Confini certi per la pace
intervista ad Abraham B. Yehoshua
Testata:
Data: 05/08/2007
Pagina: 10
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: «Anche da confini certi nascerà la pace»
Da L'UNITA' del 5 agosto 2007, un'intervista di Umberto De Giovannangeli a Abraham B. Yehoshua:

«LA PACE è anche una sfida con se stessi, con le paure, le diffidenze, che abbiamo interiorizzato. La pace è liberarsi di queste paure, scrollarsi di dosso il fardello della memoria, ed è anche riconoscere le ragioni, e non solo l’esistenza, degli altri. Ma la pace
è anche liberarsi dall’ossessione della propria forza. La pace, quella vera, che è ben altra cosa dall’assenza di guerra, non potrà nascere solo da una iniziativa dall’alto, ma dovrà radicarsi nella mente e nei cuori dei due popoli». Un estate fa, di questi giorni, Abraham Bet Yehoshua viveva, da cittadino di Haifa, l’incubo quotidiano dei razzi katyusha che si abbattevano sulla città. Eravamo nel pieno della guerra tra Israele e Hezbollah. All’inizio di quel conflitto, lo scrittore israeliano si era schierato a favore di una risposta ferma all’attacco delle milizie sciite libanesi: «Non bisogna dimenticare - ricorda Yehoshua - che il 12 luglio Hezbollah sferrò un attacco a Israele, uccidendo otto soldati, rapendone due e bersagliando con i suoi razzi i centri israeliani del Nord. Quella risposta era necessaria e giustificata anche sul piano morale, ma poi…». Dietro quel «poi» c’è il ripensamento dello scrittore, il suo gridare «basta», un appello rivolto alle autorità di Israele: «Qualcuno - riflette a un anno di distanza lo scrittore - si illuse o fu portato a credere che con la guerra avremmo potuto "pacificare" il Libano. Quell’illusione si rivelò un tragico errore». E l’errore più grande «è credere che esista una scorciatoia militare all’affermazione del nostro sacrosanto diritto alla sicurezza. Le armi non potranno mai sostituire la politica nella ricerca di un compromesso che ridisegni il volto di un nuovo Medio Oriente».
Yehoshua guarda con favore e con cauto ottimismo alle aperture del premier Olmert nei riguardi del presidente palestinese Abu Mazen: «Per una volta - osserva - due debolezze riescono a fare una forza…». Ma la pace, quella vera, non può riguardare solo israeliani e palestinesi. «Resto convinto - afferma Yehoshua - che occorra estendere il nostro orizzonte fino comprendere la Siria. A Olmert dico: metti alla prova Bashar Assad. Aprire a Damasco significherebbe anche provare a spezzare la pericolosissima alleanza fra la Siria e l’Iran». Presente e passato s’intrecciano nelle riflessioni del grande scrittore israeliano, che oggi si gode il successo del suo ultimo romanzo «Fuoco amico», che presto uscirà anche in Italia per Einaudi. Al centro del nostro colloquio c’è sempre lo sforzo di definire al livello più alto il concetto di pace. Che nella visione di Yehoshua è anche rivisitazione critica della storia nazionale: «La pace - dice - potrà dispiegarsi solo quando tutti noi, israeliani e palestinesi, avremo compreso l’essenza di questo conflitto, nel quale a scontrarsi non sono il Bene e il Male, la Ragione e il Torto, Bios e Thanatos ma due ragioni, due diritti egualmente fondati». La pace, dunque, «è anche l’ammissione da parte nostra che la nascita di Israele si fonda su un atto vissuto da un altro popolo come un sopruso».
Un anno fa di questi tempi, le armi tuonavano in Medio Oriente. Un anno dopo, come definirebbe la situazione?
«Haifa ha ripreso a pulsare di vita. I locali sono animati, il dialogo tra la comunità ebraica e quella araba che rende culturalmente ricca Haifa non si è mai spezzato. Il che non significa chiudere gli occhi di fronte alle incognite del futuro…».
Quali sono queste incognite viste da Haifa?
«Il Libano è un Paese tutt’altro che stabilizzato. Hezbollah non ma mai cessato di riarmarsi e ora sembra che nel Sud si siano insediate anche cellule qaediste. La vigilanza è d’obbligo, ma proprio per questo ritengo di straordinario significato l’impegno di quei caschi blu dispiegati ai confini tra Libano e Israele: senza di loro, non vi sarebbe stata stabilizzazione. E noi israeliani non dovremmo dimenticare che se ciò è avvenuto, molto è dipeso dalla determinazione dell’Italia. Dodici mesi dopo, non siamo all’anno zero: si sono generate dinamiche che hanno anche risvolti positivi».
A cosa si riferisce?
«Penso al piano di pace saudita e alla disponibilità manifestata da Riad a essere parte della conferenza internazionale lanciata da Bush. Mi paiono segnali incoraggianti dietro ai quali emerge la consapevolezza, non solo saudita ma anche di altre nazioni arabe, che la pace con Israele - e la fine del conflitto israelo-palestinese - sia uno strumento strategico per arginare la marea fondamentalista sciita».
Dal Libano al fronte palestinese. C’è chi parla di un nuovo feeling tra Olmert e Abu Mazen.
«Non credo che sia scoppiato l’amore tra i due; penso invece che forse per una volta due debolezze possano fare una forza. Ciò che conta, per Israele, è riconoscere di avere finalmente un partner credibile con cui negoziare un accordo globale di pace. Abu Mazen lo è. E negoziare la pace, è questo che Olmert dovrebbe dire chiaro e forte in un discorso alla Nazione, non significa per noi israeliano cedere al nemico; negoziare non è una resa, non è una concessione, ma è l’unica via percorribile se si vuole davvero preservare i due pilastri su cui si fonda Israele: la sua democrazia e l’identità ebraica».
Negoziare la pace. Qual è la questione davvero cruciale tra le tante ?
«La definizione dei confini. Questo è il punto di svolta. Perché la mancanza di confini fra due nazioni è una delle cause principali del sangue versato in tutti questi anni. La divisione fisica, territoriale, è il mezzo per porre fine al disegno del Grande Israele e della Grande Palestina. Mi lasci aggiungere che la definizione dei confini non è solo un esercizio diplomatico ma è, per noi israeliani, anche qualcos’altro, di molto più profondo».
In cosa consiste questo «altro»?
«Definire i confini ci impone di ripensare noi stessi, rivisitare la storia di Israele e tornare agli ideali originari del sionismo, per i quali l’essenza dello Stato di Israele non si incentrava nelle sue dimensioni territoriali né in un afflato messianico, bensì nella capacità di fare d’Israele un Paese normale. Lei mi chiedeva cos’è per me la pace? La risposta è semplice e al tempo stesso terribilmente difficile da realizzare: la pace è la conquista della normalità. E quando ci sarà la pace e il quadro normale dello Stato d’Israele consentirà il riconoscimento definitivo del consesso dei popolo, e in particolare dei popoli dell’area in cui ci troviamo, ci renderemo conto che "normalità" non è una parola spregevole ma, al contrario, l’ingresso in una epoca nuova e ricca di possibilità, in cui il popolo ebraico potrà modellare il proprio destino, produrre una propria cultura completa. Si dimostrerà il modo migliore per essere altri e diversi, unici e particolari - come lo è ogni popolo - senza preoccuparci di perdere l’identità».
Normalità e Gerusalemme: è un binomio possibile?
«Sì, a patto, però, che ognuna delle parti si liberi di quella bramosia da possesso assoluto in nome della quale tanto sangue è stato fatto scorrere. Ciò riguarda soprattutto il controllo della Città vecchia. Bisogna che Israele rinunci alla sua sovranità nell’area e che i palestinesi facciano altrettanto. Si tratta invece di chiedere all’Europa cristiana, più ancora che all’America cristiana, agli israeliani e ai musulmani, non solo palestinesi, di gestire in comune la Città vecchia. Gerusalemme non può che essere condivisa, non solo dai due popoli ma dall’intero genere umano, perché Gerusalemme è un patrimonio dell’umanità».
La pace e i vicini arabi. È ancora convinto della possibilità, oltre che dell’opportunità, di aprire alla Siria?
«Non si tratta di firmare assegni in bianco a Bashar Assad ma di esplorare con maggiore attenzione l’opzione siriana, verificando tutti quei punti che sono sul tavolo da decenni: un Golan smilitarizzato e aperto alle due popolazioni potrebbe essere la soluzione che metterebbe fine al conflitto israelo-siriano. Di una cosa resto convinto: Israele non ha speranza a lungo termine se non trova un accordo con gli arabi

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