Dal CORRIERE della SERA un editoriale di Pierluigi Battista
E' destino di Israele accendere sempre smodate passioni di ostilità. Spesso si deplora che sia brutalmente liquidata come antisemita qualsiasi critica alle politiche israeliane. Lo ha anche insinuato, riferendosi maldestramente al capo dello Stato, Tariq Ramadan, che ha già ricevuto una risposta esemplarmente chiara da parte del presidente Napolitano, e che invece pare non abbia nulla da obiettare al rogo delle bandiere con la stella di Davide inscenato a Torino, lugubre antefatto coreografico del boicottaggio alla Fiera del libro. Ma se non è antisemitismo, come definire allora quella sistematica dismisura di giudizio, quell'eccesso lessicale, quel sovrappiù di concitazione che assegna da sempre a Israele il ruolo di bersaglio privilegiato dell'odio collettivo?
Si può criticare Israele senza passare ipso facto
per nemici degli ebrei, ci mancherebbe. Ma non suona già un po' singolare che passi come ovvia l'espressione «criticare Israele»? Cosa diremmo di un commentatore straniero che criticasse «l'Italia», oppure lo «Stato italiano» (o francese, o tedesco, o un altro qualsiasi)? Ricorderemmo l'elementare distinzione tra Stato e governo. Obietteremmo che un conto è l'Italia intesa come Nazione democratica che non spezza la sua continuità storica malgrado il variare delle sue (provvisorie) compagini governative. Tutt'altra le specifiche e circostanziate politiche attuate da un particolare governo. Si critica il governo Berlusconi, o il governo Prodi, non lo Stato italiano. Perché allora, nel caso di Israele, questa distinzione politica e lessicale è destinata a saltare? Certo che si può criticare il governo Olmert, o il governo Begin, o il governo Barak. Ma non lo si dice mai, o quasi mai, in questo modo. Le critiche si trasferiscono invece sullo Stato israeliano in quanto tale. Un trattamento speciale. Che peraltro allude obliquamente al cuore della «specialità» di Israele: il suo precario diritto all'esistenza, il pregiudizio che delegittima alla radice Israele come il frutto di un sopruso, di una mostruosa violenza storica. Uno dei pilastri dell'antisionismo. Ma davvero l'antisionismo non ha nulla da spartire con l'antisemitismo?
E non è inoltre molto strano che, almeno dal '67 ad oggi, non ci sia stata una volta, una sola volta in cui un qualunque governo israeliano (di destra o di sinistra, dei laburisti o del Likud) abbia meritato il consenso di chi è vigorosamente impegnato a sottolineare la distinzione tra antisemitismo e legittima «critica dello Stato di Israele»? Possibile che ogni governo israeliano commetta lo stesso errore, si macchi degli stessi crimini, affronti la questione palestinese nello stesso, catastrofico modo? E' possibile perché nella dismisura anti-israeliana è impossibile riconoscere che Israele sia una democrazia ricca di conflitti e diversità, a differenza di tutti i dispotismi da cui è circondato. Una società libera dove sono per primi gli storici israeliani a frugare negli archivi, per svelare anche le pagine meno luminose della nascita dello Stato che oggi gli incendiari torinesi delle bandiere vorrebbero impedire di celebrare. Nei libri di testo che circolano nei territori controllati dall'Autorità nazionale palestinese, Israele è cancellato dalle carte geografiche e si ricalcano tutti i luoghi comuni della propaganda antisemita. Israele è invece una società pluralista, dove si scontrano idee, giornali, partiti. Perché è così difficile ammetterlo?
È questa realtà che l'eccesso polemico anti-israeliano cancella drasticamente. Il trattamento speciale riservato a Israele consente una spietata radicalità di linguaggio impossibile da usare verso qualsiasi altra Nazione. La condizione degli arabi di Israele diventa per forza di cose raccapricciante «apartheid». La barriera difensiva antiterroristica che ha fortunatamente fatto crollare il numero di attentati suicidi in Israele si trasforma nella vulgata in un terrificante «muro» di segregazione e di infamia. Avallata persino da premi Nobel come José Saramago, la grottesca equiparazione tra Gaza ed Auschwitz diventa luogo comune, immagine che acquista addirittura una sua plausibilità. La politica verso i palestinesi viene ribattezzata «pulizia etnica», come l'apocalisse in Ruanda e il furore antialbanese di Milosevic.
Non è antisemitismo? Ma come definire allora questo insieme di pregiudizi che fornisce agli intolleranti impegnati nel boicottaggio della Fiera del libro il carburante ideologico ospitato da università come quella di Torino dove, ospite Tariq Ramadan, si spacciano falsità storiche come se fossero vere e si altera alla radice l'intera vicenda dello Stato di Israele lungo un arco di sessant'anni?
Giustamente Lucia Annunziata sulla Stampa esorta chi difende Israele a non lasciarsi afferrare dallo stesso demone della faziosità esibita dai suoi nemici. Eppure la cultura democratica occidentale dovrà pur spiegare come si fa a commuoversi per
Schindler's list e contemporaneamente restare indifferenti al negazionismo minaccioso di Ahmadinejad che, cancellando il primo, auspica un secondo Olocausto degli ebrei. Come si fa a conciliare le visite solenni nei campi di sterminio con l'imbarazzato silenzio che circonda la martellante diffusione nei media arabi di serial tv ricavati dai Protocolli dei savi anziani di Sion?
È questo silenzio che incoraggia i nemici di Israele a bruciarne i vessilli. A dare per scontato che contro Israele si possa dire tutto e che persino i suoi scrittori siano maltrattati come la personificazione del Male assoluto meritevole di boicottaggio. Altro che questione di ordine pubblico.
Da EUROPA un articolo di Victor Magiar:
«The State of the Jews has became the Jew of the nations ». Così, durante la seconda Intifadah, scriveva Yossi Klein Halevi dalle pagine del Jerusalem Report per definire la condizione di Israele nello scenario internazionale.
Una condizione costruita nel tempo grazie a una poderosa e decennale campagna fatta di deformazione e manipolazione dei fatti, di una progressiva revisione storica, di costruzione di una vulgata e di un immaginario che ha messo insieme luoghi comuni terzomondisti, reazionari, razzisti e panarabisti.
Processo, questo, scatenato da quando negli anni ’50 l’Urss, e quella parte di sinistra a lei legata, hanno abbandonato Israele per una più conveniente alleanza con i nuovi regimi arabi. Come d’incanto Israele, fino ad allora considerato “cuneo rosso nel medioevo arabo” divenne un “avamposto dell’imperialismo americano”; così come improvvisamente divennero “progressisti” i nuovi nazionalismi arabi che in realtà avevano perseguitato partiti e leader liberali, socialisti e comunisti. Da allora, confondendo “cause nazionali” e nazionalismi, leggendo come “lotta di liberazione” qualsiasi conflitto armato nel sud del mondo, si è riusciti a legittimare qualsiasi atto ostile nei confronti di Israele, lo stato del popolo ebraico.
Non sono le politiche dei governi israeliani a essere criticati, a torto o a ragione, ma la legittimità stessa dello stato di Israele a esistere, perché la nascita di Israele sarebbe macchiata da un peccato originale: la sottrazione di terra e la mancata costituzione di uno stato per il popolo palestinese.
Questa la tesi di sempre, questa la tesi di oggi, dei contestatori della presenza di Israele persino al Salone del libro di Torino. Costoro, sbadati o incolti che siano, dimenticano che la tragedia del popolo palestinese ha origine nel “rifiuto arabo” di trovare qualsiasi soluzione negli anni Quaranta (stato binazionale o spartizione in due stati), nel tentativo arabo di risolvere la questione con le guerre e con lo sterminio degli ebrei in Medio Oriente (’47, ’48, ’49, ’67), e infine nell’occupazione da parte dei regimi arabi delle terre destinate allo stato arabo palestinese.
Anche la vicenda dei profughi (e non solo quelli palestinesi!) trova origine nelle scellerate scelte sciovinistiche del primo nazionalismo arabo.
La nascita di Israele, secondo costoro, sarebbe una iattura, o avrebbe dovuto essere miracolosamente pacifica e indolore, senza guerre e spargimenti di sangue, senza profughi: ma nessuna nazione al mondo è nata così e il miracolo, forse, si sarebbe realizzato se non fossero stati eliminati i leader arabi favorevoli al raggiungimento di un accordo.
È dalla rimozione di queste verità storiche che trovano fondamento le posizioni antisioniste o quelle pregiudizialmente anti-israeliane, quelle insomma che pongono Israele sempre sul banco degli imputati.
Ma l’antisionismo non è solo questo: è anche la negazione di un diritto che viene (almeno nominalmente) riconosciuto a qualsiasi altro popolo. È quindi una “nuova” forma di antisemitismo, che discrimina gli ebrei non più come individui, ma come nazione.
Il fenomeno, che coinvolge non fasce marginali di società ma significative personalità della politica e della cultura, è così profondo che durante la celebrazione del Giorno della Memoria dello scorso anno, il presidente Giorgio Napolitano dichiarava a chiare lettere che bisognava combattere «ogni rigurgito di antisemitismo, anche quando esso si travesta da antisionismo: perché antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza, oggi, al di là dei governi che si alternano nella guida di Israele».
Una dichiarazione netta, che spiega con chiarezza perché il presidente Napolitano abbia deciso di inaugurare lui stesso il Salone del libro: giungere a negare spazio e legittimità alla cultura di un intero popolo, negare diritto di cittadinanza a libri e persone, è già un atto, una pratica politica, di vera discriminazione.
È un trattamento, questo, che non è stato riservato alla cultura di nessun altro paese, compresi quelli più razzisti, aggressivi, dittatoriali.
Accade solo con Israele. E la cosa più triste e beffarda è che la discriminazione, che ha sempre bisogno di un paravento di menzogna, si permette anche di manipolare temi per noi sacri, come quello della pace o dei diritti dei popoli.
Chiedo dunque ai contestatori di Torino, agli intellettuali che li guidano, se non sia più consono per degli amanti della cultura, per i paladini della pace, costruire “ponti” fra le due parti in causa, Israele e mondo arabo. Chiedo loro se non sia proprio la letteratura israeliana uno dei più formidabili strumenti per permettere, per sviluppare, il dialogo e la comprensione fra i popoli del Medio Oriente. È tempo, per chi voglia dare un contributo alla pace, di assumersi la responsabilità di chiamare le cose con il loro nome: l’antisionismo è antisemitismo; gli ebrei, come nazione, sono Israele, e Israele, oggi, è l’ebreo fra le nazioni.
Da Il MESSAGGERO, un editoriale di Giorgio Israel:
Per inviare una e-mail alla redazione del Corriere della Sera, Europa e Il Messaggero cliccare sul link sottostante
lettere@corriere.it ; Rubrica.lettere@europaquotidiano.it ; prioritaria@ilmessaggero.it