Il contagio integralista scuote ormai tutta la regione araba.
Dall’Iraq alla Palestina, dall’Arabia saudita allo Yemen, dall’Algeria al Marocco, la ricetta “binladeniana” si espande a macchia d’olio. L’occupazione americana dell’Iraq attira plotoni di jihadisti che attraversano quasi indisturbati i confini del triangolo Siria-Iraq-Arabia Saudita.
Pochi giorni fa Ayman Zawahiri, numero due di al Qaeda, ha annunciato l’apertura di un «nuovo fronte» in Libano. Zawahiri ha «benedetto» l’attentato ai soldati spagnoli dell’Unifil (la forza di pace dell’Onu in Libano) del 24 giugno scorso come un atto coraggioso contro le «nuove crociate» nel sud del paese. Ieri, un altro attentato ha colpito i malesiani dell’Unifil, senza provocare vittime.
I paesi del Golfo e quelli del Maghreb “subiscono” questo fenomeno, alimentato perlopiù da gruppi locali. Da gruppi, cioè, che nascono e si sviluppano all’interno di paesi – Arabia Saudita, Yemen e Marocco, a maggioranza sunnita – che a livello politico e religioso rappresentano terreno fertile per il terrorismo.
Le dinamiche d’affiliazione sono due: o il gruppo sposa i princìpi del terrorismo islamico e si “ripara” successivamente sotto l’ombrello di al Qaeda, oppure i vertici dell’organizzazione, spesso per bocca di Zawahiri, riconoscono questo o quel nucleo come membro della centrale del terrore.
Così succede in Marocco, in Algeria e in parte in Iraq. In Arabia Saudita, invece, la minaccia terrorista viene da cellule addormentate, che si risvegliano periodicamente.
Nel Mashreq (le regioni arabe comprese tra Egitto, Arabia Saudita, Iran e Turchia), dove il tessuto etnico e socio-religioso ha caratteristiche meno monolitiche, il terrore non trova invece condizioni così favorevoli. Laddove convivono cristiani e sunniti, sciiti e alawiti, o anche drusi, il verbo fondamentalista – quello salafita in particolare – attecchisce difficilmente. A maggiore ragione se esiste anche un clima di pluralismo. È, questo, il caso del Libano, della Palestina, della Giordania e in parte dell’Iraq.
La Siria sta a cavallo tra queste realtà. Esistono, sì, più fedi e più etnie, ma c’è un regime autoritario che soffoca gli spazi di libertà. Ciò fa sì che sia lo stato a “dirigere” e indirizzare il terrorismo. In seguito all’occupazione americana dell’Iraq, nel marzo 2003, gli equilibri regionali sono cambiati: Damasco è finita nel mirino di George Bush.
Bashar non è più in grado di seguire la politica del padre (l’ex capo di stato Hafez al Assad), astuto e pragmatico, abile a contenere le pressioni americane e israeliane.
Lesto a schierarsi, per interesse, con gli Stati Uniti – dopo l’invasione del Kuwait nell’agosto del 1990 da parte di Saddam Hussein.
Oggi la Siria è però debole. Ad Assad junior è stato ultimato di blindare o comunque controllare i suoi confini con l’Iraq, per impedire l’afflusso dei “volontari” che si arruolano nell’esercito del terrore. Gli è stato anche intimato di ritirare le truppe siriane dal Libano, dopo circa 30 anni d’occupazione. Nonché di troncare i rapporti con gruppi estremisti quali Hamas e Hezbollah, e di collaborare con il tribunale internazionale incaricato di indagare sull’omicidio dell’ex primo ministro libanese Rafiq Hariri, ucciso a Beirut il 14 febbraio del 2006. Ma Bashar ha deciso di resistere. Come? Con la solita tattica: la guerra, subdola, contro americani e israeliani.
Con quali armi? Le migliaia di jihadisti pronti a uccidere e farsi uccidere. Manovalanza, esplosivi e soldi ci sono già. A lui, ad Assad, spetta solo gestirli.
Il flusso di kamikaze attraverso il confine con l’Iraq fa parte di questa strategia. Arrivano da tutte le parti, i “martiri”: siriani, sauditi, somali, yemeniti, afghani, i cosidetti “afghani arabi” e perfino alcuni cingalesi. Tutti in nome della jihad contro le «nuove crociate» dell’Occidente. In Palestina, poi, il compito è affidato direttamente a Hamas, che riflette la saldatura tra Damasco e Teheran, essendo il movimento radicale palestinese un gruppo con sede a Damasco e “cassaforte” a Teheran. Gli integralisti di Hamas hanno usato il consenso palestinese nelle urne per compiere un golpe contro l’Autorità palestinese, occupando la Strisica di Gaza e isolandola dal resto dei Territori. Anche qui in nome della jihad.
In Libano, la situazione è assai diversa e –soprattutto – molto più complessa. I libanesi hanno ottenuto una grande vittoria con la rivoluzione dei cedri, con i sunniti che hanno rappresentato l’avanguardia di questa “seconda indipendenza”.
Il leader Saad Hariri (figlio dell’ex primo ministro ucciso) ha abbandonato il vecchio credo arabista, lanciando lo slogan «prima il Libano». Con la conseguenza che la jihad, oggi, non trova più spazio all’interno della comunità sunnita.
Come, allora, tentare di ripristinarne l’ipoteca esterna sul paese? Semplice: Assad ha inviato i suoi volontari jihadisti verso il nord del paese dei cedri. Attraverso il confine siro-libanese sono giunti miliziani siriani, sauditi, iracheni, somali e asiatici (tra loro non c’era nessun libanese), con il loro carico di armi e munizioni.
I guerriglieri si sono uniti a Fateh-Islam, il gruppo radicale che recentemente ha dato filo da torcere all’esercito regolare libanese (la stessa Siria aveva contribuito a ricostituirlo) nella battaglia del campo profughi di Nahr al-Bared.
Ma non è solo il nord a ribollire.
Attentati si registrano in tutto il paese, allo scopo di allargare il conflitto, fin verso il meridione, dove sono dispiegati 13mila caschi blu dell’Onu, insieme a 15mila soldati libanesi. Il terreno era stato preparato un anno prima, quando lo stesso Bashar aveva preannunciato, a mo’ di allarme, che al Qaeda stava arrivando in Libano. Ora che la succursale del terrore in Libano c’è sbarcata davvero, Bashar condanna gli attentati e parla di «pericolo comune» per Beirut e Damasco. Ma lo fa solo per camuffare il suo ruolo di “regista”.
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