Udg in versione 2008, se è un miracolo speriamo che duri
una novità sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci
Testata:
Data: 04/01/2008
Pagina: 10
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Ariel Sharon da 2 anni in coma per un ictus,Israele smarrito rimpiange il suo generale
L'UNITA' di oggi, 04/01/2008, pubblica a pag.10 un articolo di Umberto De Giovannangeli su Ariel Sharon. A Udg deve essere arrivato un < contrordine compagno >, se il tanto demonizzato Sharon assume nell'articolo di oggi fattezze umane. Un pezzo, quello di Udg, persino equilibrato, bipartisan, addirittura più sbilanciato a favore che contro. Lo registriamo con soddisfazione, lo diciamo ai nostri lettori, ma anche a Udg, che si è tanto lamentato in passato per le nostre critiche. Come ognuno può vedere, le nostre posizioni nei suoi confronti  non erano prevenute, si basavano su quello che Udg scriveva. Se all'UNITA' è arrivato un vento nuovo, siamo i primi a riconoscerlo. E, se dura, continueremo a segnalarlo. Ecco il pezzo:
 
Ariel Sharon da 2 anni in coma per un ictus
Israele smarrito rimpiange il suo generale
di Umberto De Giovannangeli

Due anni fa, il «generale bulldozer» iniziò la sua ultima battaglia, la più impegnativa: quella contro la morte. Due anni fa, a tarda sera, programmi televisivi, i notiziari radio, interruppero le normali programmazioni per un annuncio che sconvolse Israele: il primo ministro Ariel Sharon era stato ricoverato d’urgenza per un ictus. Era il 4 gennaio 2006. La sua vita era in pericolo. Il mondo intero trattenne il fiato. Davanti all’ospedale Hadassah di Gerusalemme, una folla in lacrime si riunì in preghiera per essere vicina ad «Arik». Due anni, dopo, Ariel Sharon lotta ancora. E Israele lo rimpiange e s’interroga sulla sua eredità politica.
Due anni dopo, le condizioni del settantanovenne ex primo ministro vengono giudicate «stazionarie» dallo staff medico che lo ha in cura. Alimentato da una sonda, Sharon ha una attività cerebrale molto limitata, ma reagisce frequentemente alla voce dei suoi familiari. «Non è più in coma profondo e reagisce a certi stimoli», afferma un membro dell’équipe sanitaria del Centro medico Sheba dell’ospedale Tel-Hashomer di Tel Aviv. Oltre i due figli e le loro famiglie, a vegliare Sharon è Ranaan Gissin, uno dei suoi più stretti collaboratori e portavoce. Gissin ci dice che l’ex premier potrebbe ancora uscire dal coma, ma ammette che il suo ritorno in politica è irrealistico. «Io conservo la speranza del suo ritorno, ma penso che per Arik quella straordinaria stagione sia definitivamente trascorsa». Ciò che non è venuto meno, è il ricordo degli israeliani. Ricordo e rimpianto. Perché due anni dopo, sono in molti in Israele a rimpiangere il vecchio Arik. «Gli israeliani - riflette ancora Ranaan Gissin - sentono la mancanza di un leader che non agisca solo per opportunità politica. Sharon faceva le cose con passione, convinto di dover compiere una missione. Si assumeva le responsabilità e poi agiva». Passione. Carisma. Determinazione. Sono ciò che fa di un politico uno statista capace di incidere nel corso degli eventi e stabilire un feeling diretto con l’opinione pubblica. Sharon è stato tutto questo. I suoi eredi, no. Una verità che prende corpo soprattutto nei momenti più delicati per Israele: «Per capire quanto manchi al Paese Ariel Sharon - dice a l’Unità l’ex ambasciatore israeliano all’Onu Dore Gold - non si deve guardare tanto ai sondaggi, che pure sono indicativi dell’affetto e della stima di cui ancora gode, quanto registrare l’atteggiamento non solo degli israeliani ma della stessa diplomazia internazionale quando scoppia una crisi. È in questi frangenti che il mondo s’accorge di non poter contare su di lui». Ariel Sharon aveva inventato un partito, Kadima, che dal nulla trionfò alle elezioni che seguirono di due mesi il suo ricovero. «Una buona parte di quel voto era un tributo a Sharon, nel quale si mischiavano commozione per il dramma personale e riconoscimento del coraggio politico dimostrato con il ritiro da Gaza», rileva Nahum Barnea, editorialista di punto di Yediot Ahronot, il più diffuso giornale israeliano. Due anni dopo, il suo successore, Ehud Olmert detiene il poco edificante record del primo ministro meno amato nella storia di Israele. Nei giorni successivi alla fine della «Guerra dei 34 giorni» in Libano, due estati fa, i giornali israeliani furono «bombardati» da lettere di cittadini che ripetevano lo stesso concetto: le cose sarebbero andate diversamente se al governo ci fosse stato ancora Arik. «Nessuno dimentica gli errori, tragici, che Sharon ha compiuto, a cominciare dall’invasione del Libano nel 1982, né il ruolo decisivo da lui avuto nella colonizzazione dei Territori. Tuttavia, dietro il rimpianto di Sharon c’è un Paese smarrito, orfano di grandi, seppur contraddittorie, personalità», riflette lo scrittore israeliano Meir Shalev. Un Paese che ha bisogno di personaggi con cui identificarsi. Ariel Sharon lo era. Nel bene e nel male. Perché «Arik» sapeva decidere. E agire di conseguenza. Anche se questo significava spaccare il partito che aveva contribuito a fondare - il Likud - e inventarsene un altro (Kadima). È ciò che avvenne in seguito alla decisione di Sharon del ritiro unilaterale, con il conseguente smantellamento di undici insediamenti, dalla Striscia di Gaza. Era l’agosto 2005. Due anni dopo, nel giugno 2007, Gaza viene conquistata con un colpo di mano militare da Hamas. Da quell’estate caldissima di due anni fa, per i coloni oltranzisti che lo avevano per decenni osannato come «l’eroe di Eretz Israel», Sharon diveniva il «traditore» per eccellenza. Molto si continua a discutere sulla sua politica unilateralista, come sulla sua determinazione nel voler costruire la barriera di sicurezza - il muro dell’apartheid per i palestinesi - in Cisgiordania. «Ciò che manca oggi agli israeliani - osserva il politologo Shlomo Avinery - non è tanto la politica sharoniana, quanto una personalità ritenuta all’altezza delle sfide che attendono il Paese e dalle quali non dipende l’avvenire di questo o quel governo ma di Israele stesso. Sharon, come Rabin, aveva questa statura», mentre i loro eredi annaspano. «Forse gli Olmert, i Barak, i Netanyahu sono politici buoni per tempi normali, il guaio è che la normalità è per Israele una conquista da realizzare. E nell’immaginario collettivo, per vincere questa battaglia occorrono dei combattenti a cui affidarsi: generali, come Ariel Sharon e Yitzhak Rabin», annota lo storico e saggista Danny Rubinstein. Nella nostalgia per «Arik» si cela dunque un bisogno di certezze trasversale alla complessa società israeliana. E in un Paese che si nutre di simboli, annota Avi Panzer, già ambasciatore israeliano a Roma «quest’uomo che da due anni è aggrappato alla vita, che non molla, incarna lo spirito di una nazione che, nonostante guerre e terrorismo, non rinuncia a vivere, a sperare e a battersi per un futuro migliore».
 
Invitiamo i nostri lettori a scrivere all'Unità per felicitarsi con l'Udg 2008, cliccando sull'e-mail sottostante.


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