Intervista di Umberto De Giovannangeli a Piero Fassino sull' UNITA' dell'8 agosto 2007.
Accanto ad elementi indubbiamente positivi, la posizione del segretario dei DS ne contiene alcuni molto discutibili.
In particolare il riferimento alla piattaforma della Mecca, che impegnava Hamas a rispettare temporaneamente gli accordi dell'Autorità palestinese con Israele, non a riconoscerli. E, per il resto, portava piuttosto Fatah sulle posizioni di Hamas.
Inquietante anche il riferimento al cancelliere austriaco Bruno Kreisky: un esempio di mediazione tra israeliani e palestinesi per Fassino. Un esempio di preconcetta ostilità a Israele per la storia.
Ecco il testo:
Il segretario dei Ds ha concluso la missione in Medio Oriente
«Non sprecare questo spiraglio di negoziato che si è aperto dopo anni»
«Rafforzare in ogni modo Abu Mazen è la condizione perché si possa fare una pace giusta in Medio Oriente e perché tutti, anche Hamas, facciano i conti con lui». A sostenerlo è Piero Fassino. In questa intervista a l’Unità, il segretario dei Ds e copresidente del Comitato per il Medio Oriente dell’Internazionale Socialista, fa un bilancio della sua intensa missione in Israele e nei Territori conclusasi ieri. «L’opportunità di arrivare finalmente alla pace - rileva Fassino - deve sollecitare l’Europa a esserne protagonista».
In questi giorni, ha avuto modo di incontrare esponenti politici e di governo israeliani e palestinesi. Quale impressione ne ha ricavato?
«Tutti sono consapevoli che si è aperta una nuova opportunità che non va sprecata. Per la prima volta da molti anni, un negoziato di pace appare possibile e questo nuovo scenario è maturato dopo la crisi di Gaza. Quella crisi ha reso evidente a tutti che il passare del tempo non lavora per la pace, ed anzi ha favorito il radicalizzarsi dei settori più estremi come Hamas. Questo spiega molte iniziative di queste settimane: le dichiarazioni di Olmert e del governo israeliano, gli incontri tra il premier Olmert e il presidente Abu Mazen, la formazione del governo Fayyad nei Territori, la nomina di Tony Blair a inviato speciale del Quartetto, l’impegno dei principali Paesi arabi, in particolare dell’Arabia Saudita, le missioni in Medio Oriente di molti capi di governo europei, a partire da Romano Prodi: il tutto è culminato nell’iniziativa dell’amministrazione Usa di proporre per novembre una Conferenza internazionale di pace con tutti i principali attori della regione. Ed è significativo che Paesi arabi importanti come l’Arabia Saudita, abbiano dato la loro disponibilità. È chiaro che a questo punto la questione che sta di fronte a tutti è evitare che la Conferenza sia soltanto una stretta di mano o una fotografia dei leader, perché se così fosse sarebbe l’ennesima occasione sprecata».
Come evitare questo rischio?
«È necessario passare da manifestazioni di volontà a scelte precise. D’altra parte, dopo quindici anni di negoziati i problemi sono ormai tutti sviscerati e noti. Si tratta di decidere come sciogliere i nodi fondamentali di un accordo di pace. Che questo debba essere l’approccio, lo dimostra la decisione assunta l’altro ieri nell’incontro tra Olmert e Abu Mazen per redigere un “accordo di principi” che dica quale debba essere la soluzione di nodi cruciali: confini e modalità di un eventuale scambio di terre; status di Gerusalemme; questione dei rifugiati palestinesi; destino degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, e infine l’uso delle acque. È una impostazione nuova rispetto al passato: per circa quindi anni, infatti, il negoziato di pace è stato fondato su una gradualità progressiva di accordi parziali, lasciando alla fine del processo la risoluzione dei nodi strategici più difficili...».
Mentre adesso?
«Adesso invece si parte proprio dal definire come debbano essere risolti tutti i nodi, lasciando poi ai negoziati successivi il compito di individuare le soluzioni applicative».
Ma Olmert e Abu Mazen possono farcela da soli?
«È chiaro che la pace la debbano fare prima di tutto loro. Ma non è indifferente l’influenza che può avere la Comunità internazionale nel sostenere i negoziati e nel creare il clima di fiducia necessario. Ad esempio, a settembre si svolgerà a New York la Conferenza dei Paesi donatori, ed è importante che da quella sede venga un contributo finanziario cospicuo per supportare politiche di sviluppo e cooperazione in Cisgiordania che aiutino e sostengano anche il processo di pace. L’altra chiave essenziale è collocare il processo di pace in una dimensione regionale, coinvolgendo Paesi strategici come l’Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, i ricchi Emirati del Golfo, e verificando la possibilità di un coinvolgimento di Siria e Libano».
Lei ha incontrato sia il presidente palestinese Abu Mazen che il premier Fayyad, e prim’ancora importanti ministri israeliani, come Tzipi Livni (Esteri) ed Ehud Barak (Difesa), e il Capo dello Stato ebraico, Shimon Peres: che impressione diretta ha ricavato?
«Nei colloqui che ho avuto con i dirigenti israeliani ho percepito una forte stima personale e una grande fiducia sia nei confronti del presidente Abu Mazen che del primo ministro Fayyad, e devo dire che reciprocamente anche nei colloqui con Abu Mazen e Fayyad ho registrato una fiducia molto maggiore nella volontà del governo israeliano di arrivare ad un accordo di pace. Naturalmente sappiamo tutti quale sia il vero pericolo, e cioè la crescita delle organizzazioni integraliste islamiche come Hamas, Hezbollah e altre ancora. È evidente che Abu Mazen sarà tanto più forte quanto la Comunità internazionale lo sosterrà in modo determinato e visibile. Così come non è indifferente che cosa gli israeliani saranno in grado di proporre effettivamente per la nascita di uno Stato palestinese. In ogni caso è evidente che Abu Mazen è il presidente legittimo, eletto da tutti i palestinesi, ed è l’unico che può sottoscrivere un accordo di pace a nome del popolo palestinese».
Ma sulla strada di Abu Mazen c’è Hamas.
«Certamente, e Abu Mazen ne è consapevole, ne abbiamo parlato nel nostro incontro a Ramallah. Il presidente palestinese è anche consapevole che bisogna evitare che la popolazione di Gaza paghi per le colpe di Hamas. Quello di Hamas è un problema che deve essere risolto dai palestinesi e tra i palestinesi, ma non si può prescindere dal fatto che è stata Hamas a far saltare l’accordo della Mecca, è stata Hamas a fare il colpo di stato a Gaza, ed è stata Hamas che ha destabilizzato l’Autorità nazionale palestinese e messo in discussione il ruolo di Abu Mazen. Il che significa che è Hamas che deve compiere i primi passi, riconoscendo l’autorità di Abu Mazen, accettando l’autorità del governo Fayyad anche sulla Striscia di Gaza, riconfermando di accettare la piattaforma della Mecca che riconosce tutti gli accordi sottoscritti tra Olp e Israele».
Ma è realistico che Hamas lo faccia?
«Non lo so, e nell’immediato mi sembra molto difficile. Ma certamente se non compie questi passi crescerà il suo isolamento internazionale. E in ogni caso rafforzare Abu Mazen è la condizione perché tutti, anche Hamas, facciano i conti con lui».
In questo scenario politico-diplomatico in forte movimento, quale ruolo può giocare l’Europa?
«L’opportunità di arrivare finalmente alla pace deve sollecitare l’Unione Europea a esserne protagonista. D’altra parte l’Europa è membro del Quartetto, ed è anche alla testa dell’impegno internazionale in Libano. Non solo. L’Europa gestisce il valico di frontiera di Refah tra Gaza e l’Egitto, ed è presente a Hebron con una missione di monitoraggio e di sicurezza. E infine l’Unione Europea è il principale finanziatore dell’Anp ed è il primo partner commerciale di Israele. Sono tutte ragioni che sollecitano l’Unione ad avere un ruolo politico, tanto più quando il Quartetto (Usa-Ue-Onu-Russia) ha affidato la propria rappresentanza ad un leader europeo quale Tony Blair. Aggiungo anche che l’Italia è particolarmente interessata ad un ruolo attivo della Ue, stante il nostro impegno primario in Libano, e le relazioni che l’Italia ha sia con l’Anp sia con Israele».
Dall’Unione Europea all’Internazionale Socialista Da cosa nasce l’attivismo politico dell’Is in Medio Oriente?
«Da sempre l’Internazionale Socialista è un forum di dialogo fra israeliani e palestinesi. Basterà ricordare l’impegno in prima persona di leader come Willy Brandt, Olof Palme, Bruno Kreisky, che in tempi molto più difficili di oggi promossero i primi colloqui informali, e spesso segreti, tra israeliani e palestinesi. Né è senza significato che gli accordi di Washington siano stati negoziati a Oslo, capitale di uno dei grandi Paesi socialdemocratici scandinavi...».
Questo nel passato. Ma oggi?
«Anche oggi l’Internazionale Socialista può svolgere un ruolo attivo, tanto più che è l’unica sede politica internazionale nella quale siedano due partiti israeliani - il Labour e il Yahad di Yossi Beilin - e i palestinesi di al-Fatah. Sulla base della missione che io e il ministro degli Esteri norvegese abbiamo compiuto in questi giorni, prepareremo un rapporto da inviare al presidente dell’Is e a tutti i partiti membri con precise raccomandazioni di iniziative e azioni politiche, promovendo contemporaneamente un programma di missioni in tutti i Paesi del Medio Oriente. Insomma, vogliamo fare la nostra parte per sostenere un pace da troppi anni attesa».
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