Israele smetta di difendersi dal terrorismo, ritorni agli indifendibili confini di prima del 67, ceda la sovranità su Gerusalemme, accetti il ritorno dei profughi e dunque la sua distruzione per via demografica e... avrà la "pace".
E' quanto dice, in sostanza, Marwan Barghouti, terrorista palestinese in carcere con cinque ergastoli per cinque omicidi a Umberto De Giovannangeli, in un'intervista pubblicata da L' UNITA'del 10 aprile 2008.
U.d.g però si guarda bene dallo spiegare ai suoi lettori la vera portata delle parole di Barghouti e contribuisce all'inganno propagandistico di una proposta di "pace" che tale non è.
Ecco il testo:PARLA DA LEADER del popolo palestinese, l’unico in grado di ridare speranza e unità ad un popolo oggi privo di speranza e politicamente diviso. Parla da presidente in pectore, forte di tutti i sondaggi che lo indicano come il successore più accreditato di
Mahmud Abbas (Abu Mazen). Parla da un carcere di massima sicurezza israeliano, Marwan Barghouti, 49 anni,l’uomo simbolo della seconda Intifada, e attraverso i suoi avvocati, lancia un messaggio indirizzato a Israele: «La maggioranza del popolo palestinese - afferma Barghouti - è pronto ad una storica riconciliazione fondata sul rispetto della legalità internazionale e sul principio di due popoli, due Stati». Ed un primo passo in questa direzione, sottolinea il leader palestinese, è il «raggiungimento di un cessate il fuoco quanto prima possibile». Su un punto, Marwan Barghouti insiste con forza: «La pace per essere davvero tale, per poter durare nel tempo, per conquistare la grande maggioranza del popolo palestinese - afferma - non può essere la ratifica dei rapporti di forza ma deve fondarsi sul ripristino della legalità internazionale e sul riconoscimento del nostro diritto a vivere in pace in uno Stato che sia davvero tale e non un bantustan camuffato».
Alla speranza innescata dalla Conferenza di Annapolis si è sostituito il disincanto, la frustrazione, un senso di vuoto. Qual è oggi lo stato d’animo prevalente in campo palestinese?
«È vero: c’è rabbia, frustrazione, perché la mia gente si rende conto che al di là delle parole, la realtà è che Israele non dà seguito concreto alla dichiarata volontà di dialogo. La realtà è rappresentata dagli oltre 600 check-point che spezzano la Cisgiordania, che causano sofferenza e umiliazione quotidiane per decine di migliaia di palestinesi; la realtà sono le carceri israeliane ancora piene di prigionieri palestinesi; la realtà è una colonizzazione che prosegue».
Ciò significa fine della speranza?
«No, non è così che stanno le cose. Il popolo palestinese desidera fortemente vedere realizzato il proprio sogno di libertà, di indipendenza e pace, e sta attendendo la fine dell’occupazione israeliana».
Bush continua a ritenere possibile il raggiungimento di un accordo di pace entro il 2008. È una illusione?
«Tutto dipende da Israele, dal coraggio del suo governo a compiere l’atto che, esso sì, potrebbe portare ad un accordo di pace globale entro il 2008».
E quale sarebbe questo atto?
«La fine dell’occupazione, realizzando così una pace fondata sul principio di due popoli, due Stati. Ma per raggiungere questo obiettivo occorre che la costruzione degli insediamenti e la confisca delle terre palestinesi cessino immediatamente, mentre le istituzioni palestinesi a Gerusalemme devono essere riaperte. Riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, porre fine all’occupazione, liberare gli 11mila palestinesi incarcerati, sarebbe il modo migliore per Israele di celebrare i suoi sessant’anni. Sarebbe un investimento su un futuro di pace, perché Israele non avrà mai pace e sicurezza con l’occupazione».
Lei ha parlato della sofferenza quotidiana della popolazione palestinese e della necessità da parte di Israele di dare segnali concreti di apertura. Quali dovrebbero essere questi segnali?
«La rimozione dei posti di blocco, la fine degli arresti e delle uccisioni mirate, così come la fine dell’assedio a Gaza e la riapertura dei valichi di confine. Non è con le punizioni collettive inflitte a un milione e mezzo di palestinesi nella Striscia di Gaza che Israele rafforzerà la sua sicurezza. La fine del blocco di Gaza è un passaggio ineludibile per raggiungere un cessate il fuoco quanto prima possibile».
In precedenza, lei ha fatto riferimento a Gerusalemme. Qual è per Marwan Barghouti il futuro della Città Santa?
«È quello di una città aperta, capitale condivisa di due Stati, patrimonio dell’umanità. Una cosa è certa: nessun leader palestinese, neanche il più disponibile al compromesso, potrà mai sottoscrivere un accordo di pace che non contempli Gerusalemme Est capitale dello Stato indipendente di Palestina».
Uno dei nodi cruciali del negoziato riguarda il diritto al ritorno.
«È un diritto, appunto. Sancito da una risoluzione delle Nazioni Unite. Si può discuterne le modalità di attuazione ma non la sua fondatezza. Il popolo dei Territori non è altra cosa da quanti sono stati costretti a forza ad abbandonare nel 1948 le proprie case, i propri villaggi. Non ci faremo dividere».
Lei parla di pace e di unità, ma intanto in campo palestinese a dominare è la divisione. A Gaza governa Hamas. A quali condizioni è possibile riprendere il dialogo interno?
«La condizione è una sola: Hamas deve riconoscere che la prova di forza condotta a Gaza ha fortemente pregiudicato la causa palestinese, determinando una spaccatura senza precedenti nel movimento palestinese. Il dialogo è possibile se Hamas riconosce l’autorità dell’Anp e permetta così di tenere entro il 2008 libere elezioni per il rinnovo del Consiglio nazionale palestinese (il parlamento dei Territori, ndr.). In altri termini, Hamas deve rientrare nella legalità e non agire come un contropotere armato che vuol farsi Stato».
Qual è lo Stato palestinese per cui si batte Barghouti?
«È uno Stato plurale, dove sia garantita a tutti la libertà di espressione. Uno Stato realmente indipendente con il controllo totale del territorio e dei confini. Uno Stato che cooperi con i suoi vicini per cambiare in meglio il volto del Medio Oriente».
Tra i vicini con cui cooperare c’è anche Israele?
«La nostra lotta è per la costruzione di uno Stato, quello palestinese, e non per la distruzione di un altro Stato, Israele».
La forza di Hamas è anche nella crisi di Al Fatah, il movimento di cui lei, assieme ad Abu Mazen, è il leader più rappresentativo.
«Fatah ha bisogno di un rinnovamento profondo, solo così potrà riconquistare il consenso perduto. È necessario eleggere nuovi organismi dirigenti, votare per nuovi candidati, e includere donne, giovani, accademici: abbiamo bisogno di una nuova leadership, con le mani pulite. Sono convinto che la generazione che è cresciuta sotto l’occupazione israeliana, che ha dato vita alla prima e alla seconda intifada, che è in grado di capire la complessità del conflitto israelo-palestinese, deve essere alla guida».
Il presidente Abu Mazen appare intenzionato a non riproporre la sua candidatura alla presidenza dell’Anp. Molti vedono in lei il suo successore.
«Ho dedicato la mia vita alla causa palestinese, e per questo sono oggi in un carcere israeliano. Non mi sono mai sottratto alle mie responsabilità e non lo farò in futuro».
Anche da presidente?
«Anche da presidente»
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