L’invito a Israele è una vergogna per la cultura italiana Ma non partecipare secondo me è sbagliato Ala Al Aswani |
|
![]() |
Dobbiamo esserci per spiegare che Israele uccide bambini e malati e riduce
i palestinesi alla fame
Gamal Ghitani
Dalla prima pagina del CORRIERE della SERA, un intervento di Piero Fassino:
Caro Direttore,
chiunque abbia una coscienza democratica e voglia rivendicarla non può avere dubbi. Deve respingere nel modo più netto ed esplicito il boicottaggio nei confronti del Salone del Libro di Torino, «reo» di aver dedicato l'edizione 2008— nel 60˚ anniversario della nascita dello Stato ebraico — a Israele e alla sua letteratura.
Si deve dire no perché quel boicottaggio contesta lo strumento insostituibile e primario di qualsiasi convivenza civile: è attraverso i libri che il pensiero trasmette conoscenze, sapere, idee, cultura. I libri sono lo strumento con cui ogni civiltà e ogni popolo ha costruito la propria identità e ha conosciuto e riconosciuto le identità diverse da sé. Negare il libro significa negare ogni possibilità di dialogo, di socializzazione, di scambio, di relazione. È negare tutto ciò che è diverso da sé, proponendo così un mondo oppresso da integralismi, intolleranze, fanatismi e discriminazioni.
Non a caso ogni volta che si è voluto reprimere un popolo o una cultura o una religione, se ne sono bruciati i libri. E non a caso quell'odioso boicottaggio oggi è rivolto contro Israele, simbolo di un'identità che — proprio attraverso il Libro — è riuscita a sopravvivere a secolari discriminazioni, persecuzioni e pogrom e perfino all'immane tragedia dell'olocausto.
Un boicottaggio che — inaccettabile in ogni caso contro chiunque, quale che sia la sua opinione e la sua identità — risulta ancora più stolido e assurdo rivolto contro scrittori come Amos Oz, David Grossman, Abraham Yehoshua, Meir Shalev e tanti altri i cui libri contribuiscono ogni giorno ad affermare nel mondo libertà, tolleranza, solidarietà, multiculturalità, apertura all'altro e al diverso.
Ed è proprio questa la dimostrazione che quel boicottaggio ha l'esplicito significato di negare l'identità di Israele e il suo diritto a esistere. Il che deve rendere il boicottaggio tanto più inaccettabile proprio per chi — a sinistra — si dichiara in favore di una pace per due popoli e si batte perché anche i diritti dei palestinesi siano riconosciuti.
Non si può mai dimenticare che in Medio Oriente il conflitto non è tra un torto (la pretesa di Israele a esistere) e una ragione (l'aspirazione palestinese ad avere una patria), ma tra due ragioni. Sì, perché il conflitto in quella terra è tra due diritti: Israele ha diritto a vivere senza paura dei propri vicini, sicuro definitivamente del proprio futuro; e i palestinesi hanno diritto a vivere in un loro Stato indipendente. Sono due diritti ugualmente legittimi e soltanto riconoscendoli entrambi, entrambi potranno avere soddisfazione. Tant'è che ogni soluzione di pace ruota intorno al principio «due popoli, due Stati».
Chi invece per affermare il diritto dell'uno nega il diritto dell'altro, non lavora per la pace ma per tenere irrisolto all'infinito un conflitto che ogni giorno è fonte di nuove sofferenze.
Per queste ragioni al boicottaggio bisogna dire no. E quanto sarà più forte e corale, tanto più sarà possibile liberarsi di manicheismi culturalmente rozzi e politicamente irresponsabili.
L'intervento di Magdi Allam:
Prima che si realizzi l'infamia del boicottaggio arabo della Fiera del Libro di Torino, lancio un appello.
L'appello a tutti gli enti culturali e accademici italiani di aderire con dignità e orgoglio al boicottaggio degli scrittori e intellettuali che negano il diritto di Israele all'esistenza. Perché oggi più che mai questo diritto coincide con il valore della sacralità della vita che è il cardine della nostra civiltà occidentale.
Non è sufficiente resistere alle intimidazioni per la legittima scelta di riservare a Israele lo status di ospite d'onore. E guai se si cedesse al ricatto, accordando in extremis uno stand di «pari dignità» ai palestinesi, riesumando il vizio italico di dare «un colpo alla botte e uno al cerchio », per «accontentare tutti e non inimicarci nessuno». Perché è del tutto evidente che questa avanguardia ideologica dei neonazisti islamici e panarabisti mette in discussione il diritto stesso alla vita dello Stato ebraico. A loro non interessa che gli scrittori israeliani invitati siano di fatto strenui difensori del diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente che conviva pacificamente al fianco di Israele. Così come è indubbio che avrebbero inalberato il veto a Israele anche in assenza della contingenza del dramma che colpisce la popolazione di Gaza, vittima della dittatura e del terrorismo di Hamas.
Sbaglia pertanto il direttore della Fiera del Libro, Ernesto Ferrero, quando dice: «La Fiera non intende festeggiare o celebrare un evento che per gli uni è felice e per gli altri è luttuoso ». Il riferimento è alla ricorrenza del sessantesimo anniversario della nascita dello Stato di Israele. Ebbene, stiamo parlando di uno Stato pienamente legittimato dalla risoluzione 181 delle Nazioni Unite. Anche se, guarda caso, è l'unico Stato al mondo di cui a tutt'oggi si mette in discussione il diritto all'esistenza e, da parte di alcuni paesi burattinai del terrorismo islamico globa-lizzato, si predica e persegue l'obiettivo di distruggerlo. Ebbene, possiamo noi dichiararci equidistanti o equivicini tra chi difende e chi viola il diritto alla vita? No. Perché se lo facessimo rinnegheremmo noi stessi. Noi non possiamo che essere schierati, in modo esplicito e fermo, dalla parte del diritto all'esistenza di Israele. E quindi dobbiamo dire con grande chiarezza che siamo ben felici di festeggiare il sessantesimo della nascita dello Stato ebraico e condanniamo tutti coloro che immaginano che possa trattarsi di un «evento luttuoso».
Quanta ipocrisia da parte dei negazionisti di Israele, specie quelli in doppiopetto alla Tariq Ramadan e i nostrani dell'Ucoii, che sono riusciti a plagiare un Occidente debole e relativista, rivelandosi di fatto ancor più insidiosi di quanto non lo siano i terroristi islamici. Ebbene, se oggi vogliamo recuperare il valore della sacralità della vita e riscattare la nostra civiltà, non abbiamo altra scelta che affermare e difendere il diritto all'esistenza di Israele. Questo diritto deve diventare il parametro valutativo per accreditare e legittimare i nostri interlocutori. Sarebbe bello, ma mi rendo conto che è solo un sogno con l'attuale classe politica in cui ci sono delle frange addirittura colluse con i neonazisti islamici e panarabisti, che fosse proprio l'Italia, investita del caso della Fiera del Libro di Torino, a farsi promotrice in seno all'Onu di una risoluzione che consideri la negazione del diritto di Israele all'esistenza come un crimine contro l'umanità.
O forse è un sogno in assoluto in un Occidente che ha perso i propri valori e ha tradito la propria identità.
Una lettera di Giorgio Israel in risposta all'editoriale di Pierluigi Battista del 3 febbraio
Israele e la fiera del libro di Torino
Ho letto l'eccellente articolo di Pierluigi Battista «Stavolta sfidiamo il boicottaggio» (di Israele alla Fiera del Libro di Torino). Nel mio intervento sul
Foglio non ho inteso proporre atteggiamenti aventiniani, bensì dire che è irricevibile un invito a Israele sub condicione, menomato da bilanciamenti volti a calmare i contestatori: i ricatti dei violenti non possono essere premiati, soprattutto nella cornice della fatwa emessa da Tariq Ramadan («non si può approvare nulla che provenga da Israele»). La risposta di Battista «No, stavolta bisogna fare barriera» è quella giusta. Speriamo che diventi la risposta ufficiale.
Giorgio Israel
Una lettera di Abd al-Sabur Turrini del Coreis:
Lo sviluppo dell'Islam italiano
Dopo la vicenda della mancata visita dell'imam della moschea di Roma alla sinagoga per ragioni organizzative che preferisco non commentare, non posso esimermi dall'esprimere il dissenso nei confronti di chi, come presunto intellettuale musulmano europeo, invita la Fiera Internazionale del Libro di Torino a rinunciare a ospitare lo Stato d'Israele. Il congelamento della Consulta per l'Islam italiano a seguito delle reiterate esternazioni dell'Ucoii contro Israele ci spinge insieme ad altri più qualificati e affidabili consiglieri musulmani del ministro dell'Interno a costruire un'iniziativa condivisa che sappia orientare ben diversamente lo sviluppo dell'Islam italiano. La Carta dei Valori della cittadinanza e dell'integrazione che la Co.Re.Is. italiana presenterà a Torino l'11 febbraio in collaborazione con l'Umi, l'Unione dei musulmani in Italia di Abd al-Aziz Khunati, insieme alle istituzioni locali, a intellettuali come Younis Tawfiq e con il sostegno di parlamentari come Khaled Fouad Allam, apre a un confronto tra laici e religiosi, immigrati e autoctoni, chiaramente distinti da radicalismi e dalla politica estera. Sulla base di questa piattaforma, sarà ancora più chiaro che la visita a una sinagoga da parte di una delegazione musulmana non è una condizione al dialogo ma la sua naturale conseguenza, come abbiamo dimostrato a Milano incontrando i fratelli ebrei presso la loro sinagoga, visita che ci è stata ricambiata presso la nostra moschea al-Wahid, avviando così una collaborazione con l'Assemblea rabbinica d'Italia per un ciclo di incontri intitolato «Imam e Rabbini» in diverse città italiane, previsti in febbraio proprio a Torino e anche a Genova. Un confronto tra persone di fedi e culture diverse, ma di vera fede e di vera cultura.
Abd al-Sabur Turrini
Sempre da La REPUBBLICA, un articolo di Khaled Fouad Allam:
Platone afferma nella "Repubblica" che le cose andranno sempre male in politica finché i filosofi non diventeranno re nella città o i re non diventeranno seri filosofi. Ma quando il filosofo gioca a fare il re contraddicendo ogni spirito filosofico, è la saggezza che viene meno perdendosi nei meandri dell´ideologia.
È ciò che lo scrittore Jean Paulhan ribadiva nel suo saggio "Il terrore nelle lettere". Ed è ciò che sta succedendo nella grave questione del boicottaggio alla presenza di Israele a Torino per la fiera del Libro. Molti scrittori arabi e un famoso teologo dell´islam europeo, Tariq Ramadan, si oppongono a quella presenza. Io considero molto pericolosa questa presa di posizione. Non solo perché non distingue ciò che è uno stato nella sua formulazione politica da ciò che è uno stato in quanto comunità di culture, luogo in cui si scrive, si dipinge, si compone musica, nella gioia come nella sofferenza.
Vi è un altro elemento che considero fondamentale proprio per la riuscita di un dialogo fra i popoli e le culture, la questione della peculiarità dello stato di Israele: sono trascorsi sessant´anni dalla sua nascita, e se per molti della parte araba questo suona come una ferita, io ritengo che per noi arabi, anche arabi della diaspora, sia oggi necessario guardare a quell´evento da un´altra angolazione: vale a dire come la questione europea che si è delineata nel XX secolo con il dramma della Shoah. Cioè l´esperienza, impossibile da trasmettere, del male assoluto, della distruzione scientifica, «industriale», di un popolo, di una cultura, di una civiltà, che pone per l´Europa la questione della memoria. Israele è anche una bandiera, un esercito, un governo, una democrazia, ma per me rappresenta essenzialmente quell´esperienza dei limiti, che ha interrogato e continua a interrogare l´Europa intera.
Ogniqualvolta rifletto su tutto ciò trovandomi nell´emiciclo del Parlamento italiano, mi vengono i brividi a pensare che in quello stesso luogo sono state votate le leggi razziali. Bisogna che noi arabi cominciamo a capire che per la coscienza europea quella è stata l´esperienza del male assoluto; di qui il debito di riconoscimento che si è creato fra Europa e Israele. Tutti sappiamo che la presenza dello stato di Israele non cancella il conflitto attualmente in corso; ma la Fiera è un laboratorio di libertà per gli uomini per le culture; se viene meno questo, è l´umanità stessa che perde.
Con ciò non si deve assolutamente occultare la questione del dramma palestinese, l´urgenza di uno stato palestinese capace di vivere democraticamente accanto allo stato di Israele. Ma noi arabi, se vogliamo fare progressi, dobbiamo capire come sia fondamentale la questione dell´oblio e della memoria, del sangue e delle lacrime di un popolo martoriato che voleva anch´esso vivere pacificamente accanto agli altri popoli e che all´indomani di quella tragedia presentò al mondo un volto resuscitato. Per noi arabi è troppo grande il rischio di lasciarsi guidare da ideologie cieche, che rischiano di sconfinare in un nuovo antisemitismo; è tempo ormai nel mondo musulmano di pensare ad una teologia che sia capace di accogliere la questione della memoria della Shoah, è tempo di una teologia liberata, coraggiosa, ponte fra le storie e i mondi, per le generazioni future, per spezzare il monopolio di un fondamentalismo che è per me un´altra nakba (disastro), una nakba del pensiero.
Da La REPUBBLICA, un'intervista a Nathan Englander:
NEW YORK - Nathan Englander è sconcertato per le proteste che hanno accolto la decisione da parte del Salone del Libro di Torino di avere Israele come Stato ospite. La giovane rivelazione della letteratura ebraica e americana, l´autore di Per alleviare insopportabili impulsi e Il ministero dei casi speciali, parla di «censura inaccettabile» e di «atto di grande stupidità. «Non riesco a credere che si possa reagire in maniera così miope, ignorante e censoria», racconta trattenendo a stento l´emozione. «E francamente mi turba che le proteste provengano dalla sinistra. È legittimo avere una posizione anche durissima nei confronti della politica dello Stato d´Israele, ma cosa c´entrano gli scrittori? Cosa c´entra la cultura? C´è chi sostiene che si sarebbe dovuto invitare anche la Palestina. È un discorso che mi sembra pretestuoso e non mi convince affatto. Certo che bisogna rispettare e celebrare gli scrittori palestinesi, ma cosa c´entra ora con il fatto che un´istituzione culturale ha deciso di omaggiare gli scrittori israeliani, molti dei quali hanno peraltro posizioni molto critiche anche con il loro governo?»
Una delle accuse che viene fatte è che Israele è un paese fascista, e che la sua politica è di fatto una forma di apartheid.
«Ci sono molti aspetti su cui sono critico rispetto ad Israele, ma francamente sarei molto più cauto ad usare il termine fascista. Anche sulla questione apartheid il discorso è decisamente complesso ed eviterei le semplificazioni o gli slogan. Aggiungo che Israele è un paese dove la gente vota ed elegge democraticamente il proprio governo ed i propri rappresentati. Ma non vorrei cambiare discorso: il problema è culturale, ed il tema è quello delle libertà. Posso farle io una domanda?»
Prego.
«Cosa avrebbero detto coloro che oggi protestano se Torino avesse scelto l´Iran? Io penso che avrebbero sbagliato anche nel caso in cui avessero deciso di protestare. E mi spiego con un esempio: amo enormemente i film di Abbas Kiarostami e credo sia un bene e un arricchimento che possano essere visti in tutto il mondo. Un conto è la cultura e l´arte, un conto è il governo dell´artista in questione. Io rispetto profondamente il diritto di protestare, ma credo che se si arriva a posizioni di questo tipo si prende una strada pericolosissima e, magari senza volerlo, si offre il fianco o addirittura si diventa complici di chi ha paura dei libri. Questo è un principio generale, che vale a prescindere da ogni idea: io sono rimasto egualmente sconcertato quando ho letto di discriminazioni britanniche nei confronti di accademici palestinesi. Quello di cui ha bisogno il mondo è proprio la cultura: non si deve mai averne paura. Ma c´è un altro elemento controproducente in questo atteggiamento, che voglio chiarire con un altro esempio. Io ho vissuto cinque anni in Israele, ma sono americano. Non ho davvero nulla in comune con questa amministrazione, ma non avrei alcun imbarazzo a partecipare ad una manifestazione in cui gli Stati Uniti sono il paese ospite. Anzi: spero di poter essere invitato proprio per dimostrare e testimoniare la mia differenza con Bush».
Dalla DOMENICA del SOLE 24 ORE (3 febbraio 2008), un editoriale di Riccardo Chiaberge:
Alla Fiera del Libro del Cairo, la più importante del mondo arabo, in corso in questi giorni, succedono cose a dir poco singolari. Per esempio che la polizia egiziana sequestri all’aeroporto pacchi di libri considerati sovversivi o immorali. Come “For Bread Alone” del marocchino Mohamed Choukri, tradotto in inglese da Paul Bowles, e già boicottato in molti paesi musulmani per le sue scene di sesso e droga. Ma anche opere meno scottanti di autori occidentali, come “L’insostenibile leggerezza dell’essere” o “Il libro del riso e dell’oblio” di Milan Kundera. Di fronte a queste prepotenze ci saremmo aspettati qualche reazione della cultura locale: un mugugno, un ohibò, anche solo un colpetto di tosse da parte, tanto per fare un nome, del signor Mohamed Salmawy. Niente. Il giornalista egiziano, presidente dell’Unione degli Scrittori Arabi, non ha fiatato. Era troppo impegnato a indirizzare vibranti lettere di protesta ai responsabili di un’altra Fiera del libro, quella di Torino, colpevoli di aver invitato Israele come paese ospite. Questa scelta – ha dichiarato Salmawy – è una provocazione nei confronti degli arabi, “che non se ne staranno con le mani in mano”. L’intellettuale egiziano ha anche minimizzato l’importanza della “piccola Fiera” torinese, niente di paragonabile alle grandi manifestazioni tipo Francoforte, New York, Montreal e, appunto, Il Cairo. Ma se il Lingotto fosse davvero così irrilevante, perché tanto chiasso? Perché l’appello al boicottaggio, orchestrato da quattro gatti nostrani – forse tirati per la coda da qualcuno – è diventato subito una crociata?
In questo clima surriscaldato, c’è chi è arrivato a parlare di “militarizzazione della cultura”. Come se David Grossman, che ha perso un figlio nella guerra in Libano del 2006, o Amos Oz, o Abraham Yehoshua, o quell’Etgar Keret che ha scritto un libro con un palestinese, fossero dei guerrafondai “embedded” nelle truppe di occupazione. Israele è ospite d’onore anche al Salon du Livre parigino, che precede di due mesi l’appuntamento torinese: eppure lì, a parte qualche isolato dissenso, non si sono udite urla sediziose. L’insostenibile leggerezza dell’idiozia dev’essere una prerogativa italiana. Forse è bene ricordare che le aule della Sapienza e i saloni del libro sono luoghi di incontro e di confronto delle idee, non di scontro tra identità armate. E che in quest’era di fondamentalismi dovremmo tutti imparare l’arte del riso e dell’oblio di cui Kundera è maestro.
Ma intanto, suggeriamo ai censori della Fiera di Torino di fare un salto al Cairo. Stiano solo attenti a che libri si portano in aereo: lì la cultura non è militarizzata, preferiscono imbavagliarla.
Da L'UNITA' del 3 febbraio 2008, un intervento di Piero Fassino, Furio colombo ed Emanuele Fiano:
C’è qualcosa di estremamente paradossale, tradizionale e violento, nell’idea di boicottare la Fiera del libro di Torino, a motivo della centralità tematica dei sessant’anni dalla fondazione dello Stato di Israele. È paradossale che da certa sinistra estrema si invochi il boicottaggio della cultura; ma è purtroppo anche una tradizione che non tramonta in alcune parti di quella sinistra. Si colpiscono così le voci più limpidamente critiche della società israeliana, come quel David Grossman che ha rifiutato di stringere la mano ad Olmert, denunciando con forza quelli che erano per lui i tragici errori nella conduzione della guerra in Libano.
Ma sarebbe paradossale anche se si volessero colpire scrittori schierati a favore della politica del governo Olmert. Sarebbe estraneo all’idea di libertà nella quale noi crediamo; perché il boicottaggio contro la cultura di un intero Stato, è violenza politica.
Il vero dramma è che parte della sinistra radicale italiana, nonostante importanti evoluzioni in senso diverso, come la ferma contrarietà al boicottaggio espressa da Fausto Bertinotti, continui a ritenere Israele “cosa” distante dalla sfera dei valori progressisti, dalla storia del movimento socialista, dall’etica politica che ha contrassegnato il Risorgimento, da cui il sionismo discende e soprattutto dalla Liberazione dal nazifascismo.
Torniamo qui, perché è qui che continua a esserci un nervo scoperto: la festa dei sessant’anni della fondazione di Israele dovrebbe essere festa per tutti i progressisti, di tutto il mondo. Perché un popolo perseguitato ha trovato la sua legittima casa, perché uomini e donne in fuga dall’Europa hanno avuto una patria in cui riconoscersi e rifugiarsi, perché il Medio Oriente ha conosciuto in questo modo un’isola di democrazia e sviluppo, in un panorama di Stati non democratici, compresi quell’Egitto e quella Giordania sotto cui erano un tempo Gaza e la West Bank.
Qui non sono in discussione gli errori politici commessi da una governo o dall’altro, come non sono in discussione i diritti dei due popoli coinvolti, qui è in discussione il diritto ad esistere dello Stato di Israele, che dovrebbe essere patrimonio e impegno di difesa per tutti coloro che si riconoscono nella lotta al nazifascismo e alle leggi razziali e non è in discussione il diritto all’esistenza di uno stato palestinese che era stato proclamato insieme alla nascita dello stato di Israele e che sarà come hanno detto gli scrittori israeliani che ci apprestiamo a onorare a Torino, il destino e il futuro dei due popoli.
Stupisce che vi sia ancora chi non capisce a sinistra che boicottare Israele vuol dire boicottare ogni speranza di pace anche per i palestinesi; il boicottaggio sarebbe un atto di guerra in più in un aerea del mondo in cui mille voci da una parte e dall'altra implorano diritti, pace e dialogo.
Per questo ci schieriamo contro il boicottaggio della Fiera del Libro: non solo perché progressisti e amici di Israele, ma anche perché vogliamo una sinistra laica e aperta alla ragione. Ancora e sempre, l’amicizia con Israele è sinonimo di amore per la libertà e per il progresso.
Sinistra per Israele
Sempre dall'UNITA', l'intervento di Umberto De Giovannangeli:
I lettori de l’Unità hanno incontrato molte volte sulle pagine del nostro giornale Amos Oz, Abraham Bet Yehoshua, David Grossman, Meir Shalev. Sono tra i più autorevoli, affermati, e impegnati, scrittori israeliani. Giustamente conosciuti per i loro romanzi ma anche per il coraggio intellettuale con cui, spesso, levano critiche, anche aspre, alle decisioni dei governanti israeliani. Le loro voci raccontano della necessità del dialogo con i palestinesi, i loro scritti rivelano una dialettica interna a Israele che fa di quel Paese la più grande democrazia in Medio Oriente. Grande perché contiene queste voci critiche, perché non chiude gli occhi, ma anzi li spalanca per bene, davanti ai patimenti inflitti alla popolazione civile di Gaza dalla morsa imposta dall’esercito israeliano.
Queste voci saranno al centro della ventunesima edizione della Fiera internazionale del Libro di Torino. Un evento importante, una scelta impegnativa, che cade nel sessantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele. Scelta contestata da una parte delle forze politiche della sinistra radicale piemontese, e non solo. Dalle sue fila si alza una richiesta forte, estrema: boicottaggio. Boicottare per essere a fianco della gente di Gaza. Boicottare per denunciare il “regime dell’apartheid” istaurato da Israele in Cisgiordania. Niente di più sbagliato. E pericoloso. Per chi s’intenderebbe boicottare ma anche per coloro, i palestinesi, che in questo modo si vorrebbe sostenere.
Di letterario in questa vicenda c’è poco o niente. Ma c’è tanto di politica, di storia, di idealità. E di una seria riflessione sui nodi non sciolti del rapporto tra una parte della sinistra e Israele. Non si tratta solo di argomentare che questo boicottaggio andrebbe contro scrittori che criticano, a volte aspramente, il governo del loro Paese. L’arma del boicottaggio è stata in passato evocata, e in parte praticata, contro regimi ferocemente autoritari, contro dittature sanguinarie. Israele è anni luce distante da questi estremi. Il che non significa nascondere, e gli scrittori “boicottabili” sono i primi a non farlo, i guasti prodotti dalle politiche unilateraliste, dalla colonizzazione spinta nei territori occupati, dall’eccesso, non giustificato neanche dal sacrosanto diritto di difesa, nell’uso della forza militare, che hanno contraddistinto l’azione di governi israeliani. Ma il boicottaggio criminalizza non una politica, ma uno Stato. Mette alla gogna non un governo, ma un Paese intero. Ne cancella la dialettica interna. Disconosce la tragedia di chi ha dovuto fare i conti con un terrorismo che ha trasformato autobus, discoteche, ristoranti in luoghi da devastare e civili inermi in nemici da massacrare. Il boicottaggio finisce inevitabilmente per affermare una condanna senza appello per ciò che Israele è e non per ciò che i suoi governi fanno. Il boicottaggio nega il diritto di parola a chi fa della parola strumento di dialogo, e non per questo la si restituisce, con dignità e orgoglio, al popolo (palestinese) a cui si riconosce il diritto ad uno Stato indipendente. E bene ha fatto a ricordarlo lo scrittore arabo Tahar Ben Jelloun: «Dobbiamo distinguere. La politica di uno Stato non è assimilabile alla produzione letteraria degli scrittori di quello Stato». Boicottare gli scrittori israeliani significa disconoscere l’essenza che rendo unico il conflitto israeliano-palestinese, dove a scontrarsi non sono il Bene contro il Male, la Ragione contro il Torto, ma due diritti ugualmente fondati. Boicottare significa anche che la sinistra, o parte di essa, abbandona Israele per consegnarlo di fatto alla destra e a un destino di guerra: si tratterebbe di un gravissimo passo indietro rispetto alle importanti considerazioni, intelligentemente critiche e autocritiche, svolte da Fausto Bertinotti in un suo recente viaggio ufficiale in Israele.
Non c’è niente di più sbagliato, niente di più pericoloso del boicottaggio, specie quando a invocarlo è parte della sinistra. Perché i valori fondanti di Israele appartengono al mondo e ai valori della sinistra. Quell’Israele che si riflette, e si riconosce, nel discorso pronunciato in una piazza affollata di Tel Aviv dal boicottabile David Grossman il 4 novembre 2006, data dell’anniversario dell’uccisione di Yitzhak Rabin. A parlare non è “solo” lo scrittore ma è anche un padre che da poco ha perso un figlio ventenne nella guerra in Libano. «La morte dei giovani è uno spreco terribile, lancinante. Ma non meno terribile è che Israele sprechi non solo le vite dei suoi figli, ma anche il miracolo di cui è stato protagonista, l’opportunità rara offertagli dalla storia: quella di creare uno Stato illuminato, civile, democratico, uno Stato governato da valori ebraici universali. Uno Stato che sia dimora nazionale, rifugio e nuovo senso dell’esistenza ebraica. Uno Stato in cui parte essenziale dell'identità ebraica sia la completa uguaglianza con i suoi cittadini non ebrei». Così David Grossman, che non è “Israele” ma che di Israele non è voce isolata o inascoltata. Boicottare significa indebolire queste voci di libertà. Boicottare significa privarsi delle motivazioni e dell’impegno di tanti che intendono respingere la guerra come soluzione da una parte (israeliana) e dall’altra (palestinese). Boicottare significa isolare un popolo, prim’ancora che un governo. Boicottare significa chiudersi alla comprensione ed ergersi a “giustiziere” di verità. Boicottare è altra cosa da un legittimo, doveroso esercizio di critica. Boicottare è alimentare l’immagine, deviata e deviante, di un Paese, Israele, che avrebbe portato solo e sempre guerra ed evitato, e disprezzato, ogni iniziativa di pace. Così non è stato, così non è. E l’appuntamento di Torino è una preziosa occasione per ricordarlo. Un’occasione da non perdere.