Pubblichiamo l'intervista a Mustafa Barghouti di Umberto De Giovannangeli sull'UNITA' di oggi 16/09/2007 a pag.13, dal titolo " Contesto Hamas ma non si può cancellarla dal dialogo". Che è la posizione del nostro arguto ministro degli esteri D'Alema. Per capire il valore delle idee di Barghouti è sufficiente leggere questa sua risposta "Non bisogna peraltro mai dimenticare che Hamas si è radicalizzato a causa dell’occupazione, della repressione violenta della prima Intifada, del degrado delle condizioni economiche e dell’assenza di qualsiasi speranza" e la colpa di tutte queste sciagure non è stata di Arafat e della sua cricca di ladroni, ma di Israele. Gli venisse in mente a Udg di fare qualche domanda pertinente !
Ecco il testo:
Se c’è un palestinese distante anni luce da ogni suggestione fondamentalista, questo palestinese è Mustafa Barghouti. Laico, progressista, ex ministro dell’Informazione, espressione della parte più aperta della società palestinese, Mustafa Barghouti, 53 anni, è anche uno dei dirigenti palestinesi con meno peli sulla lingua, anche quando è chiamato ad affrontare un tema scottante quale il rapporto con Hamas. In merito la posizione dell’ex ministro palestinese, fondatore della Nuova iniziativa palestinese, il partito considerato «terza via» tra Hamas e al-Fatah, è netta: «Si può non essere d’accordo con Hamas, ma non si può escluderlo dal dialogo. In questo la penso esattamente come il ministro degli Esteri italiano D’Alema». Forte di questa convinzione, Mustafa Barghouti si dice convinto che la strada per la democrazia in Palestina passa attraverso «il confronto con Hamas e al-Fatah, attraverso la resistenza non violenta e attraverso una grande solidarietà internazionale». Bargouthi non sottovaluta le difficoltà del presente: «La nostra situazione - rileva - non è mai stata peggiore. Abbiamo una milizia che controlla la Cisgiordania e un’altra che controlla Gaza».
Molto si discute e si polemizza in Italia sul rapporto da tenere con Hamas. Qual è la sua idea?
«La mia convinzione è che si può non essere d’accordo con Hamas, ma non si può escludere dal dialogo un movimento che rappresenta una parte significativa della società palestinese. E lo dice uno che ha sempre polemizzato con Hamas. Con la prova di forza compiuta a Gaza, Hamas ha violato la legge, ha ripetuto errori già commessi da Fatah. Abu Mazen aveva il diritto e la legittimità per sciogliere il governo di unità nazionale (del quale Mustafa Barghouti faceva parte, ndr.), ma non so se questa sia stata la decisione giusta, perché si dovrà tornare per forza all’unità. Al dialogo, per quanto difficile, non c’è alternativa, se si vuole davvero dar vita ad una vera democrazia palestinese, e la democrazia è l’unica strada verso la pace».
Tradotto nel caos palestinese come si coniuga questo assunto?
«Significa riconoscere che la strada della democrazia in Palestina passa attraverso il confronto con Hamas e al-Fatah. Non esistono scorciatoie militariste, la sfida è politica ed è con le "armi" della politica che va affrontata e risolta».
Lei è ritenuto espressione della società civile palestinese e non dei vecchi notabilati politici e tribali. Qual è la sua idea di società civile?
«È lo spazio vitale in cui funziona tutto quello che è indipendente dal governo, compresi i partiti di opposizione, gli organismi sociali e i sindacati. La società civile è il luogo della pluralità ed è per questo che fa paura…».
A chi fa paura in Palestina?
«Fa paura alla vecchia burocrazia, all’establishment politico ancorato al potere e ai privilegi che da esso derivano. Sono due gli errori più gravi compiuti dalla dirigenza "arafattiana": sul piano interno, è l’aver preteso di controllare le Ong e di cooptare tutti i partiti, prendendo esempio dai regimi arabi totalitari. Un processo centralistico, tra l’autoritario e il paternalista, che ha bloccato il processo di democratizzazione e che ha contribuito al rafforzamento di Hamas. Non bisogna peraltro mai dimenticare che Hamas si è radicalizzato a causa dell’occupazione, della repressione violenta della prima Intifada, del degrado delle condizioni economiche e dell’assenza di qualsiasi speranza».
E l’altro errore imputabile alla vecchia dirigenza?
«È l’aver accettato un compromesso al ribasso: mi riferisco agli Accordi di Oslo. Quegli accordi nascono da uno scambio con Israele e Stati Uniti che era destinato al fallimento: rinviare a un futuro indeterminato la discussione dei nodi strategici che sono alla base del conflitto israelo-palestinese, in cambio di un riconoscimento della vecchia dirigenza dell’Olp come unico interlocutore. Il tempo non ha mai lavorato per la pace e la logica del rinvio ha solo alimentato rabbia, frustrazione, sentimenti che hanno contribuito alla deriva militarista della seconda Intifada».
Una deriva contro cui Lei si è sempre battuto.
«L’ho fatto perché ero e resto convinto che esista una terza via tra un militarismo senza sbocchi e un cedimento senza speranza: è la via della resistenza non violenta che deve accompagnare la ricerca di una pace giusta, tra pari. Mi rifiuto di pensare che sul terreno esistano solo due opzioni: l’estremismo irrazionale e la capitolazione. Ma il successo della resistenza non violenta è strettamente legato ad una reale comprensione da parte della Comunità internazionale che quella palestinese è una battaglia per la vita e per i diritti, non solo nostri ma anche dei nostri vicini israeliani".
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