Umberto De Giovannangeli scopre ora la corruzione sotto Arafat
per quella sotto Abu Mazen c'è tempo
Testata:
Data: 20/12/2007
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Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Che fine fanno i soldi destinati ai palestinesi
L' UNITA' del 20 dicembre 2007 pubblica un articolo di Umberto De Giovannangeli sui finanziamenti ai palestinesi.
Nel quale si apprende che all'epoca del potere di Arafat i soldi dati dalla comunità internazionale per lo sviluppo economico e il miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi erano dirottati in sprechi e corruzione.
Peccato che i lettori dell'UNITA' vengano a sapere queste cose solo adesso che Arafat è morto. Quando era vivo, tutto andava bene. ..

Lo stesso errore viene ripetuto oggi. I finanziamenti sono proseguiti anche dopo il passaggio di consegne ad Abu Mazen. E con essi è proseguita la corruzione.
Non ci sono vere garanzie ci sono che non accada lo stesso con i soldi  stanziati a Parigi (in proposito, si veda l'illuminante articolo di Fiamma Nirenstein che si puo leggere a
questo link)

Ecco il testo:


Diciannove servizi di sicurezza. Oltre 170mila dipendenti pubblici. Ville da mille e una notte costruite a poche centinaia di metri dai miserabili campi profughi. Fuoristrada ultimo modello che sfrecciano sul lungomare di Gaza City con a bordo i rampolli della nomenklatura al potere. E ancora: conti all’estero di quadri dirigenti di Fatah - un nome per tutti, l’ex «uomo forte» di Gaza, Mohammed Dahlan - scoperti e congelati dal governo del tecnocrate Salam Fayyad, che arrivavano a centinaia di milioni di dollari. Solo pochi esempi, per raccontare una storia conosciuta dalla gente palestinese, quella che, nella Striscia di Gaza, vive sotto la soglia di povertà (oggi il 60%, ma secondo l’ultimo rapporto dell’OCHA - Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite - schizzerà al 75% entro il 2008), che dipende nel sostentamento quotidiano dall’assistenza delle agenzie Onu (843mila persone). Storia di miliardi di aiuti ricevuti negli anni della speranza - quelli susseguenti agli accordi di Oslo-Washington del 1993 - che invece di essere investiti per migliorare le condizioni di vita della popolazione dei Territori, o per implementare, strutturandola, l’economia palestinese, finirono nelle tasche di vecchi capi clan o di fedelissimi del rais (Yasser Arafat), e che, soprattutto, servirono al «padre-padrone» della causa palestinese per costruire un apparato pubblico mastodontico, per certi versi unico al mondo; basti pensare che nell’era-Arafat, l’Autorità palestinese contava più direttori generali dell’apparato statale della Repubblica Popolare di Cina.

Non era soltanto il clientelismo di un vecchio leader abituato a premiare per garantirsi la fedeltà dei suoi. Dietro quell’abnorme apparato pubblico, c’era anche il tentativo di sedare la rabbia sociale e la possibile deriva tribale. Alla lunga, questa politica si è rivelata fallimentare. Perché non ha frenato la corruzione, non è servita a consolidare la fiducia della popolazione nel processo di pace, perché ha frenato la formazione di una classe dirigente di uno Stato in costruzione, capace e moderna. Invece, sotto la cascata di aiuti internazionali, è cresciuta una genia di rampolli senza particolari qualità o meriti se non quelli di essere «figli di…». Ecco allora che il figlio primogenito dell’attuale presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen), abbia il monopolio sulla cartellonistica pubblicitaria in Cisgiordania, o che per lungo tempo l’ex capo delle forze per la sicurezza preventiva in Cisgiordania, Jibril Rajub, detenesse quello della benzina, mentre quello del cemento armato, a Gaza, ha contribuito alle fortune finanziarie di Mohammed Dahlan.

Storie senza fine di sprechi, di «ordinaria corruzione»: nel vivo della seconda Intifada il ministro per l’Agricoltura Abd al-Jawad Salah, uno dei politici palestinesi più noti e indipendenti, dichiara pubblicamente che alti funzionari del suo ministero hanno emesso false licenze per agrumi israeliani in modo da poterli commercializzare in Giordania secondo i termini dell’accordo commerciale giordano-palestinese. Salah ordina l’immediata cessazione di questa pratica, denunciando per due volte la frode e tutti i partecipanti al procuratore dell’Autorità palestinese, eppure la truffa è proseguita indisturbata. Salah, disgustato, decise di rassegnare le dimissioni. Storie di sprechi, di ruberie rimaste impunite, di distrazioni di fondi. Storie di fallimenti e di corruzione ai vertici dell’Anp su cui aveva aperto una inchiesta l’allora procuratore generale di Gaza Ahmed al-Meghani. Una inchiesta, che riguardava 12 anni dell’Autonomia, destinata a riscrivere la storia di una classe dirigente che sotto l’ombrello protettivo, e spesso connivente, di Arafat ha costruito le proprie fortune a scapito degli interessi della popolazione. A inchiesta ancora in corso, il procuratore al-Meghani aveva già messo a fuoco casi di sprechi e di fondi distratti dall’uso previsto per un ammontare superiore ai 700 milioni di dollari. L’inchiesta non è mai giunta alla fine. Storie di malversazioni, come quella che ha riguardato la società Middle East Water Pipe Co., che avrebbe dovuto costruire acquedotti e tubature nei Territori palestinesi con il contributo anche di aziende italiane. La società, finanziata con 4 milioni di dollari dall’Anp e con altri due milioni di dollari dall’Italia, esisteva solo sulla carta. Altri presunti illeciti hanno investito la Tv pubblica palestinese, società dei settori degli idrocarburi, dei tabacchi, della sanità.

Il disastro economico e l’emergenza sociale che devastano i Territori non sono dunque solo il portato delle restrizioni imposte da Israele, delle limitazioni di movimento, persone e merci denunciate dalle agenzie Onu che operano a Gaza e in Cisgiordania. Il peso di questa poco edificante storia, si fa sentire ancora oggi sulle aspettative dei palestinesi, segnate da un perdurante pessimismo. Nonostante le aperture registrate nella Conferenza di Annapolis, le probabilità che uno Stato palestinese indipendente sia proclamato entro i prossimi cinque anni sono «minime o inesistenti». Lo ritengono il 65% degli intervistati in un sondaggio di opinione curato dal Centro palestinese di politica e ricerca (Pcpsr) di Khalil Shikaki. Il 27% degli interpellati (a Gaza e in Cisgiordania) considerano di conseguenza la possibilità di trasferirsi all’estero. La situazione economica angustia molto i palestinesi. Essa è giudicata «negativa o molto negativa» dall’85% dei palestinesi interpellati a Gaza e dal 41% di quelli della Cisgiordania. Nella recente Conferenza di Parigi dei Paesi donatori, Abu Mazen aveva sollecitato la Comunità internazionale a stanziare 5,6 miliardi di dollari per evitare la «catastrofe totale» nei Territori e per finanziare un piano di sviluppo destinato a dotare un futuro Stato palestinese di istituzioni solide e di un’economia vitale. L’appello è stato raccolto e la «generosità» evocata dal rais palestinese è andata oltre le sue aspettative: dalla Comunità internazionale sono arrivati 7,4 miliardi di dollari di aiuti finanziari. La Commissione europea, principale donatore, ha annunciato 650 milioni di dollari, gli Stati Uniti 555, l’Arabia Saudita 500, la Gran Bretagna 490, la Francia, la Germania e la Svezia 300 milioni di dollari ciascuno. L’Italia destinerà altri 80 milioni che vanno ad aggiungersi ai 108 già stanziati in precedenza.

Il punto è: come non far dilapidare questa «generosità». Un problema di uomini e di vincoli alla fonte. L’uomo a cui è stato affidato il «forziere» è un tecnocrate rispettato in Occidente, stimato ex funzionario della Banca Mondiale, esperto di bilanci e mai sfiorato da accuse o voci di corruzione: l’attuale primo ministro Salam Fayyad. Spetterà a lui, più ancora che ad Abu Mazen, farsi garante del corretto utilizzo di questi 7,4 miliardi di dollari. Fayyad ha salutato quella elargizione come un «voto di fiducia» dei donatori internazionali nei confronti del suo governo e dell’Anp. Ma lo stesso premier è consapevole che si tratta di una fiducia «vincolata». È l’altra sostanziale discontinuità rispetto al passato. Questa volta, confida a l’Unità una fonte dell’Ue a Bruxelles, i finanziamenti saranno vincolati alla presentazione, documentata, di progetti di sviluppo in settori chiave sia economici - agricoltura, poli industriali - sia sociali - sanità, istruzione, giustizia -. In questi progetti "ad hoc" dovranno essere prospettati, oltre il budget necessario, i tempi di attuazione, le verifiche in corso d’opera, e i referenti sul campo. «I finanziamenti servono a ricostruire un tessuto sociale e ad affrontare una drammatica emergenza umanitaria. Il controllo deve essere ferreo, perché non si ripetano le nefandezze del passato», dice a l’Unità Hanan Ashrawi, paladina dei diritti umani nei Territori. E il controllo, aggiunge decisa, «deve essere anche dal basso, da quelle Ong non governative palestinesi che rappresentano il contraltare democratico al duopolio di potere Hamas-Fatah». In gioco è l’avvenire di un popolo, le sue speranze, i suoi diritti. In ballo è la credibilità di una leadership che deve dimostrare con i fatti di non essere una nomenklatura dedita all’arricchimento personale.

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