Il vice premier israeliano Haim Ramon: pronti al ritiro da gran parte della Cisgiordania
l'intervista di Umberto De Giovannangeli, che non rinuncia alla faziosità
Testata:
Data: 30/07/2007
Pagina: 12
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Lasciamo la Cisgiordania, Israele deve aiutare Abu Mazen
L'UNITA' del 30 luglio 2007 pubblica un'intervista ad Haim Ramon,   vice primo ministro d’Israele e responsabile delle politiche strategiche nei Territori.
Ramon elogia il governo italiano per la missione Unifil in Libano, e sostiene la necessità di un ritiro israeliano dalla Cisgiordania, in un quadro negoziale.

Umberto De Giovannangeli definisce più volte quest'ultima posizione "coraggiosa", perché opposta a quella delle destra.
Ma, qualunque opinione si abbia sul merito delle questione,  in una democrazia è normale che si confrontino posizioni politiche differenti. Ramon non è un dissidente in un regime totalitario.
Inoltre, almeno la destra del Likud si oppone al ritiro dalla Cisgiordania per motivi di sicurezza. Già Gaza si è trasformata in un avamposto terroristico, e il Likud indica la possibilità che si ripeta un fenomeno analogo. Umberto De Giovannangeli, però,  non chiarisce le ragioni per le quali la destra israeliana "osteggia" il ritiro dalla Cisgiordania. Sembra dal suo articolo che si tratti di un'intransigenza immotivata e dogmatica.
Ecco il testo:

È il numero due del governo israeliano. Il premier Ehud Olmert non nasconde di vedere in lui il suo successore alla guida del partito Kadima e, in caso di vittoria elettorale, dell’esecutivo. Haim Ramon, vice primo ministro d’Israele e responsabile delle politiche strategiche nei Territori, non ama girare attorno ai problemi. E lo dimostra anche in questa intervista a l’Unità. Le sue parole segnalano una doppia volontà da parte israeliana: accelerare i tempi del negoziato di pace e mettersi alle spalle quell’unilateralismo che pure in passato «aveva portato Israele a scelte coraggiose, come quella compiuta da Ariel Sharon con il ritiro (due estati fa, ndr.) da Gaza». Alla vigilia della nuova missione in Medio Oriente della segretaria di Stato Usa Condoleezza Rice, il vicepremier israeliano ribadisce la strategia del dialogo. Israele, dice Ramon, vuole rilanciare «urgentemente» i negoziati con l’Anp di Abu Mazen. Nel merito, Ramon afferma che è nell’interesse di Israele «lasciare la maggior parte della Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndr.), mantenendo soltanto gli insediamenti più grandi».
Cosa c’è alla base di questa dichiarata volontà di accelerare il negoziato con i palestinesi?
«Nell’ultimo periodo e in particolar modo da quando Hamas ha preso con la forza il controllo della Striscia di Gaza, ci sono due persone che si sono impegnate a fondo nel processo di pace e nella lotta al terrorismo: queste persone sono il presidente Abbas (Abu Mazen, ndr.) e il primo ministro Fayyad. Israele ha tutto l’interesse a sostenere i loro sforzi».
Ciò significa superare l’unilateralismo che ha caratterizzato fin qui l’azione di Israele?
«Tutta l’idea dell’unilateralismo era basata sul fatto che non avevamo un partner. Giusta o sbagliata che fosse, questa era la nostra convinzione. Ora questo partner esiste e abbiamo il dovere di condurre dei negoziati».
Lei insiste molto sul fattore tempo. Perché?
«Non solo Israele ma l’intera Comunità internazionale dovrebbe guardare con grande preoccupazione all’affermarsi in campo palestinese di un movimento estremista quale è Hamas, vera testa di ponte in Medio Oriente dell’Iran: stiamo parlando dell’alleanza militare, oltre che ideologica, di un movimento estremista e di uno Stato impegnato nel riarmo nucleare accomunati dalla dichiarata volontà di distruggere l’"entità sionista". Occorre agire, subito, su due piani: contrastare Hamas e rafforzare Abu Mazen. È ciò che intendiamo fare, come dimostrano le recenti decisioni assunte dal governo (la liberazione di centinaia di detenuti di Al Fatah, ndr.). Non possiamo sapere quanto a lungo ci sarà un partner, dunque dobbiamo procedere con urgenza».
Dal fattore-tempo ai contenuti di una pace possibile. Nei giorni scorsi, Lei ha sostenuto una posizione coraggiosa…
«Più che coraggiosa direi pragmatica. Lei si riferisce evidentemente alla questione del ritiro dalla Giudea e Samaria (Cisgiordania, ndr.). Ciò che penso è che nel momento in cui si avvierà la discussione per giungere ad un Accordo di principi, noi dovremmo porre sul tavolo negoziale la nostra volontà di ritirarci da gran parte della West Bank. In modo graduale, concordato, ma di ritiro dobbiamo parlare…».
Ritornando ai confini del 1967?
«No, questo è improponibile. E anche Abu Mazen ne è consapevole. Non si può chiudere gli occhi di fronte a una realtà che sul terreno è cambiata profondamente, e in modo irreversibile, in questi trent’anni. Ciò che dobbiamo stabilire è un principio…».
Quale?
«Quello della reciprocità. Nella definizione dei nuovi confini, i palestinesi dovranno tener conto delle esigenze, non solo di sicurezza, di Israele, e noi dobbiamo essere disponibili ad adeguate concessioni territoriali. Si tratta, in buona sostanza, di definire uno scambio di territori».
Un negoziato deve prevedere ed esplicitare uno sbocco. Qual è per Lei?
«È lo stesso indicato dalla Road Map (il tracciato di pace elaborato dal Quartetto Usa-Ue-Onu-Russia, ndr.) e ribadito recentemente dal presidente Bush quando ha lanciato la proposta, da noi pienamente condivisa, di una Conferenza di pace da tenersi in autunno: è il principio di due Stati, due popoli, due democrazie».
Lei parla di un possibile ritiro da gran parte della Cisgiordania. In una fase di transizione, chi potrebbe garantire la sicurezza nelle aree sgomberate da Israele?
«Siamo ancora in una fase preliminare. Questa è materia estremamente delicata, che andrà discussa nelle sedi opportune. Personalmente, penso che questo ruolo di garanti sul campo di una intesa raggiunta fra le parti, potrebbe essere svolto da forze Nato, ma le ripeto, questa è una ipotesi tutta da verificare».
Un ritiro da gran parte della Cisgiordania viene osteggiato dalla destra israeliana. Per portare avanti questa idea occorre grande coraggio politico…
«E onestà intellettuale. Ai miei occhi l’occupazione dei Territori minaccia la nostra stessa esistenza, la nostra legittimità e la nostra reputazione internazionale. Dobbiamo tenerlo bene a mente anche quando rivendichiamo il sacrosanto diritto di Israele a difendere la propria sicurezza. Quando parlo di onestà e di coraggio, ho in mente la lezione lasciataci da due grandi israeliani: Yitzhak Rabin e Ariel Sharon…».
Qual è questa lezione?
«Saper andare controcorrente, sfidando anche l’impopolarità quando si ritiene di essere nel giusto e di fare il bene del Paese, con la consapevolezza che la pace non può essere a costo zero…».
L’ultima domanda riguarda i rapporti con l’Italia. C’è chi parla di freddezza…
«Chi pensa e sostiene questo si sbaglia di grosso. Certo, possono manifestarsi delle divergenze di valutazione, ma l’Italia, il suo governo, il suo popolo sono da noi considerati amici di Israele. Vede, noi israeliani tendiamo a badare al sodo, ai fatti più che alle parole. Ed è un fatto, un fatto molto importante, che l’Italia è impegnata con i suoi soldati nel Sud Libano in una missione che intende anche garantire la sicurezza del Nord d’Israele. Di questo impegno vi siamo grati».

Per inviare una e-mail alla redazione dell'Unità cliccare sul link sottostante lettere@unita.it