Dal RIFORMISTA dell'8 novembre 2007:Non sorprendono le recenti rivelazioni, riportate pochi giorni fa sull 'Opinione da Aldo Torchiaro, secondo cui i patiboli che il regime iraniano alacremente usa per giustiziare ogni anno centinaia di suoi cittadini sono "made in Italy". Torchiaro riportava di recente quanto documentato da Nessuno Tocchi Caino, l'Ong che combatte la pena di morte nel mondo, attraverso l'analisi di immagini fotografiche che mostrano le forche iraniane in azione, dove gru italiane sono montate su camion italiani e le impalcature utilizzate per esporre il condannato al pubblico ludibrio prima dell'esecuzione si reggono su tubi di metallo prodotti in Italia.
Per le compagnie italiane implicate, questa notizia sarà forse per un microsecondo cagione d'imbarazzo. Ma il problema non è imputabile a chi vende tubi di metallo e gru all'Iran - e del resto, ampia documentazione disponibile su internet dimostra che le ormai consuete impiccagioni pubbliche in Iran avvengono anche con materiale prodotto altrove. L'Italia non è sola a vendere materiale apparentemente innocuo che poi, in mano al regime iraniano viene trasformato in uno strumento di morte. Ma questa non è una storia di mal comune e mezzo gaudio. È invece sintomo di un problema più grande: il limitatissimo regime di sanzioni attualmente in vigore non ci impedisce di essere in qualche modo complici, dietro la scusa della legalità di tante transazioni, della malvagità con cui questo regime governa il suo popolo e minaccia i suoi vicini.
Di recente, per esempio, un reportage dell'Espresso raccontava come i motoscafi Levriero, prodotti dalla FB Design e usati, per la loro velocità e versatilità, dalla Guardia di Finanza italiana nella lotta contro gli scafisti, siano stati comprati in numerose quantità dall'Iran, che ne ha anche acquisito i piani di costruzione (e presumibilmente le licenze) per produrli localmente. Quegli scafi sono, secondo l'Espresso , in uso alle Guardie Rivoluzionarie iraniane, che hanno una flottiglia di barche e catamarani superveloci costruiti anche in Cina e Svezia. Chissà se sono stati i levrieri a permettere ai Pasdaran di catturare i quindici marinai inglesi lo scorso marzo?
Anche quando il materiale in questione non è propriamente innocuo, non è difficile venderlo all'Iran. A luglio dell'anno scorso, per esempio, un camion inglese fu fermato al confine tra Bulgaria e Romania, per un controllo di routine. Quando il contenuto del container risultò 200 volte più radioattivo del normale, il camion fu sequestrato per controlli dell'autorità nucleare bulgara. Il camion conteneva dei macchinari rilevatori di radioattività. Secondo le autorità bulgare potevano, in quantità maggiori, offrire sufficiente materiale per costruire una bomba sporca, ma erano regolarmente dotati di licenza di esportazione dall'agenzia inglese competente.
Gli esempi si sprecano. Dai mitragliatori d'assalto tedeschi costruiti in Iran sotto licenza (ora revocata), le cui copie sono state, secondo alcuni rapporti, vendute da Teheran al regime sudanese; ai visori notturni forniti nel 2003 da Gran Bretagna e Italia all'Iran, nel contesto di un programma antidroga delle Nazioni Unite, da utilizzare lungo il confine irano-afghano, alcuni dei quali furono trovati dall'esercito israeliano nel quartier generale di Hezbollah nel Sud del Libano durante il conflitto dell'estate del 2006, fino ai fucili da cecchino ad alta precisione venduti dall'Austria all'Iran (e destinati anch'essi all'unità antidroga) Ma successivamente trasferiti, secondo un articolo apparso sul Daily Telegraph a febbraio scorso, a milizie filoiraniane in Iraq. L'Italia è in ottima compagnia in questo deprecabile mercato.
Il problema insomma non è che la complicità nelle impiccagioni pubbliche derivi dall'aver venduto all'Iran gli strumenti usati dal regime per eseguire le condanne a morte, in contravvenzione di leggi italiane o norme internazionali. Il problema è che il regime iraniano, per la sua natura criminale, usa pratiche ingannatorie e truffaldine nel procurarsi ogni tipo di tecnologia, anche quella tecnologia che non è sottoposta a restrizioni sulle esportazioni a doppio uso o non è coperta dalle sanzioni introdotte contro l'Iran dalle risoluzioni Onu 1737 e 1747. Per questo motivo, l'11 ottobre scorso, durante il consueto vertice del gruppo di Egmont - un gruppo intergovernativo di 34 paesi di cui l'Italia fa parte - l'Iran è stato al centro dell'attenzione dei lavori del gruppo. Nato come strumento per migliorare le pratiche di trasparenza finanziaria dei paesi membri al fine di combattere il finanziamento del terrorismo e il riciclaggio del denaro sporco, il gruppo di Egmont ha l'Iran nel mirino proprio per le sue sistematiche pratiche ingannevoli e per il livello di rischio che queste pratiche comportano.
Nel commerciare con l'Iran occorre insomma riconoscere la natura del regime iraniano, comprendere che anche in casi che appaiono innocui gl'interlocutori commerciali delle compagnie occidentali sono molto spesso compromessi con il regime e che anche se da un punto di vista legale non esiste nessuna limitazione all'esportazione di merci di un certo tipo la natura criminale del regime iraniano rende letale anche quella tecnologia che noi vendiamo all'Iran per profitto e credendo di aver la coscienza pulita.
Per inviare una e-mail alla redazione del Riformista cliccare sul link sottostante cipiace@ilriformista.it