Shimon Peres presidente d'Israele: una svolta
l'opinione di Amos Luzzato
Testata:
Data: 17/07/2007
Pagina: 1
Autore: Amos Luzzato
Titolo: La variante di Peres
Da L'UNITA' del 17 luglio 2007, un articolo di Amos Luzzato:

Non credo sia esagerato affermare che l’elezione di Shimon Peres alla Presidenza dello Stato di Israele potrebbe rivelarsi l’evento più rilevante degli ultimi anni. Peres è probabilmente l’ultimo dei “padri fondatori” dello Stato e in quanto tale è certamente un testimone della volontà e delle aspirazioni della generazione del 1948, anche se questa testimonianza è passata al vaglio di numerose esperienze, anche contradditorie, nelle quali sono confluite speranze e illusioni, estreme tensioni e prime aperture nei confronti dei Paesi confinanti, decisioni coraggiose ed errori.
Peres è considerato un pacifista. Ma che cosa significa esattamente? Va subito detto, quando si impiegano questi termini, che va aggiunta la precisazione: la pace “fra chi e chi?”. E questo perché? Considerando che la guerra definita dagli israeliani “di indipendenza” era stata combattuta fra il neonato Stato e cinque Stati arabi, per lungo tempo parve a molti che la pace dovesse riguardare prima di tutto gli Stati che avevano firmato l’armistizio di Rodi.
Quegli Stati cioé che avevano almeno formalmente sospeso le ostilità, con l’aggiunta dell’Iraq che, per quanto mi risulta, a tutt’oggi quell’accordo non l’ha sottoscritto. Al contrario, è sempre più chiaro, soprattutto dopo i trattati di pace con l’Egitto e la Giordania che senza l’adesione dei palestinesi mancherebbe alla pace stessa un anello importantissimo.
Di proposito non ho detto “l’anello più importante”, perché a me pare che sarebbe bello che fosse così, ma sfortunatamente così non è. Questa pace è oggi ostacolata da tensioni che attraversano tutto il Medio Oriente e che non sono determinate dal contenzioso israelo-palestinese ma semmai vi si richiamano strumentalmente.
È significativo a questo proposito che già ai tempi di Oslo era stato Peres e non altri a scrivere un libro che ha meritato anche una edizione italiana dal titolo «Per un nuovo Medio Oriente»: egli inquadrava così, in una più ampia cornice regionale piuttosto che nel ristretto limite di una contesa localistica, lo stesso conflitto israelo-palesinese con indiscutibile lungimiranza politica.
La tesi di Peres pare uscire confermata dalle prime dichiarazioni riferite sulla stampa. La pace in questa tormentata zona è condizionata alla realizzazione di una robusta politica di sviluppo di tutta questa regione.
È questa una visione ampia, che investe i problemi urgenti, quei problemi che le potenze vincitrici del primo conflitto mondiale, alla faccia del regime dei “mandati” della Società delle Nazioni, non hanno mai saputo o voluto condurre, preferendo alla trasformazione sociale, economica e culturale della regione una politica che garantiva loro gli interessi metropolitani, come nell’oleodotto prontamente costruito che dall’irachena Mossul portava il petrolio a Tripoli di Siria (per la Francia) e a Haifa in Palestina (per l’Inghilterra). Senza alcun complotto del “Sionismo internazionale”.
Possiamo attenderci a giusta ragione che con l’arrivo di Peres alla guida dello Stato di Israele questa visione supernazionale, centrata sulla priorità del benessere per tutte le popolazioni della regione, comprese quelle israeliana e palestinese, possa diventare l’idea-guida di un nuovo periodo storico.
Questa concezione, ritengo, potrebbe essere necessaria per una pace duratura.
Necessaria, ma non sufficiente.
Vi è un secondo ostacolo da superare, che non c’era quando il Generale Allenby alla testa delle truppe britanniche giungeva a Gerusalemme nel corso della prima guerra mondiale e neppure nel 1947, quando l’Assemblea generale dell’Onu, votando la spartizione della Palestina, legittimava due Stati, uno arabo e uno ebraico, su quel territorio, legittimando l’uno attraverso la legittimazione dell’altro.
Dai tempi di quei fatti lontani, a fianco della conflittualità armata fatta di terrorismo e di ritorsioni è cresciuta una conflittualità più pericolosa e forse più difficile da affrontare: una conflittualità “ideale”. Pongo l’aggettivo fra virgolette per togliergli il connotato positivo che si associa abitualmente a questo termine. Il progressivo spostamento del baricentro della discussione dal campo politico a quello religioso ha significato l’esaltazione di tematiche dal valore assoluto e non negoziabili, per cui non basta che quelle del proprio campo siano le richieste giuste e quelle dell’avversario risultino sempre sbagliate - questo, in politica, succede abbastanza spesso. No, l’avversario è ora congenitamente malvagio e se ne cerca la conferma nei sacri testi per poterlo minacciare, discriminare e colpire ovunque.
Il pericolo che potrebbe ostacolare qualsiasi processo di pace è ora quello del fondamentalismo che sta crescendo attorno a noi. È quel fondamentalismo che si chiama da un lato recupero delle più viete argomentazioni antisemitiche dell’Occidente da parte di settori del mondo islamico, e che si chiama d’altra parte sollecitazione a uno scontro di civiltà, perché “Annibale è alle porte” e i barbari minaccerebbero “i nostri valori”.
Ben venga dunque un piano di sviluppo ispirato da Peres (meglio tardi che mai), ma esso dovrà essere accompagnato da un grande impegno culturale che coinvolga le due sponde del Mediterraneo, le Scuole, le Università, i mezzi di comunicazione.
Siamo ancora in tempo, ma anche l’attesa per una maturazione spontanea non potrà protrarsi all’infinito.

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