Sull'UNITA' dell'11 gennaio 2008 Umberto De Giovannangeli intervista sulla visita di Bush a Gerusalemme e a Ramallah Yael Dayan.
Preupponiamo che u.d.g. riporti fedelmente le legittime opinioni dei pacifisti israeliani. Ma ci chiediamo: perché nella società civile e culturale israeliana, ad essere intervistati dall'UNITA' sono solo i pacifisti ?
Perché non dare spazio a voci differenti (come per esempio ha fatto il CORRIERE della SERAcon l'intervista allo storico Michael Oren riportata da Informazione Corretta)
Ecco il testo:
«Più che il sostegno al processo di pace, George W.Bush ha voluto rafforzare la leadership traballante sia di Ehud Olmert sia di Abu Mazen. Devo dire che ero rimasta delusa dalla genericità delle affermazioni fatte dopo gli incontri con Peres e Olmert, delusione che è stata in parte fugata dalle impegnative considerazioni fatte dal presidente Bush nel suo incontro con Abu Mazen. Se quelle espresse a Ramallah sono le reali intenzioni degli Stati Uniti, il processo di pace ha speranza di svilupparsi». A parlare è Yael Dayan, scrittrice, più volte deputata laburista, figlia dell’eroe della Guerra dei Sei giorni: il generale Moshe Dayan.
Come valuta i due giorni in Israele e Cisgiordania di George W.Bush?
«Deludente nella sua parte israeliana, incoraggiante in quella palestinese. La mia speranza è che a prevalere nei fatti sia questa seconda “versione” degli intendimenti americani».
Procediamo con ordine. Perché la delusione?
«Ho avuto l’impressione che la preoccupazione maggiore del presidente Bush sia stata di dare una mano ad un primo ministro, Olmert, in gravissima difficoltà e atteso tra poche settimane alla prova del fuoco quando sarà reso pubblico l’intero rapporto della Commissione Winograd sulla conduzione della guerra in Libano. Per questo ha evitato di calcare la mano su questioni cruciali per lo sviluppo del processo di pace, come il blocco della colonizzazione nei Territori e a Gerusalemme Est. L’altra preoccupazione che ha mosso Bush è stata quella di rassicurare Israele sul fatto che l’America non sottovaluta la minaccia iraniana. Diciamo che a Gerusalemme abbiamo visto all’opera un Bush “difensivo”, col freno a mano tirato…»
Mentre a Ramallah?
«Anche a Ramallah, come a Gerusalemme, Bush ha sostenuto un leader in difficoltà, ma lo ha fatto alzando il tiro, con affermazioni impegnative che mi auguro siano supportate dai fatti: penso all’impegno di giungere ad un accordo di pace entro il 2008. Non meno significativa è stata la sottolineatura che lo Stato palestinese deve avere una contiguità territoriale: un messaggio lanciato a Israele per ciò che concerne il futuro degli insediamenti, non solo quelli illegali. Lo Stato palestinese non può essere una finzione formale né un assemblaggio di cantoni. Ed è in questo contesto che il presidente Usa ha giustamente collocato la questione della sicurezza d’Israele. D’altro canto, Bush e ancora di più Condoleezza Rice sono consapevoli che la leadership di Abu Mazen può reggere alla sfida di Hamas solo se avanza il processo di pace e se in questo procedere la popolazione palestinese vede modificarsi in meglio la propria condizione di vita. Non voglio certo tessere le lodi di Bush, da lui mi dividono tantissime cose, ma ho avuto l’impressione che la ferita della guerra in Iraq lo abbia portato a capire che la democrazia non può essere imposta dall’esterno con la forza ma deve crescere dall’interno e gli Stati Uniti possono dare un contributo importante in questo processo, se però puntano sulla politica e non sulla forza militare, recuperando così quel credito, in particolare nel mondo arabo, venuto meno con la guerra in Iraq».
E Israele come dovrebbe favorire questo processo?
«Con il coraggio del più forte. Che usa questa forza non per imporre il suo punto di vista ma per promuovere diritti e giustizia. E nel far questo, si dimostra lungimirante, perché solo riconoscendo i diritti degli altri è possibile custodire i propri. Giungere ad una pace giusta, e per ciò duratura, con i palestinesi è il miglior regalo che Israele può fare a se stesso, perché solo con la pace è possibile conciliare la necessaria sicurezza con l’indispensabile mantenimento dei caratteri democratici della nostra esperienza nazionale».
Una pace giusta. Quale?
«Non c’è niente da inventare. Le basi esistono: le risoluzioni Onu, la Road Map, l’Iniziativa di Ginevra…Su ogni questione cruciale - i confini, Gerusalemme, la sicurezza, i rifugiati, le risorse idriche…- sono stati indicate soluzioni di compromesso ragionevoli, che il negoziato dovrebbe solo articolare meglio, tenendo conto di una realtà diversa da quella di trent’anni fa e facendo della reciprocità la bussola che orienta la trattativa. Il punto non è il contenuto della pace, ma la volontà politica di raggiungerla. E questo può avvenire solo parlando ai rispettivi popoli il linguaggio della verità».
Il che rimanda alla statura politica dei leader.
«So che molti israeliani rimpiangono i “grandi vecchi”, quelli che incutevano rispetto e trasmettevano sicurezza. Ma di quella generazione siamo ormai “orfani”. Dobbiamo saper elaborare il lutto e crescere come coscienza collettiva che dalla società influenzi le scelte vitali della dirigenza politica. La pace significa normalità, e normalità vuol dire anche fare a meno dell’”uomo della provvidenza”».
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