Dal RIFORMISTA del 3 dicembre 2007, un articolo sull'elezione del presidente libanese.
Il gruppo terroristico Hezbollah viene definito nell'articolo "movimento", le sue unità armate "milizie", le sue minacce "previsioni".
Il collasso dell'economia del centro di Beirut prodotto dal presidio permanente dell'opposizione filo-siriana viene definito "il prezzo della democrazia", dimenticando che in democrazia i partiti politici non sono armati...
Ecco il testo completo:
Hezbollah ci aveva provato, come esattamente un anno fa, a portare in piazza i manifestanti per contestare il governo di Fouad Siniora, ma si è ritrovato solo, senza l'appoggio dei cristiano-maroniti. E alla fine, in un modo o nell'altro, pare essere sceso a un compromesso. La soluzione per la crisi libanese, infatti, potrebbe essere dietro l'angolo, giusto alla distanza del 7 dicembre, data in cui il parlamento dovrebbe tornare a riunirsi con un accordo sul nome del comandante dell'esercito Michel Suleiman da eleggere come capo dello Stato dei cedri. Una condizione indispensabile per superare l'impasse di un governo che l'opposizione vorrebbe già delegittimato, che nei fatti è paralizzato da mesi, che finora ha stretto i denti per non precipitare il paese nel definitivo caos, e che paradossalmente non può essere nemmeno cambiato senza un nuovo presidente, questo sì legittimato alle consultazioni di rito per risolvere qualsiasi crisi politica. Ma per arrivare all'elezione da parte del parlamento (già evidentemente complicata dall'instabilità istituzionale del paese), bisogna che l'assemblea avalli una modifica alla costituzione. Modifica che, si spera, avrà il via libera in queste ore.
Di certo, non è passato inosservato il comunicato del patriarca maronita Sfeir che ha sollecitato duramente l'opposizione a terminare il boicottaggio delle elezioni presidenziali e votare finalmente un successore di Emile Lahoud. Anzi, ha ammonito che l'elezione deve avvenire «prima che sia troppo tardi», perché «la situazione attuale è pericolosa», domandandosi se i parlamentari si rendano contro della serietà della crisi, e criticando aspramente lo speaker del parlamento, nonché leader sciita, Nabih Berri, per aver letteralmente tenuto in ostaggio l'assemblea (e il governo), impedendo che la discussione politica e le relative decisioni fossero prese nella sede istituzionale. Critiche cui Berri ha risposto spiegando che «se ci sarà un'opposizione all'elezione di Suleiman, non verrà dagli sciiti». E se non verrà dai cristino-maroniti (Michel Aoun, il generale che in prima battuta era stato candidato dal blocco dell'opposizione, ha dato il suo sostegno al nome del capo dell'esercito), se non verrà dai drusi di Jumblatt (che pur essendo uno strenuo nemico di Damasco ha appoggiato la neutralità del nome di Suleiman), se non verrà dagli sciiti, non verrà nemmeno da Hezbollah.
Almeno a voler dar seguito alle parole del vicesegretario del movimento, Naim Kassem, che ai microfoni della tv di Hezbollah, Al Manar, ha detto: «Suleiman è una buona opzione per la carica di presidente. Non abbiamo però avuto alcuna informazione in merito dai canali ufficiali, bensì solamente dai media». E dire che solamente 24 ore prima era stata annunciata un'imponente manifestazione del blocco dell'opposizione, paventando migliaia di attivisti in piazza a Beirut, come un anno fa, in nome di Hezbollah come dei Liberi patrioti di Aoun, a invadere il centro cittadino sabato proprio in occasione dell'anniversario del presidio permanente (le tende sono ancora lì, in effetti) allestito alla fine del 2006 per mandare a casa Siniora, considerato troppo filo-occidentale. Presidio che, tra parentesi, pare aver fatto collassare l'economia del centro della capitale libanese, causando la chiusura di centinaia di negozi e posti di lavoro. Ma tant'è, anche questo potrebbe essere il prezzo della democrazia. Come pure, alla fine, in nome della democrazia e dei fragilissimi equilibri che hanno tenuto finora insieme il paese, la piazza sabato ha visto sparuti gruppi a protestare.
Ora bisognerà vedere se quei fragilissimi equilibri terranno. Il nome di Suleiman, in patria, è sponsorizzato come scelta interna, senza influenze straniere. Ma di certo le diplomazie di mezzo mondo non sono state a guardare. La trojka europea composta da Francia, Italia e Spagna ha fatto il possibile e l'impossibile per mediare (se ne è parlato nel vertice italo-francese della scorsa settimana e se ne riparlerà in quello italo-spagnolo), come pure l'ambasciatore statunitense ha sottolineato come la candidatura di Suleiman sia gradita al suo paese proprio perché apparrebbe super partes, marcando la differenza tra l'emendamento costituzionale che potrebbe permetterne l'elezione, e l'ingerenza siriana con cui nel 2004 fu allungato il mandato di Lahoud. Ma tutto questo è bene che resti tra i retroscena da non rivangare, in un momento così delicato. Suleiman, infatti, sembra essere l'unico in grado di garantire un riavvio graduale dei contatti tra la Siria e il Libano. Contatti inevitabili quanto necessari, in realtà, tra due paesi confinanti e che per anni hanno condiviso (di buon o cattivo grado) politiche e commerci. E ancor più necessari in una prospettiva di disarmo finale delle milizie del partito di Dio. Che ancora, la scorsa settimana, prevedevano «una nuova guerra civile» per il Libano.
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