Appena entro nello studio luminoso, ovviamente ingombro di libri, parto lancia in resta chiedendogli in sostanza se c'è qualcosa di nuovo nel dibattito tra storici sulla responsabilità del genocidio. Tra i sostenitori (come Daniel Goldhagen) della tesi secondo la quale se i tedeschi hanno ucciso gli ebrei è perché li odiavano, perché erano antisemiti, e quindi sapevano quel che stava accadendo e hanno partecipato in gran numero, direttamente o indirettamente, consapevoli, allo sterminio; e i sostenitori (come i "nuovi storici tedeschi") secondo i quali il sistema nazista era una burocrazia calamitata da un capo carismatico. E quindi tutti agivano in funzione della volontà del Fuehrer: e i suoi deliri, il suo odio per gli ebrei, diventava una priorità assoluta.
Burocraticamente condivisa.
Claude Lanzmann mi ascolta, mi osserva, da dietro la scrivania, con un'aria a tratti cupa a tratti compassionevole. All'inizio mi dà corda, mi spiega come non ci sia mai stato un ordine scritto, preciso di Adolf Hitler.
"Tutti sapevano quel che era il profondo desiderio del Fuehrer, che voleva sbarazzarsi degli ebrei. Non avevano bisogno di ordini. C'era un'affinità spirituale, volevano tutti la stessa cosa, non avevano bisogno di ordini orali o scritti....". Ma a questo punto Lanzmann sbotta: "Non capisco perché mi pone questi interrogativi...". E' roba scontata, stravecchia.
Lanzmann mi invita a parlare del suo film. Ma per un po' resisto. Il problema della responsabilità, collettiva di un popolo oppure soltanto nazionalsocialista, non mi sembra una faccenda trascurabile. Lui replica, un po' spazientito: "Non c'è una contraddizione, l'antisemitismo esisteva ed era profondo, ed esisteva anche tra i burocrati del regime..... Lo sterminio é diventato burocratico perché doveva funzionare, far andare i treni, organizzare i campi e i forni crematori... ".
Lanzmann ha una ragione precisa quando mi riconduce a parlare del suo film, e a non perdermi nella esplorata ma ancora fitta foresta della storiografia (che lui conosce a menadito). A spingerlo non è soltanto uno sfrenato egocentrismo. "Hier ist kein Warum" (Qui non c'è perché). Primo Levi racconta che la regola d'Auschwitz gli fu insegnata appena arrivato nel campo da una guardia Ss. "Niente perché" è la legge osservata anche da Claude Lanzmann nel realizzare il suo film. L'interrogativo (perché gli ebrei sono stati uccisi?) l'avrebbe distolto dal solo atteggiamento etico e operativo possibile per uno che si proponeva di trasmettere la memoria, rendendola "immemorabile", cioè non legata a un'epoca, invulnerabile al tempo.
Un'opera che non invecchia, come può invece ingiallire, annebbiarsi il semplice ricordo. Cedere alla tentazione del "perché?" avrebbe significato perdersi nelle scuole di pensiero, nelle interpretazioni, nelle polemiche. Mettersi dei paraocchi e puntare sulla viva voce delle testimonianze cosi come venivano raccolte è stata per Claude Lanzmann "la condizione vitale della creazione".
Mi è capitato di presentare Shoah come un documentario. La definizione è impropria. Mi correggo. Ho rivisto le nove ore e mezzo del film di Lanzmann con la stessa tesa attenzione, carica di suspense, con la quale mi capita di vedere un famoso film, che già conosco ma che mi prende come la prima volta. E' l'effetto di un capolavoro.
Lanzmann ha ricreato la vita dei campi partendo dal "nulla", come lui stesso dice, poiché non restano che le ceneri. Ma non ha ricostruito quella vita con degli spezzoni di pellicola in bianco e nero che mostrano i cadaveri accatastati di Bergen-Belsen o le folle urlanti ai piedi di Hitler. Lanzmann ha ricreato la vita nei campi della morte con nove ore e mezzo di interviste che è impossibile dimenticare.
Fa cantare più volte a un Ss di Treblinka la marcia che cantava con i suoi camerati mentre i cadaveri degli ebrei appena estratti dalle camere a gas bruciavano nei crematori. Fa raccontare a un parrucchiere ebreo sfuggito allo sterminio come doveva tagliare i capelli ai corpi delle donne appena uccise o ancora agonizzanti, e poi raccoglierli in sacchetti spediti chissà dove dai nazisti.
Lanzmann incalza con le sue domande, asseconda con i sorrisi, brutalizza a volte i testimoni, pur di farli parlare, affinché le loro descrizioni siano meticolose, non trascurino dettagli che fanno rivivere l'orrore. Sostiene che c'è identità tra l'arte e la morale. Shoah è l'arte al servizio della morale. Per questo il film, non solo secondo l'autore, è destinato a vivere al di là del semplice ricordo. Se non fosse un'opera d'arte non sopravviverebbe.
In Shoah interviene anche uno storico, Raul Hilberg (autore di La distruzione degli ebrei europei). Claude Lanzmann compie uno strappo alla regola. Il solo. E il professor Hilberg parla di una "progressione logica" che ha portato al genocidio. I missionari cristiani dicevano in sostanza agli ebrei: "Voi non avete il diritto di vivere tra di noi come ebrei". Dalla fine del Medio Evo i poteri laici decisero: "Voi non avete il diritto di vivere tra di noi". Infine i nazisti hanno decretato: "Voi non avete il diritto di vivere". Sempre secondo Raul Hilberg non ci fu mai un ordine preciso di sterminare gli ebrei. Neppure Hitler lo impartì con uno scritto. La Soluzione Finale fu piuttosto "una successione di piccole tappe, superate secondo una logica", al termine della quale "i burocrati sono diventati inventori". Questo processo di distruzione burocratica è stato ricostruito nei minimi particolari dal professor Hilberg.
Ma c'è chi contesta alcuni punti della sua interpretazione. Qui però mi fermo, per non essere bacchettato di nuovo da Claude Lanzmann. Al quale va tutta la mia ammirazione per quel che ha realizzato.
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