Scegliere di parlare con Tariq Ramadan, contrariamente a quanto sostiene Renzo Guolo su La REPUBBLICA dell'11 settembre 2007, non significa semplicemente riconoscere la possibilità di dialogare con l'islam, ma con l'islam fondamentalista.
Ramadan giustifica il terrorismo e la lapidazione delle adultere (per la quale propone una moratoria durante la quale gli esperti di diritto islamico dovrebbero studiare il problema), compila liste di proscrizione di intellettuali ebrei, nega il diritto all'esistenza di Israele.
Tutto questo Guolo lo sa, come sa che è stato Ramadan a rifiutare di incontrare Hitchens, interlocutore troppo poco malleabile. Come sa che la doppiezza dell'islamista è stata dimostrata, confrontando i suoi discorsi in arabo con quelli in francese, dalla giornalsita Caroline Fourest.
Ma pensa che con Ramadan sia comunque necessario dialogare, perché lui, a differenza degli intellettuali laici o dei "fondamentalisti dell'illuminismo" (la definizione diffamatoria è di Ian Buruma) è ascoltato dai musulmani europei.
Ma a questo punto, a prescindere da ogni considerazione sul cosa ascoltano da Ramadan i giovani musulmani europei (prediche per l'islamizzazione dell'Europa, non per l'europeizzazione dell'islam), Guolo si lascia sfuggire una considerazione che da sola basta a confutare il suo ragionamento.
Scrive infatti:
"Per una serie di ragioni che vanno dalla loro integrazione cosmopolita o, purtroppo, in taluni casi, ai problemi sicurezza, (corsivo nostro) altri intellettuali musulmani laici non sono interessati, o non sono più in grado di parlare con le comunità musulmane. " Dunque, per ammissione dello stesso Guolo, il fatto che gli intellettuali laici non siano ascoltati dai giovani musulmani non dipende dalla normale dinamica del dibattito culturale all'interno delle comunità islamiche.
Perché all'interno di questa dinamica si sono inseriti elementi spuri, che non hanno a che fare con la forza argomentativa e morale delle differenti posizioni e con la loro più o meno grande capacità di attrattiva. Si tratta della violenza, delle minacce di morte, delle fatwa omicide.
In una situazione così anomala, non ha senso la ricerca dell'interlocutore rappresentativo: la competizione per rappresentare un gruppo umano presuppone un confonto pacifico. Se quest'ultimo non c'è, preliminarmente al "diaologo" s'impongono compiti più urgenti.
La solidarietà e l'appoggio a coloro che sono minacciati, innanzitutto. Ramadan non è tra questi. Anzi: molti degli intellettuali musulmani vittime della violenza ne denunciano la contiguità ideologica con i suoi fautori, la doppiezza, il sostanziale fondamentalismo intransigente. Difficile pensare che siano nel novero di coloro che non sanno di cosa stanno parlando, difficile liquidarli con sufficienza accademica come semplici ignoranti, come Guolo fa con Hitchens.
Vogliamo incominciare ad ascoltarli ?
Ecco il testo:
Peccato che del dibattito tra me e Tariq Ramadan al Festival di Letteratura di Mantova, siano rimasti solo gli echi del polemico intervento di Cristopher Hitchens. I media hanno le loro regole; e, così, della discussione, a tratti dura e mai formale, che ha affrontato i complessi nodi del rapporto tra Islam e Occidente è rimasto solo l´eco del polemico intervento dell´autore di Dio non è grande, presente tra il pubblico. A Mantova nessuna questione cruciale è stata elusa: i termini dell´integrazione culturale degli immigrati musulmani in Europa, la laicità, la delicata questione della «doppia lealtà», allo stato o alla umma, la comunità di fede, l´interpretazione dei testi, la lapidazione e le altre pene corporali previste dalla shari´a (hudud), il velo e la libertà della donna, l´apostasia, i pronunciamenti del Consiglio Europeo della fatwa e le discusse opinioni dello sceicco Qaradawi, l´antisemitismo. Insomma, un confronto in cui, per parafrasare una polemica affermazione di Paul Berman, nei confronti di Ian Buruma, accusato dall´autore di Terrore e liberalismo di essere troppo condiscendente in un´analoga occasione con l´intellettuale musulmano, nessuno «si è sdraiato ai piedi» di Ramadan.
Naturalmente tra le questioni che Hitchens ha sollevato nel suo torrenziale intervento, vi è anche quella che, in questi mesi, ha occupato le pagine di importanti riviste e giornali, internazionali e nazionali: perché parlare con Ramadan? Su questo punto è noto che le opinioni sono molto diverse; non solo tra i governi dei paesi occidentali ma anche tra gli intellettuali. Da una parte, per citare solo i più noti, Berman e lo stesso Hitchens, entrambi di formazione liberal o di sinistra ma compagni di strada, sulla vicenda della «guerra al terrore», della vulgata neocon. Dall´altro intellettuali, anche qui per citarne solo alcuni, come Buruma, Lilla, Garton-Ash che ritengono comunque necessario confrontarsi con le tesi di Ramadan.
In Italia il tema è stato affrontato recentemente, con diverso accento, da Pierluigi Battista e Gian Enrico Rusconi: il primo esplicitamente perplesso sull´utilità di discutere con ambigui «pontieri» e «cattivi maestri» quale Ramadan; il secondo favorevole a verificare il senso del suo ambizioso progetto, riassumibile nel difficile tentativo di far assumere all´Islam in Occidente un ruolo non residuale o di religione solo tollerata.
Naturalmente in questa discussione Ramadan è, anche, una sorta di oggetto transizionale. La domanda, sottesa alla polemica che lo investe è, per alcuni, più che «si può parlare con Ramadan», «si può parlare con l´Islam?».
Se la risposta è affermativa, ne consegue una scelta: difficile evitare di considerare l´intellettuale musulmano non tanto l´interlocutore - il mondo islamico è assai plurale e lo stesso Ramadan è contestato nel suo stesso campo da laici e fautori di un rigido islam politico di matrice salafita - ma uno degli interlocutori con cui affrontare i temi. Naturalmente senza concedergli alcuna cambiale in bianco.
Contrariamente a molti musulmani laici, politicamente più affidabili e con posizioni più omogenee alla cultura occidentale; o a quelli che, polemicamente, Garton-Ash definisce i «fondamentalisti dell´illuminismo» che hanno fatto scelte di radicale rottura con la religione, Ramadan ha una certa influenza - anche se minore di quella che si tende generalmente ad attribuirgli - sulle comunità islamiche in Europa. In particolare tra le nuove generazioni. Per una serie di ragioni che vanno dalla loro integrazione cosmopolita o, purtroppo, in taluni casi, ai problemi sicurezza, altri intellettuali musulmani laici non sono interessati, o non sono più in grado di parlare con le comunità musulmane. Dunque, che fare davanti un problema che sta producendo un enorme mutamento nei rapporti politici e sociali: girarsi dall´altra parte; o colloquiare solo con i «musulmani in cravatta»?
Se qualcuno pensa di integrare i musulmani in Europa, assicurando a tutti coloro che ci vivono, convivenza, sicurezza e pluralismo religioso, attraverso la creazione di leadership di facciata, è fuori strada. Si parla con chi ha influenza sul campo; anche se l´interlocutore è scomodo. Naturalmente in questa difficile navigazione, occorre essere muniti di bussole che permettano di ridurre i rischi ed evitare di sfracellarsi sugli scogli. E di stabilire il grado di ambiguità tollerabile per chi parla a due mondo così diversi. Fatti salvi, naturalmente, alcuni prerequisiti irrinunciabili: il rispetto delle regole democratiche, la condanna del terrorismo, il rifiuto di posizioni antisemite, la difesa della libertà individuale, anche in materia religiosa. Premesse che, anche a Mantova Ramadan ha affermato di condividere. Nonostante su alcune questioni egli abbia eluso le domande del suo interlocutore; un atteggiamento che egli giustifica rinviando alla necessità di continuare a svolgere la sua difficile vocazione pedagogica tra i musulmani senza seguire il destino degli inascoltati musulmani laici. Il fatto che il progetto di Ramadan, integrare i musulmani e permeare di religiosità islamica la società europea, risulti alieno sia a molti laici sia quanti si riconoscono in altre fedi religiose, non cancella la necessità di verificare puntualmente quel progetto. Un metodo che vale nei confronti di Ramadan come di chiunque altro. Questa, in sintesi, la posizione di quanti decidono di parlare con lui.
La polemica mantovana ha evidenziato un altro problema, che non va sottaciuto. Alcuni dei critici di Ramadan non conoscono bene l´Islam o il suo pensiero politico e religioso contemporaneo. Questo non significa che non possano pronunciarsi in merito. Ma, perché la discussione decolli veramente, è necessario che chi si occupa di questi temi possieda pienamente la «cassetta degli attrezzi»: in caso contrario il rischio è che proliferino sommarie semplificazioni che non aiutano e anzi inquinano la discussione. Se questa richiesta vale per Ramadan che, come ha ricordato Rusconi, sembra conoscere l´Occidente meno di quanto faccia credere, vale anche per alcuni dei suoi più accaniti critici. Interessati più alla polemica militante che a esplorare i complessi nodi della questione Islam. Insomma, maggiore conoscenza della categorie e dei linguaggi, che esprimono percezioni del mondo diverse, potrebbero evitare di creare fratture di cui non abbiamo affatto bisogno in queste difficili contingenze. Ma per questo è necessario che vengano meno poco astratti furori militanti.
Sul dibattito Hitchens- Guolo, segnaliamo un servizio andato in onda il 10 settembre alle 14 sul TG3 regionale della lombardia
Il taglio è vergognosamente fazioso e di parte, Hitchens è stato presentato come un polemico disturbatore ed un fomentatore di "scontri di religione" Tariq Ramadan, è rusultato essere una sorta di paladino del dialogo fra le civiltà....
Inoltre mentre a Ramadan è stata concessa un'intervista in cui ribadisce il valore del "dialogo", la necessità di evitare polemiche ecc. ecc. non solo non è stata fatta alcuna intervista ad Hitchens , ma nel servizio neppure vengono citate le sue critiche a Ramadan.
Il FOGLIO dell'11 settembre 2007, pubblica il commento di Christian Rocca sul dibattito sul "dialogo" con Ramadan. Un articolo che vale anche come risposta a Guolo:
Il Corriere della Sera ha preso al volo l’occasione, contenuta in un paio di articoli del Foglio di due settimane fa, per intavolare una gran discussione culturale e politica sullo scontro tra gli intellettuali liberal e di sinistra americani ed europei intorno alla figura di Tariq Ramadan. La domanda che si pone il Corriere è se si possa dialogare con i cattivi maestri come Ramadan. Nello schema, Paul Berman e Christopher Hitchens, i due principali teorici di sinistra del fascismo islamico, sarebbero contrari a parlare con Ramadan, mentre Ian Buruma e Mark Lilla favorevoli, e con loro anche il giornale dell’ex Pci, l’Unità, il quotidiano di Rifondazione comunista, Liberazione, e Gian Enrico Rusconi della Stampa. Oltre che l’Einaudi di Torino e di Silvio Berlusconi, curiosamente casa editrice sia di Ramadan, sia di Berman, sia di Hitchens, sia di Buruma e vedremo se anche di Mark Lilla. Ma è questo il punto? E’ davvero questa la questione cruciale del dibattito in corso? Oppure, ancora più clamorosamente, non stiamo assistendo a un’ulteriore prova della trasformazione della sinistra liberal – e parlo di quella liberal, non di quella socialista o ex comunista – in qualcosa di diverso, in qualcosa che sarebbe formidabile poter definire con una parola diventata tabù, in quanto già utilizzata nel 1973 dal socialista Michael Harrington nei confronti di un gruppo di intellettuali americani di sinistra che si stava spostando a destra? La parola è “neoconservatore”, anche se il senso sarebbe opposto a quello odierno. Voglio dire: non è che questo dibattito su Ramadan dimostri come l’intellighenzia liberal, a cominciare da Lilla e Buruma, sia diventata portatrice di un nuovo pensiero conservatore? Considerate la tesi del libro di Lilla, da cui è partito il dibattito. Il nucleo centrale di “The Stillborn God”, sposato dal magazine del New York Times e lodato da importanti intellettuali di sinistra, non potrebbe essere più conservatore (e non è un caso che Lilla fino a pochi anni fa sia stato uno studioso di area neocon e oggi sia un pupillo della sinistra). Lilla, infatti, avverte il pericolo del peso nella società della teologia politica, ma anche l’annacquamento liberale della religione. Sia l’una che l’altro, secondo Lilla, finiscono per creare culti messianici che minacciano la cultura liberale. Oggi la sinistra intellettuale che conta, quella che si ritrova sulle pagine del New York Times e della New York Book Review, abbraccia le idee di Lilla e considera Christopher Hitchens, l’autore di “Dio non è grande”, come un traditore al servizio di George W. Bush e della sua cordata di evangelici. Mica male, no? Quanto a Ramadan, poi, siamo sicuri che Hitchens e Berman non vogliano parlare con il nipote del fondatore dei Fratelli musulmani? Quanto è successo al Festival di Mantova dimostra il contrario. Il Corriere racconta che, originariamente, era previsto un incontro tra Hitchens e Ramadan, poi saltato perché Ramadan ha detto di no. Ramadan, non Hitchens. Ed è finita che Hitchens aveva talmente voglia di dialogare con Ramadan, da essere andato all’incontro come semplice spettatore, in modo da potergli finalmente parlare. E Paul Berman? Mentre Lilla e Buruma e i loro sostenitori italiani continuano a dire che bisogna dialogare con Ramadan – senza però avviare nessun dialogo, se non per dargli ragione come diceva Totò “a prescindere” – Berman ha scritto un lungo saggio pubblicato da New Republic e dal Foglio che è il primo tentativo pubblico di dialogo serio con Ramadan. Il saggio si intitola “Chi ha paura di Tariq Ramadan?” e Berman, avendolo scritto, evidentemente non è tra quelli che hanno paura del confronto. Ed è bizzarro che l’articolo di ieri scritto da Rusconi sulla Stampa a favore del dialogo con Ramadan e contro le posizioni di Berman sia stato titolato proprio “Chi ha paura di Ramadan?”, esattamente come il saggio di Berman. A quel saggio, Ramadan non ha risposto, e nemmeno Lilla e Buruma, se non per dire che Berman non vuole dialogare con Ramadan. Anzi sia Lilla sia Buruma (quest’ultimo scrive anche su Repubblica) sostengono l’insensatezza di ascoltare i dissidenti del mondo islamico, perché essendo costoro laici e liberali, al contrario di Ramadan, non possono influire sulla società islamista. Il punto, quindi, non è Ramadan, è l’intellighenzia liberal che con una plastica giravolta ideologica ora elogia il ruolo di un cultore della sharia e si fa vanto di denigrare le coraggiose battaglie di Ayaan Hirsi Ali, Magdi Allam e di quel frocio di Pim Fortuyn. Battaglie che, un tempo, erano considerate liberali e di sinistra.
Sempre dal FOGLIO, un brano del libro di Carlo Panella "Fascismo islamico" spiega gli errori del "dialogo" con i falsi moderati dell'islam:
Tra le mille incomprensioni che segnano il dibattito sulla necessità di condurre, sempre e comunque, un dialogo tra islam e occidente, senza badare agli interlocutori che il mondo islamico propone, è di rilievo l’equivoco che riguarda la “chiesa” musulmana e il suo ruolo di freno nei confronti di ogni riforma. Naturalmente, usiamo il termine “chiesa” ben sapendo che è inesatto, che non esiste alcuna formale chiesa musulmana (tranne che nell’islam sciita), che ogni musulmano ha un rapporto diretto con Allah, che non esiste nessun sacramento e quindi nessuna figura che lo eroghi, che non esiste altra cerimonia liturgica se non la preghiera, che è comunque individuale. Lo usiamo, però, in maniera provocatoria, per segnalare l’esistenza di una casta sacerdotale, i cui membri sono in realtà giuristi, che oggi ha un peso tale da deformare lo stesso islam, ostacolando il dibattito religioso al suo interno, svilendolo in non poche occasioni in una sterile disquisizione giuridica di scarso spessore culturale. Gli ulema, le personalità musulmane che parlano a nome dell’islam sunnita, infatti, appartengono a una casta chiusa, autocooptata, autogenerata, e sono i titolari indiscussi dell’applicazione del diritto musulmano. Ogni alim (singolare di ulema), ogni sheikh che calca con autorevolezza la scena dell’islam mondiale o nazionale ha un preciso posto in una rigida gerarchia, riconosciuta nella sua comunità di riferimento, fa parte di una casta, di un vero e proprio ceto sociale dirigente. Questa gerarchia non è prevista dalla fede, ma è fondata sull’esercizio del Diritto e della pratica giudiziaria basata sulla sharia. Per fare un esempio chiarificatore: lo sheikh Yusuf al Qaradawi è un insigne giurista, non un teologo come viene ritenuto in occidente dai tanti suoi estimatori cristiani, tanto che presiede il “Consiglio per la fatwa in Europa”, i cui pareri giuridici sono vincolanti per i musulmani europei che si riconoscono nell’area dei Fratelli musulmani. Questa sorta di “chiesa giuridica” è strutturata al suo interno da un cursus honorum: gli ulema acquisiscono esperienza e sapienza facendo i magistrati nei tribunali islamici, a cui gli stati musulmani delegano l’esercizio della giustizia penale, civile e amministrativa. L’autorità religiosa degli ulema e il rispetto sociale di cui godono sono dunque derivati dalla loro scienza giuridica, ben più che da quella teologica. Chiunque legga i testi teologici musulmani contemporanei (di Khomeini, Mawdudi, Qutb, al Banna, Qaradawi, Ramadan) si troverà di fronte a ragionamenti di diritto, di filosofia del diritto, spesso di storia del diritto, di esegesi delle fonti testimoniali del diritto, ma solo molto di rado a elaborazioni propriamente teologiche. Diritto, Legislazione, Codici penali, amministrativo e civile e Rivelazione formano dunque un unicum inscindibile, che costruisce il sistema totalitario dello stato etico. Non vi è il minimo spazio per uscire dalle regole decretate dalla casta giuridico- sacerdotale, che nel corso dei secoli è venuta proponendosi come unica ed esclusiva titolare del Diritto e della sua interpretazione. Nel mondo sunnita, al centro di questo rigido universo autoritario e autoreferenziale, campeggia l’autorevolezza dell’università coranica di al Azhar al Cairo, la più antica del mondo, oggi presieduta dallo sheikh al Tantawi, che è appunto un centro di studi giuridici, con una scarsissima produzione teologica. Il suo rapporto con il regime di Hosni Mubarak – come con quelli di Nasser e Sadat – è strettissimo, e se è vera la critica di chi sostiene che questo connubio tra poteri immobilizza l’islam contemporaneo, è ancora più vero che la responsabilità di questa situazione non è per nulla dell’occidente. Innanzitutto, infatti, il regime egiziano si regge da solo sulle sue forze, e poi il suo carattere laico è una pura invenzione degli occidentali. In realtà l’apparato giudiziario dell’Egitto si fonda sull’intreccio tra legislazione moderna e sharia, tanto che nel 1980 venne modificata la Costituzione e il Fiqh, il diritto islamico, cessò di essere “una” delle fonti di ispirazione della legislazione, per diventare “la” fonte di ispirazione della legislazione. Senza al Azhar, l’apparato giudiziario e legislativo egiziano cesserebbero di funzionare. La situazione è pressoché simile in tutti gli altri paesi arabi, anche in quelli laici come l’Algeria, con l’eccezione dell’Arabia Saudita, che riconosce solo parzialmente l’autorevolezza di al Azhar. In Arabia la struttura giudiziaria è capeggiata dai discendenti diretti di Abd al Wahab (il riformatore fondamentalista del Settecento, seguace di ibn Taymmiyya), che prendono il nome di Al al Shaikh – membri della famiglia del maestro – e occupano le cariche di Gran Muftì, di ministro del Culto e di ministro della Giustizia, incaricato di gestire l’applicazione della sharia, controllando direttamente e senza mediazioni tutti i tribunali. Non esiste dunque oggi nelle società musulmane alcuna possibilità di tripartizione dei poteri, poiché il potere giudiziario è sottratto in larga parte alla disponibilità e al controllo del potere legislativo e di quello esecutivo, a prescindere dal fatto che essi siano esercitati democraticamente o meno. Tutti gli stati islamici contemporanei (a eccezione della Turchia, della Malesia, dell’Indonesia e dell’Iraq) delegano di fatto il controllo finale della legislazione, e spesso anche della gestione dei tribunali, alla “casta dei sacerdoti”, che per di più sono anche titolari di una sorta di Corte costituzionale, il cui compito è decretare se e in quale modo la legislazione corrente sia compatibile con i precetti del Diritto islamico. Il potere assoluto, il vicariato di Dio, assegnato da Khomeini al “governo del giureconsulto”, rappresenta dunque solo l’enfatizzazione di una situazione diffusa. Tuttavia il potere forte della “chiesa islamica” dentro le società musulmane non si costituisce solo come monopolio dell’esercizio del Diritto e della giurisprudenza, ma anche come gestione di parte del gettito fiscale e controllo del welfare. L’islam, infatti, è l’unica religione rivelata che inserisca l’elemento fiscale nelle sue prescrizioni fondamentali. Come è noto, sono cinque i pilastri della saggezza: la proclamazione della fede in Allah, il pellegrinaggio alla Mecca, il rispetto del digiuno durante il Ramadan, le cinque preghiere quotidiane e infine l’autotassazione, la zakat, l’obbligo per il fedele di versare una parte del proprio reddito alla comunità. In genere, i proventi di questa autotassazione sono canalizzati dalle singole moschee verso le potenti, ricchissime Fondazioni (waqf), che non solo drenano denaro e proprietà, ma si incaricano anche di distribuirli sotto forma di welfare, tanto che le moschee sono ovunque (anche in Italia) centri di distribuzione di reddito, di assistenza, di consulenza sociale, di ricerca di lavoro. Se non si ha presente questo meccanismo, non si può comprendere lo straordinario radicamento sociale di Hamas a Gaza negli ultimi trent’anni. Tutti i grandi ulema e sheikh, dunque, controllano direttamente o indirettamente anche le grandi Fondazioni (waqf) locali, assommando quindi al ruolo di giuristi quello di finanzieri. Questo modello complesso di welfare islamico, e il ruolo che gli ulema e gli ayatollah hanno nell’amministrarlo ed elargirlo, è importante per comprendere tre elementi di forza dell’islam fondamentalista: il rapido radicamento, in tutte le situazioni di crisi, di forze estremiste (Hamas ne è il paradigma), che offrono ai musulmani sul territorio un modello sociale alternativo a quello statale (o di al Fatah), inefficiente e malato di corruzione; la tenuta delle forze rivoluzionarie e oltranziste in Iran e il peso che la casta dei sacerdoti-magistrati-finanzieri esercita nell’impedire l’evoluzione modernizzatrice dell’islam stesso. Sul primo punto c’è poco da dire, è noto infatti che l’ignoranza di questa realtà ha indotto i governi israeliani di Begin, Shamir e Rabin ad appoggiare l’affermarsi di Hamas in Palestina, in omaggio alla tesi illuministica che il suo radicamento sociale, basato sul welfare delle moschee, avrebbe costituito un antidoto alle fughe terroristiche di al Fatah. Quanto all’Iran, va detto che per individuare quale parte della popolazione esprima ancora consenso alle forze oltranziste rappresentate da Ahmadinejad, si deve tenere conto proprio della struttura del welfare islamico. L’Iran degli ayatollah ha un reddito nazionale coperto per l’80 per cento dal petrolio, e ha delegato il controllo del 40 per cento del reddito nazionale alle Fondazioni islamiche, le Bonyad. Questo significa che chi controlla il governo e le Fondazioni (oggi l’asse Khamenei-Ahmadinejad) distribuisce in modo capillare ad alcuni milioni di iraniani un reddito collegato direttamente alla rendita petrolifera. E’ questo un meccanismo parassitario, che permette agli ayatollah di redistribuire il ricavato di ogni contratto petrolifero, sotto forma di reddito, a una ventina di milioni di iraniani (forse più, purtroppo non vi sono studi su questo punto cruciale) nell’arco di poche settimane. Si guardi a come Hamas (con la complicità dei sauditi, ora passata all’Iran) abbia costruito welfare anche attorno alla figura dei kamikaze e si comprenderà la complessità del tema. Ogni martire, infatti, è cosciente che il suo gesto di morte non solo è benedetto da Dio e gli permette, grazie al detonatore, la piena conoscenza della divinità, ma anche che la sua famiglia verrà mantenuta per sempre dalla moschea, in una società terrena egualitaria, talmente articolata che ha inventato persino il welfare delle stragi. Tutto quanto sin qui esposto ha una sua profonda influenza anche sul terreno del dialogo interreligioso e sulla tematica della democrazia nelle società islamiche. La casta dei sacerdoti- giuristi-magistrati-finanzieri, infatti, si costituisce come freno alla modernizzazione dell’islam sia per motivi ideologici sia per più prosaiche ragioni di interesse. La simbiosi tra il potere inquisitoriale della “chiesa” e quello del braccio secolare è totale (vedi la piena integrazione degli alti ulema sunniti nel regime di Saddam Hussein, in quello di Bashar el Assad, così come in quello di Hosni Mubarak o del Fln algerino) e ciò impedisce ogni possibile riforma dello stato. I tanti intellettuali e teologi musulmani modernisti e razionalizzatori che si ispirano oggi ad Averroè non sono contrastati sul terreno dell’ideologia, ma da una pratica di muro contro muro agitata da parte dei leader della casta sacerdotale. Non a caso, non uno di loro ne fa parte, sono in genere professori universitari (spesso formati in Europa o negli Stati Uniti) o intellettuali isolati, esclusi da ogni meccanismo di controllo sugli apparati giudiziari così come sulle Fondazioni. Del resto, ulema e ayatollah, monopolisti del Diritto e del welfare islamico, sono ben coscienti che basterebbe far crollare una pietra della loro costruzione politico-religiosa, anche soltanto modificare il pilastro su cui si regge la semischiavitù della donna, e crollerebbe tutto il tempio dell’islam di cui sono custodi. Da qui le loro reazioni rabbiose nei confronti dei riformatori, le impiccagioni degli apostati, come quella di Mohammed Taha nel 1985, le persecuzioni dei teologi modernisti. Per questo l’appello violento alla piazza araba, fosse anche per imporre al Pontefice un gesto di umiliazione di fronte alla casta degli ulema che sente insidiato il suo potere. Si leggano gli scritti di Tariq Ramadan, che strizza l’occhio ai no global e agli altermondialisti. Si vedrà come anche il suo islam alternativo si basi su una rigida concezione oligarchica del potere, poiché egli affronta la teologia, e quindi il diritto, quale autorevole membro di una casta che si autoperpetua e che soffoca la stessa platea dei fedeli. Ramadan, così come i Fratelli musulmani e qualsiasi musulmano non razionalista, anche quando invoca una riforma dell’islam intende svilupparla solo sul piano del Diritto e della giurisdizione, non su quello teologico. Quella che egli prospetta è una riforma dei codici, che per svilupparsi deve comunque rispettare due capisaldi della pratica musulmana: il consenso e il principio di analogia. Per modificare ogni principio del diritto (Fiqh) o della legge (sharia) è necessario che vi sia il consenso da parte dei giurisperiti (ulema o ayatollah) e che la modifica venga giustificata da analogie evidenti in precedenti riforme interpretative. Questa metodologia elitaria e chiusa innerva la “chiesa musulmana”, legittimandola e perpetuandola. Non solo dunque, questa casta di ulema nega alle comunità musulmane il diritto di interpretare il testo (come era nella tradizione sino all’anno Mille), ma impedisce anche che qualsiasi struttura elettiva operi delle riforme della sharia, perché nessuna assemblea eletta potrà mai fornire il consenso qualificato e garantito dalla provata conoscenza dei testi, delle catene di testimonianza e dei principi di analogia. Il tutto, in un contesto giuridico in cui ogni ragionamento di diritto deve essere ancorato alla tradizione: per essere accettato come valido deve essere suffragato da una lunga catena di testimoni attestanti che il Profeta, a fronte di quella casistica, o di una analoga, si sia comportato in modo omogeneo. Questo diritto islamico, che non si basa sull’habeas corpus, sul diritto romano e che nega le regole del rapporto equilibrato tra individuo e stato (impedendo al cittadino di influire sulla legislazione penale, civile e amministrativa), diventa esso stesso una religione che richiede l’osservanza delle sue prescrizioni come elemento di culto, nonostante sia obsoleto, medievale, codificato da una casta di sacerdoti due secoli dopo la morte di Maometto, e oggi difeso dai suoi epigoni. E’ un diritto che sovrasta la teologia e la stessa spiritualità, perché l’osservanza dei suoi precetti diventa elemento fondamentale di culto, diventa religione e qui, di nuovo, risuona con drammatico allarme la consonanza con la concezione dello stato, del diritto e della persona propri del nazi-fascismo. Nonostante tutto ciò, da decenni l’occidente e le sue chiese rendono omaggio ai principali esponenti – i più conservatori – di questa casta sacerdotale che soffoca e annulla la grande carica di rivelazione e spiritualità dell’islam stesso. Da una trentina d’anni, il dialogo tra la chiesa e l’islam si sviluppa all’interno di un dialogo interreligioso, in particolar modo dopo l’impulso dato dalla Giornata della preghiera celebrata ad Assisi nel 1986 con l’orazione comune dei rappresentanti di tutte le religioni del mondo. Panacea per tutti i mali, esorcismo contro tutti i demoni terroristi, il dialogo viene riproposto in continuazione per negare l’esistenza di quella Guerra di civiltà che pure è evidentemente in atto (non certo perché l’occidente l’abbia dichiarata e ancor meno la voglia combattere, ma perché una parte consistente dell’islam l’ha provocata e la conduce spietatamente). Nel concreto, tutti questi incontri hanno un ambito ben definito di competenza: il raffronto tra i testi, la comune origine abramitica, le diverse forme della tradizione, i massimi principi di teologia. Si tratta certo di dotte e ottime discussioni che però hanno un limite: come precondizione al dibattito, esse evitano il confronto sulle specifiche prescrizioni di ogni religione e mai affrontano i temi più scabrosi della sharia. Ora, è comprensibile che per sviluppare con serenità un confronto interreligioso si debba evitare ogni critica all’altra religione. Sarebbe improduttiva, per esempio, una discussione sulla definizione di peccato, o una polemica sul fatto che lo shirk, l’accostare a Dio una o più figure di culto, sia o meno il più grave peccato possibile (lo è nell’islam, non certo nel cattolicesimo, che prevede il culto mariano e dei santi). Tuttavia non è possibile evitare il dibattito sulle conseguenze penali che questo peccato deve avere secondo la dottrina religiosa dei propri interlocutori. Pure, da molti anni, cardinali e vescovi cattolici e cristiani dialogano serenamente con ulema musulmani convinti che il responsabile di shirk debba essere consegnato al braccio secolare della legge e ucciso (o incarcerato, a seconda delle scuole giuridiche e dei paesi), secondo una tradizione inquisitoriale che non solo è viva nell’islam, ma che è addirittura in espansione anche nei paesi laici. Sul tema della parità tra uomo e donna, cardinali e vescovi hanno passato ore e ore seduti a tavoli di conferenze per certificare che l’islam considera la perfetta parità delle anime del maschio e della femmina, senza tener conto del fatto che esso ritiene giusto e doveroso lapidare le adultere. Sul terreno della libertà religiosa, vi sono lunghissimi resoconti ispirati alle Sure meccane e alla loro poetica, ma non ci risulta che un fautore cattolico del dialogo abbia mai organizzato con i suoi interlocutori musulmani un convegno dal tema: “Perché è giusto condannare a morte gli apostati”. Dobbiamo tristemente constatare come si sia così consolidata una grande ipocrisia e si siano legittimati quali interlocutori i sostenitori della versione più dogmatica e autoritaria dell’islam, permettendo che non fossero messi in discussione i principi del Diritto islamico (Fiqh) e quindi le prescrizioni della legge islamica, la sharia. Evitando di aprire il dialogo a questi temi, si è lasciato fuori dalla discussione il problema centrale dell’islam odierno: il rispetto dei Diritti dell’Uomo. Ricordiamo che questi diritti non sono conculcati dalla teologia islamica, ma sono negati da quasi tutte le scuole della sharia dei paesi islamici. Le sei principali scuole della sharia (shahafita, hanbalita, malikita e hanafita per i sunniti, jaafarita e nizarita per gli sciiti) sostengono infatti che: – la donna deve essere sottoposta all’autorità tutoria dell’uomo. Non può quindi compiere le scelte fondamentali della sua vita personale, incluso il matrimonio, se non con l’autorizzazione di un maschio di famiglia. Non può divorziare, ma può essere ripudiata. Per alcune scuole, la sua vita, in caso di omicidio, così come la sua testimonianza in tribunale, valgono o la metà o un quarto rispetto a quella di un maschio. – Il musulmano non può abbandonare la fede. Se lo fa, incorre nel peccato di apostasia, punito con la morte in Afghanistan, Iran, Yemen, Arabia Saudita, Emirati del Golfo, Sudan e stati settentrionali della Nigeria. Negli stati laici, Egitto, Siria e Algeria, l’apostata è punito con la prigione o con pene accessorie, per esempio è costretto per legge a divorziare dal coniuge musulmano. – Il combinato disposto di queste due prescrizioni impone la proibizione del matrimonio della musulmana con l’ebreo o con il cattolico (la proibizione, naturalmente, non vale per il musulmano maschio). Il fatto che per molto tempo si sia condotto un dialogo interreligioso basato su queste omissioni spiega bene come mai esso si sia sviluppato con una strana asimmetria. Da parte cristiana, e soprattutto nella Curia romana, ha premuto per questo dialogo, lo ha esaltato, invocato e organizzato, la compagine più progressista (quella stessa che sembra peraltro più ostile a Israele e alle ragioni storiche degli ebrei in Palestina) rappresentata dal responsabile del Dialogo interreligioso per la Curia, cardinale Michael L. Fitzgerald, da padre Michel Maurice Borrmans, da Michel Lagarde, da Etienne Renault, da Thomas Michel, come pure gli arabocristiani Georges Khodr e Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme. Quest’ultimo, un arabo, è talmente motivato da antigiudaismo che ha più volte sostenuto in pubblico che Gesù Cristo non era un ebreo, ma un palestinese. Da parte islamica, per converso, i più ferventi sostenitori e frequentatori di assemblee, conferenze e dibattiti sono proprio i più dogmatici e conservatori. Il massimo ideologo dei Fratelli musulmani, Yusuf al Qaradawi, è tra questi, affiancato dal vertice dell’islam saudita che impegna in queste scadenze non solo gli ulema (tutti discendenti diretti di Mohammed al Wahab), ma anche i più eminenti – e fondamentalisti – tra i principi della casa reale. Per paradosso, dunque, il dialogo interreligioso ha rafforzato e legittimato proprio le forze più settarie, quelle che bloccano, con i poteri di una casta sacerdotale, la modernizzazione dell’islam e fiancheggiano, quantomeno dal punto di vista teologico, l’islam totalitario. In realtà, come su tutti i grandi temi che oggi la chiesa affronta, anche sul dialogo interreligioso i percorsi postconciliari sono stati influenzati dalla dialettica tra due posizioni che hanno una forte carica comune di innovazione, ma che poi si sviluppano in direzioni marcatamente divergenti. Una dialettica, che dal 1963 si è incarnata e ancora oggi si incarna in due teologi tedeschi, che nel Concilio Vaticano II svolsero un ruolo innovativo centrale: Joseph Ratzinger, appunto, e Hans Küng. L’influenza di quest’ultimo, arginata sul terreno dottrinale proprio da Ratzinger, quale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, si è invece sviluppata senza controlli – molto al di là della sua stessa influenza personale, e quindi senza una sua responsabilità diretta – proprio sul campo del dialogo con l’islam. Nelle sue opere, Küng dimostra una conoscenza profonda della teologia, del diritto e del dibattito religioso del mondo musulmano. Non si nasconde il peso frenante che la lettura formale e dogmatica della sharia ha oggi sul piano del rispetto dei diritti umani della donna e dell’esercizio del libero pensiero. Non sottovaluta neanche il rifiuto della modernità che vizia il pensiero musulmano contemporaneo, ma poi propone il superamento di questa drammatica situazione – brillantemente analizzata – a partire da un’attribuzione di colpe che l’occidente dovrebbe assumersi nei confronti del resto del mondo, e da un volontaristico e indeterminato appello al dialogo. Il punto di partenza del teologo tedesco è comune a tutti gli artefici del dialogo interreligioso post conciliare: “Questo dialogo sarà fruttuoso solo se si limiterà a reciproche valutazioni positive e segni di stima, senza includere critiche all’altra religione. La critica, per essere convincente, deve sempre includere un’autocritica… Sono davvero poco convincenti quei rappresentanti delle chiese cristiane che esigono tantissimo dalle società e dalle altre religioni, ma che nascondono la lunga storia di intolleranza delle chiese cristiane e l’attuale, dogmatica pretesa di esclusiva santità in nome di Dominus Jesus (come recita l’omonimo titolo del documento vaticano), mascherando e celando la propria incapacità di dialogo”. Con una formula facile e semplice, nel brano poco sopra viene cristallizzata l’impossibilità di criticare non la teologia, ma il diritto islamico, che per gli interlocutori musulmani è tutt’uno con la Rivelazione. Questa impostazione – accompagnata dalla prescrizione di non criticare se non dopo essersi autocriticati – è quella che ha permesso di riconoscere statura internazionale a teologi come Yusuf al Qaradawi, che ritengono lecito massacrare bambini ebrei in Israele (“perché in una società militarizzata sono o saranno tutti soldati”) o ai teologi sauditi, che considerano prescrizione divina il dovere di uccidere gli apostati e lapidare le adultere. Non solo. Tale visione risulta grave anche sul piano teologico, poiché rifiuta la possibilità stessa di una critica al jihadismo. Secondo Küng, la cristianità, che pure con Giovanni Paolo II ha ampiamente autocriticato la sua pratica della Guerra santa durante le Crociate, deve rimanere silente, oggi, a fronte del diffondersi dell’ideologia della Guerra santa islamica, che anche teologi influenti, partecipanti al dialogo interreligioso, predicano e praticano. L’errore è ampliato da un’analisi inadeguata del fenomeno del fondamentalismo e del terrorismo islamico a esso collegato, mutuata da Kofi Annan: “Se io, in quanto cristiano, non voglio che la mia fede sia giudicata secondo le attività dei crociati o dell’Inquisizione, devo poi essere attento, a mia volta, a non giudicare la fede di un’altra persona sulla scorta di quello che un piccolo gruppo di terroristi commette in nome di quella fede”. Il problema dell’islam jihadista è dunque ridotto all’azione di “un piccolo gruppo di terroristi”, come se l’islam di Khomeini, di Ahmadinejad, di Hamas, delle migliaia e migliaia di kamikaze sunniti (che hanno compiuto non meno di quattromila attentati suicidi nel mondo) non esistessero, come se la guerra civile algerina, quella afghana, quelle sudanesi, quella libanese, quella irachena e quella palestinese non fossero state scatenate in nome delle fede. Küng delinea dunque un percorso di rapporto con l’islam confliggente con quello che Joseph Ratzinger ha intrapreso a Ratisbona e con la sua visita in Turchia, là dove ha criticato la pratica della conversione attraverso la spada: “Dio non si compiace del sangue. Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. E’ questa una perfetta sintesi teologica che fa risalire l’origine del jihadismo, del proselitismo violento in nome di un Dio che si compiacerebbe del sangue dell’empio (il Takfir), alla separazione tra fede e logos. Ratzinger ha imposto all’attenzione del mondo un nuovo terreno di confronto, che riguarda non solo l’islam, ma tutte le ideologie e religioni contemporanee. Il punto discriminante per accettarle o contrastarle – in nome dei diritti della persona e dell’uomo – è il rapporto tra fede e razionalità. Ma l’islam fondamentalista si basa appunto sulla concezione di un Dio trascendente e incomprensibile, su leggi da Lui definite in modo altrettanto incomprensibile, che è inutile tentare di decifrare con la razionalità. E’ l’eredità pesante del percorso intrapreso nel XII secolo, quando trionfarono al Ghazali e ibn Taymmiyya e fu definitivamente abbandonato il razionalista Averroè. Küng non coglie questo discrimine posto da Ratzinger e si espone in una critica frontale alla pastorale Dominus Jesus del 2001. Quel documento, firmato da Giovanni Paolo II ma scritto dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, rivendicava la santità e l’unicità della chiesa cristiana, ma in modo ben diverso dall’affermazione di superiorità rivendicata oggi dall’islam nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo nell’islam, che abbiamo in precedenza analizzato. Alla luce del successo del rilancio dell’antisemitismo islamico da parte di Ahmadinejad, inquieta poi la dura polemica di Küng contro le politiche dello stato di Israele: “Sono davvero poco convincenti quegli esponenti dell’ebraismo che non perdono occasione per lamentarsi amaramente del crescente antisemitismo in Europa, ma che respingono tutte le critiche alla disumana politica di oppressione del governo israeliano sotto la guida di Ariel Sharon, tacciandole grossolanamente di antisemitismo, senza esprimere nessuna pietà o almeno un minimo senso di giustizia verso il popolo palestinese, sfinito da decenni di aggressioni”. Risuonano in queste parole i lasciti di un radicato antigiudaismo cristiano, che rifiuta di cogliere l’essenza dell’antisemitismo, riducendolo a una reazione alle “colpe degli ebrei”, in questo caso degli ebrei israeliani. Inaccettabile è la definizione di “politica disumana” applicata all’operato di Ariel Sharon (smentita, tra l’altro, dalla sua storica decisione del ritiro unilaterale da Gaza), così come l’accusa agli ebrei che protestano contro l’insorgere dell’antisemitismo “senza esprimere nessuna pietà o almeno un minimo senso di giustizia verso il popolo palestinese, sfinito da decenni di aggressioni”. Non si fa menzione delle violenze che da decenni i palestinesi compiono su altri palestinesi, in quel lungo processo che ha incubato la guerra civile. L’ossessione penitenziale di Küng, condivisa da tanta parte del pensiero laico contemporaneo, così come da quello islamico (vedi Mohammed Arkoun), arriva sino al punto di accusare la cristianità cattolica e protestante di avere “dichiarato guerra alla scienza, alla tecnologia e alla democrazia moderna, per paura di perdere il proprio dominio e il proprio potere spirituale”. Pure, è incontrovertibile che – nonostante Galileo, nonostante il Sillabo – la scienza, la tecnologia e la stessa democrazia moderna nascono proprio dal felice incontro tra fede e ragione sbocciato durante il cristianissimo Rinascimento e poi fiorito – grazie soprattutto alla Riforma luterana – nei secoli successivi. Certo, vi furono freni, ostacoli, lentezze e imposizioni dogmatiche, ma qualsiasi storico della scienza può facilmente dimostrare che la presunta “guerra alla scienza, alla tecnologia e alla democrazia moderna” non fu mai né dichiarata né combattuta dalla cristianità, che invece fornì l’alveo in cui esse si sono potute esplicare, sviluppare e affermare, e in cui ha trovato posto, infine, anche l’affermazione della laicità dello stato. Ancora una volta vengono proposti, quale panacea universale, il dialogo e un’ingiustificata autoflagellazione dell’occidente, cristiano o laico che sia. Una resa a quell’islam fondamentalista che non rappresenta l’intero islam, ma che è l’ala marciante di un movimento musulmano con marcate componenti fasciste e naziste, in grado di espandersi pochi decenni dopo che l’Europa cristiana e laica è riuscita a estirpare un male simile, incancrenito nel suo corpo. (tratto dal libro Fascismo islamico, Rizzoli 2007)
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