"Gaza, radiografia di una città-prigione", è il titolo dell'articolo di Umberto De Giovannangeli sull'UNITA' di oggi, 27/04/2008, a pag.13. Della retorica su Gaza non ci stupiamo, una retorica nella quale eccelle non soltanto Udg. Chissà perchè sono così pochi quei giornalisti che invece di fermarsi alla superficie delle cose (disoccupazione, scarsità di benzina o luce elettrica ecc.)non si chiedono invece il perchè vero di questa situazione. Cominciando in primo luogo a chiedersi se questo non è altro che il risultato della volontà degli stessi abitanti di Gaza, quando hanno votato il potere ad Hamas. C'è poco da scrivere che Gaza è una città-prigione, il carceriere ha un nome, Hamas, quel movimento terrorista che si occupa soltanto di fare guerra a Israele, invece di proccuparsi delle loro condizioni di vita. Ma Udg, al pari di molti, non sfugge allo strabismo di vedere in Israele il responsabile. Ecco il suo pezzo di oggi:
I Taxi collettivi fermi. Così pure le ambulanze. Chi può si arrangia con gli asini, altrimenti si resta a casa. Viaggio nella più grande prigione a cielo aperto del mondo: la Striscia di Gaza. Superaffollata, disperata, ridotta allo stremo. Assediata dall’esercito israeliano, in balia dei «signori della guerra» palestinesi. Il mondo chiude gli occhi di fronte alla tragedia quotidiana che riguarda un milione e mezzo di palestinesi, salvo riaprire, gli occhi, quando rabbia e frustrazione si trasformano in violenza senza sbocco.
Gaza, dove il 79% delle famiglie vive da tempo sotto la soglia di povertà (2 dollari al giorno) e non è in grado di provvedere al proprio sostentamento alimentare senza una qualsivoglia forma di aiuto esterno. Gaza, ovvero un territorio ostaggio dell’embargo, che ha peggiorato la povertà e la disoccupazione, reso inefficiente il sistema educativo, messo in ginocchio quello sanitario, distrutto l’apparato produttivo e reso dipendenti dagli aiuti 1,1 milione di persone, l’80% della popolazione. Gaza, dove il blocco israeliano ha fatto schizzare il prezzo della benzina a 5 euro al litro, come non accade in nessun altro posto al mondo. Dopo l’attacco compiuto lo scorso 9 aprile dalle milizie palestinesi contro il terminal petrolifero di Nahal Oz, dal quale entra nella Striscia ogni tipo di combustibile, le forniture sono state ulteriormente ridotte. Le consegne riguardano ormai solo il diesel industriale per consentire alla centrale termoelettrica di funzionare. Passa anche un po’ di gas da cucina, ma di benzina o diesel per auto private neppure una goccia. Quello che si trova sul mercato nero viene contrabbandato attraverso i tunnel e proviene dall’Egitto. Da giovedì scorso sono rimasti a secco anche auto e camion dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i profughi, che è stata quindi costretta a sospendere la distribuzione di aiuti umanitari a oltre 650mila persone. «Noi siamo l’unico servizio pubblico rimasto nella Striscia - racconta Filippo Grandi, vice commissario generale dell’Unrwa - serviamo il 70% della popolazione». Gaza muore. Nel silenzio complice della Comunità internazionale. Una denuncia della situazione nella Striscia arriva anche da «Medici senza frontiere». L’organizzazione umanitaria fa sapere che «le attività di soccorso medico nella Striscia sono gravemente ostacolate dalla penuria di carburante». Le équipe di Msf «sono state costrette a limitare le visite ai soli malati più gravi», afferma Duncan McLean, capo missione di Medici senza frontiere, «ovvero un quinto dei pazienti dei programmi di cure post-operatorie». Questa settimana, solamente la metà dei pazienti di Msf è potuta recarsi nelle strutture sanitarie dell’organizzazione. «Novanta persone in lista d’attesa - denuncia McLean - non possono ancora ricevere cure. L’arresto delle nostre attività può provocare, per la totalità dei nostri pazienti, un grave peggioramento del loro stato di salute generale. In questo momento, Msf funziona grazie a uno stock d’urgenza e ha un’autonomia di carburante non superiore a sette giorni».
Analoga la situazione delle altre strutture mediche di Gaza. «Il personale sanitario ha difficoltà a muoversi e in alcuni ospedali il tasso di assenza raggiunge il 40%. Le ambulanze devono anch’esse limitare i loro interventi unicamente ai casi d’urgenza», conclude il responsabile di Msf. «Non ci sono più diesel e benzina per le ambulanze, per gli autobus, per i camion, i generatori e le autocisterne… Le condizioni umanitarie a Gaza sono semplicemente spaventose», dice a l’Unità il capo dell’Unrwa nella Striscia, John Ging. Le scorte di carburante degli ospedali, aggiunge Ging, sono al di sotto della «soglia critica» e i rifiuti non vengono più raccolti. Se prolungata nel tempo, l’interruzione di forniture di combustibile rischia di causare una catastrofe umanitaria. «Ci troviamo costretti a scegliere tra tagliare l’elettricità ai neonati nelle nursery, ai pazienti che attendono un intervento in cardiochirurgia o interrompere le operazioni in programma», spiega il dottor Moaiya Hassanain dell’ospedale Shifa di Gaza City. I bambini - che rappresentano il 56% della popolazione della Striscia - sono quelli più a rischio. Recenti dati - rileva in un dettagliato rapporto Save the Children - rivelano un aumento esponenziale delle malattie croniche e della malnutrizione tra i bambini con meno di cinque anni che vivono nella Striscia di Gaza. In crescita anche il numero di quelli che soffrono d’insonnia , ansia e diarrea . La percentuale di bambini con problemi di anemia e diarrea ha subito un aumento rispettivamente del 40% e del 20% rispetto allo scorso anno. Altri dati agghiaccianti sono forniti dall’Oms (l’Organizzazione Mondiale della Sanità): il 40% delle donne di Gaza sono anemiche e 1 bambino su 3 è malnutrito. Alcuni di questi problemi sono strettamente legati alla qualità e alla quantità dell’acqua: ben il 40% della popolazione del territorio, ad esempio, ha accesso all’acqua solo per poche ore al giorno, anche a causa della mancanza di combustibile e pezzi di ricambio per far funzionare la rete di distribuzione, che rischia di collassare in ogni momento. La scarsità d’igiene è diventata un problema di primo piano per la salute. Un sistema fognario inefficiente e l’impossibilità di ripararlo, sottolinea il rapporto di Save the Children, implica che circa 40milioni di litri di liquame vengano scaricati ogni giorno nel Mediterraneo, con il conseguente rischio di epidemie tra la popolazione e di problemi ambientali duraturi. «Non possiamo supportare appieno i bambini con i nostri programmi di protezione, perché i nostri operatori non riescono più ad ottenere i permessi per entrare in territorio di Gaza dalla Cisgiordania. Non abbiamo più carburante per le nostre macchine e quindi non possiamo spostarci», sostiene David Bourns, capo delle attività di Save the Children nei Territori palestinesi. «Le famiglie - è il suo grido d’allarme - stanno soffrendo molto e la vita di migliaia di bambini è a rischio». Come non bastasse, i prezzi proibitivi che benzina e diesel hanno raggiunto sul mercato nero stanno provocando una spaventosa impennata nei costi di produzione (e quindi dei prezzi di vendita) per tutti i prodotti alimentari. Il prezzo del pomodoro è cresciuto del 1000%, arrivando a toccare quasi due euro. Il cocomero costa il 400%, il pesce azzurro (perché anche le barche funzionano a gasolio) il 500% in più. Prezzi folli in un’economia che già prima di questa crisi devastante era al collasso, con una disoccupazione che sfiora il 70%; dei 110mila dipendenti in passato impiegati nel settore privato ben 78mila sono ora senza lavoro; il 95% delle attività industriali sono sospese. Molti disoccupati hanno provato a reinventarsi un lavoro vendendo frutta e verdura porta a porta, con un asino e un carretto. Ma negli ultimi mesi anche il prezzo degli asini è salito del 60%, così come il costo del loro cibo. Questa è Gaza oggi. Se non un lager, certo un inferno, una gabbia isolata dal mondo dentro la quale si consuma la tragedia di un popolo.
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