Una falsa immagine di Guantanamo, dove non si tortura e non si offende l'islam, nell'articolo di Ariel Dorfman pubblicato dall'UNITA' il 27 luglio 2007:
Circa trenta anni fa quando vivevo in esilio e il mio Paese, il Cile, era devastato dalla dittatura, conobbi una donna che era stata arrestata dagli agenti della polizia segreta di Pinochet e poi barbaramente torturata in una cella di Santiago.
È stata la poesia, mi disse quel giorno a Parigi, che le aveva consentito di sopravvivere. Nelle impenetrabili tenebre della sua odissea ripeteva a se stessa i versi di qualche poeta morto, mi disse, per distinguersi dagli uomini che trattavano il suo corpo come un oggetto, come un pezzo di carne. Così aveva protetto la sua identità assediata, l’unica cosa che i suoi aguzzini non potevano toccare.
L’unica cosa che non potevano negarle, che non potevano cancellare: solo alcune parole, solo alcune parole precarie, quasi evanescenti, parole provenienti dal passato come difesa contro quella che appariva come una eternità di dolore e di umiliazione.
È una cosa vergognosa e non di meno anche meravigliosa che io abbia immediatamente pensato a quella donna quando ho cominciato a leggere le poesie dei prigionieri di Guantanamo.
Vergognosa perché sono gli Stati Uniti, presumibilmente una democrazia, a trattare i detenuti nello stesso modo brutale in cui il Cile dittatoriale e innumerevoli altri squallidi governi in ogni parte del mondo hanno trattato i loro prigionieri. Vergognoso perché sono gli Stati Uniti, presumibilmente faro della libertà, che hanno torturato questi «combattenti nemici» e hanno negato loro i fondamentali diritti umani di cui sono titolari tutti gli uomini e le donne della terra a prescindere dai reati che possono o meno aver commesso. Vergognoso perché sono gli Stati Uniti, presumibilmente modello di giustizia invidiato e copiato da tutti, che hanno incarcerato questi uomini a tempo indeterminato, che si sono rifiutati di incriminarli o processarli, che hanno impedito loro di comunicare con le famiglie e con il mondo, che hanno umiliato la loro dignità di persone e schernito la loro religione e le loro convinzioni per indurli a «confessare» i loro «legami con il terrorismo».
E sì anche meravigliosa. Il fatto che uomini tenuti nella più spaventosa e disperata delle condizioni ricorrano, come quella donna cilena, alla poesia quale risposta alla violenza di cui sono oggetto, non è forse una cosa che deve indurci ad una maggiore speranza per la nostra specie?
Questi prigionieri, non dimentichiamocelo, quando le loro menti cercavano le parole per cantare le loro tristi notti non potevano sapere che altri, tranne il loro Dio, avrebbero ascoltato la loro voce. Non hanno scritto queste poesie perché fossero pubblicate; infatti probabilmente non pensavano che i loro versi sarebbero giunti fino ai loro compagni di sventura, per non parlare del resto del mondo. Alcune delle parole delle poesie sono piene di bellezza. Altre sono meno raffinate. Alcuni prigionieri sono quasi fanaticamente militanti mentre altri si limitano a rimpiangere la serenità della casa, la lontananza della madre, del padre, del figlio. Pochissimi si consideravano poeti prima di essere catturati e la maggior parte sembrano aver scoperto il potere dei suoni e delle sillabe solo quando si sono trovati per la prima volta tagliati fuori dalla vita, dalla famiglia e dal paesaggio che avevano sempre conosciuto. Alcuni hanno fiducia in Dio e alcuni hanno fiducia nell’alba mentre altri non hanno più alcuna fiducia. Ma tutti sembrano aver capito che esprimere la loro angoscia per iscritto è una scommessa per reagire alla disperazione, un modo per affermare la loro insolente umanità.
Certamente sono stati incoraggiati dalla loro religione musulmana che crede nella sacralità della Parola Scritta e che crede che le curve e il fluire della grafia con cui sono stati trascritti i detti del Profeta sono specchi della divinità. E i detenuti di Guantanamo sono stati senz’altro aiutati anche dalla tradizione prevalente nell’ambiente culturale nel quale sono cresciuti, tradizione che venera i Poeti.
E non di meno sospetto che stia accadendo qualcosa di più, qualcosa che li collega a quella donna torturata in Cile e a così tante altre vittime in così tante crudeli prigioni in ogni parte del mondo che sin dai primordi della storia dell’uomo, per reagire al peggiore degli abbandoni, hanno usato la poesia per redimere la loro dignità ferita.
Ho la sensazione che in ultima analisi la fonte di queste poesie da Guantanamo sia la semplice, quasi primordiale aritmetica dell’inspirare e dell’espirare.
L’origine della vita e l’origine del linguaggio e l’origine della poesia vanno individuate tutte lì, in ciascun primo respiro, ciascun respiro come se fosse il primo, l’anima, lo spirito, ciò che inspiriamo, ciò che espiriamo, ciò che ci separa dall’estinzione, minuto dopo minuto, ciò che ci tiene in vita mentre inspiriamo ed espiriamo l’universo.
E la parola scritta altro non è che il tentativo di rendere quel respiro permanente e sicuro, di intagliarlo nella roccia o di suggellarlo sulla carta o di iscriverlo su uno schermo in modo che la sua cadenza vada al di là di noi, sopravviva al nostro respiro, spezzi le catene della solitudine, trascenda il nostro corpo caduco e tocchi qualcuno con le sue acque.
Inspirare ed espirare.
Ciò che questi prigionieri hanno condiviso con i loro carcerieri, ciò che hanno condiviso con gli uomini che li hanno incarcerati, che hanno avuto paura di loro e li hanno visti solo come il nemico.
La poesia come invito a quanti respirano la stessa aria a respirare anche gli stessi versi, a colmare il divario tra i corpi e tra le culture e tra le parti in guerra.
Ed è questo il più profondo e forse paradossale significato dell’apparizione di queste poesie negli Stati Uniti, recuperate da avvocati americani, stampate da una casa editrice americana, riviste e curate da occhi americani, pubblicate nel cuore, nel centro stesso della nazione che ha maltrattato brutalmente questi uomini.
Pensate a questi prigionieri che inspirano ed espirano queste parole, vicini ad un oceano che riescono a sentire, ma che non possono né vedere né toccare. Pensate a loro, rappresentati ora ai loro lontani nemici da parole di fuoco e di dolore, che ci chiedono di ascoltare, di riconoscere la fiamma sepolta della loro esistenza. Pensate che abbiamo l’occasione di aiutarli a completare il loro viaggio iniziato in una gabbia all’interno di un campo di concentramento semplicemente leggendo queste poesie. Pensate che forse un giorno, forse presto, se prenderemo la cosa abbastanza a cuore, se ce ne daremo abbastanza pena, non saranno solo questi versi ad essere liberi di girare per il mondo, ma le mani e le labbra e i polmoni che li hanno composti.
Fino a quel giorno la loro vera casa, non sarà il famigerato centro di detenzione di Guantanamo Bay, ma saranno le amare poesie che hanno scritto contro la solitudine e la morte.
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