghettizzare. Non c’è da stare tranquilli a leggere le risposte alla ricerca dell’Ispo. Perché quel 44% permeato di pregiudizi antisemiti, quel 23% per i quali gli «ebrei non sono italiani fino in fondo», danno conto di una ostilità che non ha trovato ancora validi anticorpi culturali. Ignoranza come apripista del pregiudizio. Alla domanda «quanti sono gli ebrei in Italia», il 56% degli intervistati risponde «non lo so», mentre il 20% sovrastima la presenza.
Dietro quel non lo so, si cela anche un disinteresse ostentato, quello che era comune al falso adagio degli «italiani brava gente», tanto brava da correre a denunciare la famiglia ebrea al gerarca sotto casa. Pregiudizio sotterraneo e ostilità manifesta: inquieta quel 12% di antisemiti puri, quelli che vedono ancora nell’ebreo il «male assoluto»; antisemiti puri che vanno a braccetto con quel 10% pervaso da pregiudizi di tipo classico, l’ebreo avido, manipolatore, controllore del mondo, deicida. E se non bastasse, ecco i portatori di pregiudizi moderni (l’11%), quelli che magari mascherano il loro antisemitismo dietro l’antisionismo che ha come bersaglio Israele, non per quello che fa (nella politica dei suoi governi), ma per quello che è, lo Stato ebraico. Sgomenta quel 39% secondo cui «gli ebrei hanno un rapporto particolare con i soldi», e fa venire il sudore freddo quell’11% per i quali «gli ebrei mentono quando sostengono che il nazismo ne ha sterminati milioni nelle camere a gas». L’odio contro gli Ebrei non è scemato.

L'articolo sull'antisemitismo è sovrastato da un'intervista di u.d.g. a Sari Nusseibeh che chiede a Israele un "risarcimento di verità",l'ammissione delle sue presunte colpe storiche nei confronti dei palestinesi.
Nusseibeh e De Giovannangeli dovrebbero ricordare che in Israele esiste già un aperto e libero dibattito storiografico.
Vi sono voci molto critiche nei confronti della storia patria e altre che, a nostro parere con validi argomenti, difendono l'epopea di un paese che è riuscito a sopravvivere nonostante le continue aggressioni di nemici intenzionati a distruggerlo.
Piuttosto, l'esigenza davvero pressante è che siano i palestinesi a fare i conti con la loro storia, in modo finalmente libero dall'ideologia. A quando una riflessione sulle 60 anni di inutili guerre per la distruzione di Israele, che hanno in realtà impedito la nascita di uno stato palestinese ?


«Ciò che chiedo è un “risarcimento di verità”, convinto come sono da sempre che la pace tra israeliani e palestinesi non può limitarsi a uno scambio di terre e alla definizione di nuove linee di confine. La pace, quella vera, è anche una rilettura non partigiana degli eventi che sessant’anni fa portarono alla nascita dello Stato d’Israele». Israele e i suoi sessant’anni, filtrati dal più autorevole e indipendente intellettuale palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est. «Quando penso a questi anni - riflette Nusseibeh - mi sembra di leggere una storia infinita di occasioni perdute da ambedue le parti, e in questa sagra di fallimenti si sono bruciate vite e speranze di intere generazioni di israeliani e palestinesi. Nel giorno in cui celebra se stesso, Israele dovrebbe guardare al di la del Muro e fare i conti con la sofferenza di un popolo che reclama il diritto a festeggiare anch’esso il proprio Stato ma che da sessant’anni è costretto a vivere da esule sulla propria terra. E così come mi sono sempre battuto contro ogni deriva militarista dell’intifada, condannando ogni azione che ha come obiettivo dei civili, con la stessa nettezza dico a Israele che il suo diritto alla sicurezza non potrà mai affermarsi con la forza delle armi, o attraverso le odiose punizioni collettive inflitte alla popolazione civile di Gaza, ma solo riconoscendo pienamente l’esistenza dell’altro da sé, dei suoi diritti, delle sue legittime aspirazioni. Per quanto mi riguarda, la mia battaglia non è per uno Stato in meno, Israele, ma per uno in più, la Palestina».
Israele celebra i suoi sessant’anni. Quella che per gli israeliani è una festa, per i palestinesi è la «Naqba», la Tragedia. È una dicotomia destinata a proseguire nel tempo?
«Spero di no, e mi batto perché non sia così. Ma occorre fare i conti con la realtà ed oggi la realtà dà un nome agli oppressi e agli oppressori. Negare questa realtà oggettiva vuol dire chiudere gli occhi di fronte al dramma quotidiano che investe un intero popolo, quello palestinese. Lei sa che io non ho mai lesinato critiche sia alla dirigenza di Arafat, che a quella di Hamas, ma le loro colpe per quanto pesanti non possono oscurare le responsabilità di Israele che hanno accompagnato la sua storia, dalla nascita ad oggi. Sottolineo questo dato, perché sono persuaso che per Israele sia più facile, meno doloroso, cedere dei territori occupati che rivisitare criticamente la propria storia, riconoscendo che la sua fondazione ha rappresentato una ferita ancora sanguinante per i palestinesi. Credo che la pace, per radicarsi davvero nei due popoli, non può fare a meno di questo risarcimento morale da parte israeliana…».
Un risarcimento morale, un coraggioso «revisionismo storico» possono bastare?
«Sono un presupposto fondamentale per rafforzare il dialogo e per supportare accordi di merito. Rivedere in senso critico la storia di questi sessant’anni significa, ad esempio, riconoscere da parte israeliana che quello dei profughi del ’48 non è un problema umanitario ma una questione politica, ed è tale proprio perché si riconosce che la nascita d’Israele ha determinato l’esodo forzato di decine di migliaia di palestinesi costretti ad abbandonare le loro case e i loro villaggi. Occorre partire da questa verità storica - che smonta la celebre quanto infausta affermazione di Golda Meir secondo cui la Palestina era “una terra senza popolo per un popolo senza terra” - per poi ricercare un compromesso accettabile per ambedue le parti. E lo stesso discorso fatto sul diritto al ritorno vale per Gerusalemme, la cui sovranità va condivisa».
Condivisione: un concetto ostile agli estremisti delle due parti.
«Condividere significa rinunciare a quella bramosia di possesso assoluto, possesso di terra e di verità, che è a fondamento dell’idea del Grande Israele o della Grande Palestina, disegni di grandezza che hanno alimentato solo ingiustizie e violenza».
Israele rivendica il suo essere l’unica democrazia impiantata in Medio Oriente.
«Ma i princìpi di democrazia di cui Israele si fa vanto contrastano apertamente con l’occupazione dei Territori e l’oppressione esercitata contro i palestinesi: democrazia e oppressione, come pace e colonizzazione, sono tra loro antitetici; l’occupazione dei Territori finirà per minare le stesse fondamenta democratiche di Israele. E di ciò la parte più aperta della società israeliana ne è pienamente consapevole e lo sono, in particolare, quegli intellettuali, donne e uomini di cultura con i quali ho cercato, assieme a tanti altri palestinesi, di far crescere un dialogo dal basso. Quel dialogo è il “sale” di una pace possibile».

A pagina 23 le falsità e la propaganda antisraeliana di Dario Fo hanno libero corso:

«È stato un errore non pensare di invitare subito, ma con lo stesso livello di importanza, gli scrittori palestinesi. Sarebbe stato un atto di fantasia eccezionale e avrebbe dato la possibilità a tutti di conoscere e di conoscersi meglio. Si è persa un’occasione storica». A Dario Fo non è piaciuta l’idea di invitare alla Fiera del libro come ospite d’onore Israele. «È stata data una proiezione falsa della situazione, si è finito per dare molta importanza ai sessant’anni dall’inizio di una vita nuova per Israele e si è tenuto in un silenzio assordante il problema della Palestina». Di questo silenzio il premio Nobel per la letteratura non ha voluto essere complice. Ma invece di unirsi alla schiera di chi vuole il boicottaggio e invece di sfilare oggi in corteo («se fossi stato qui avrei partecipato» risponde a chi glielo chiede) ha deciso di venire a Torino per mettere la sua voce sul piatto della bilancia: «Israele ha tutti i diritti di essere una nazione, ma dall’altra parte anche i palestinesi hanno il diritto di vivere, anzi di sopravvivere. E noi non possiamo liquidare la questione dicendo che sono affari loro. Abbiamo il dovere di entrare nel merito». Così Fo è arrivato al Lingotto, ha rinunciato alla promozione del suo ultimo libro (L’apocalisse rimandata, Guanda) e per un’ora ha intrattenuto insieme a Franca Rame una platea che a giudicare dagli applausi era decisamente d’accordo con la sua critica alla Fiera.
I campi profughi rasi al suolo dai bulldozer, i kamikaze, le torture, la chiusura dei rubinetti dell’acqua e dell’elettricità, un muro che è «un labirinto in cui le persone si perdono, anche spiritualmente», e naturalmente i morti ammazzati: Fo ha raccontato storie, citato cifre, ricordato date e episodi, col ritmo serrato di cui è capace. Poi ha lasciato che a chiudere fosse Franca Rame, con la lettura di una lettera che Nelson Mandela ha scritto al giornalista americano ebreo Thomas Friedman. Comincia con «caro Thomas», l’uomo che ha scontato 26 anni di carcere a causa della sua lotta contro l’apartheid, e il tono della voce con cui Rame legge è disteso. Ma le parole arrivano dure quando il Nobel per la Pace sudafricano scrive che «i palestinesi lottano per la libertà, l’indipendenza, l’uguaglianza, proprio come noi africani», quando critica il fatto che in Israele esistano due differenti sistemi giuridici per due differenti gruppi di abitanti, quando denuncia che «la Palestina non può essere il sottoprodotto dello Stato ebraico» e quando dopo aver ricordato che «l’apartheid è un crimine contro l’umanità» conclude: «Israele ha privato milioni di palestinesi delle loro proprietà e della loro libertà».
Il direttore della Fiera del libro Ernesto Ferrero ha ascoltato Dario Fo e Franca Rame, ai quali è legato da un’amicizia di vecchia data, gli applausi che le loro parole hanno suscitato nella sala gremita e le domande e le critiche provenienti da alcuni del pubblico. Poi ha risposto, pacatamente, difendendo la scelta di acconsentire alla proposta che è stata fatta più di un anno fa da alcuni comitati di invitare Israele e spiegando che diversi scrittori palestinesi si sono rifiutati di venire dopo aver saputo dell’ospite d’onore. «Mi rendo conto che il sessantesimo di Israele può aver influito su questa loro decisione e io non ho problemi a dire che oggi non c’è niente da festeggiare, che questi 60 anni sono una sconfitta collettiva», ha detto Ferrero puntando il dito contro lo stillicidio di morti da entrambe le parti e il fallimento di ogni processo di pace. «Così come non ho problemi a dire che se quelle di quest’anno sono state soltanto prove di dialogo, il discorso non finisce qui. Diciamo che abbiamo fatto il numero zero». Per il numero uno bisognerà aspettare l’anno prossimo, quando ospite della Fiera sarà l’Egitto.

L'UNITA' , dunque, denuncia l'antisemitismo, ma non rinuncia alla demonizzazione di Israele che lo alimenta

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