Ad Haifa non ci credono molto, ma tra Hezbollah e Israele la pace è praticamente cosa fatta, grazie alla missione Unifil.
Umberto De Giovannangeli, sull'UNITA' del 12 luglio, cerca di convincerci di questa tesi lontanissima da una realtà nella quale il gruppo terroristico si sta riarmando sotto gli occhi dell'Onu. Così come la Siria e l'Iran che lo sostengono.
Ecco il testo:SPERA NELLA PACE, ma si prepara ad una nuova guerra. Un Paese in trincea. È Israele, un anno dopo l’inizio della guerra in Libano. Lo spirito di una nazione è
racchiuso nelle considerazioni di Yona Yahav, sindaco di Haifa; sindaco della città per la quale la guerra dei 34 giorni ha significato 13 morti, 50 feriti, 7 case rase al suolo e altre 482 colpite. «Io continuo a non credere a questa pace mentre gli Hezbollah dall’altra parte del confine fanno esercitazioni militari», afferma deciso il sindaco. Yona Yahav non nasconde il suo pessimismo. Haifa ha cancellato le tracce della guerra di un anno fa, ma si sta già attrezzando per far fronte a un possibile nuovo conflitto. «Stiamo spendendo un sacco di soldi e un mucchio di energie per affrontare questa prospettiva», dice il sindaco. Ed elenca le cose fatte: innanzitutto una «war room» più moderna, cioè la stanza della guerra dalla quale le autorità seguono gli eventi. «Poi un ufficio-comando mobile - aggiunge - attrezzato dentro un furgone blindato dal quale sia possibile, da qualunque luogo, impartire le direttive». E ancora: 400 nuovi rifugi sotterranei per la popolazione, tre centri di assistenza per sostenere i civili scioccati e che altrimenti intaserebbero gli ospedali, bunker attrezzati per intrattenere i più piccoli e distrarli con giochi di gruppo. E poi le sirene d’allerta, nella guerra che verrà (se verrà) «dovranno essere molto più efficienti - promette il sindaco - così che tutti i cittadini, in qualunque angolo di Haifa, qualunque cosa stiano facendo, dovranno essere in grado di ascoltarle». Perché da quando suona la sirena hai 30 secondi per metterti al riparo, e la guerra dell’anno scorso ha dimostrato che le vittime civili furono mietute fra coloro che al trentesimo secondo erano ancora per strada.
Così è Haifa, così è Israele un anno dopo. La pace è un sogno, l’incubo, sempre più immanente, è il saldarsi del fronte sud - la Striscia di Gaza conquistata dalle milizie di Hamas - con il fronte nord, il Libano meridionale dove sempre più minacciosa è la presenza di cellule jihadiste legate alla nebulosa di Al Qaeda. Il presente è una tregua che in pochi credono anticipatrice di una pace vera, stabile. «Gli Hezbollah andavano disarmati, e fino a quando questo non sarà fatto, nessuno può credere davvero nella pace», taglia corto Yona Yahav, sindaco di Haifa, la città di Abraham Bet Yehoshua, la città del dialogo - mai venuto meno - fra la comunità ebraica e quella araba.
Attrezzarsi ad un nuovo confronto armato, che stavolta potrebbe investire anche la Siria, significa anche fare i conti con la conduzione fallimentare della guerra di una estate fa. Una guerra che ha fatto precipitare ai minimi storici il gradimento di un primo ministro (Ehud Olmert) e che è costata la prematura uscita di scena dell’ex ministro della Difesa ed ex leader laburista Amir Peretz. Errori e mancanze. Sono le accuse che la commissione d’inchiesta sulla guerra in Libano, presieduta dall’ex giudice Eliahu Winograd, ha mosso nei confronti di Olmert, Peretz e dell’ex capo di stato maggiore generale Dan Halutz. A scatenare la bufera politica è bastata la pubblicazione della prima parte del rapporto, che riguarda i primi cinque giorni della guerra.
Il resto, gli altri 29 giorni, sarà reso pubblico a settembre. E in molti in Israele sono pronti a scommettere che le conclusioni finali della commissione d’inchiesta segneranno anche la fine dell’attuale governo guidato da Ehud Olmert (che gli ultimi sondaggi danno al 9% di popolarità). A prendere il posto di «Amir il sindacalista», alla guida della Difesa e a capo del Labour, è l’ex premier Ehud Barak, il militare più decorato dello Stato ebraico: un segno dei tempi, il segno di un Paese che si sente accerchiato e si affida a personalità con un trascorso militare inappuntabile, o su politici che promettono il pugno di ferro, come il «redivivo», politicamente parlando, leader del Likud (destra) Benjamin Netanyahu.
Un anno dopo, Israele si interroga ancora sulla sorte di Eldad Regev e Udi Goldwasser, i due soldati rapiti il 12 luglio 2006 dai miliziani sciiti di Hezbollah: il loro sequestro scatenò la massiccia offensiva militare di Tzahal contro il Partito di Dio nel sud del Paese dei Cedri. Un anno dopo, Israele fa i conti con gli errori del passato ma al tempo stesso si riconosce, e trova conforto, nel bilancio della guerra (a un anno di distanza) tracciato da Thomas Friedman, il più autorevole analista Usa della realtà mediorientale. Scrive Friedman sul New York Times: «La guerra ha reso il Libano e Hezbollah più deboli». E la loro debolezza è la forza di Israele.
Un anno dopo, infine, Israele registra l’importanza della presenza stabilizzatrice nel Sud Libano dei caschi blu dell’Unifil. Una presenza dal fortissimo profilo europeo. Quei caschi blu, a guida italiana, hanno modificato profondamente la percezione dell’Europa nell’opinione pubblica israeliana, non più vissuta come entità ostile, pregiudizialmente filoaraba. «In questo anno di presenza sul campo in Libano - osserva in proposito Yehoshua - l’Europa ha dimostrato di essersi fatta carico con i fatti, rischiando in proprio, anche della sicurezza di Israele. Questa presenza - aggiunge lo scrittore - permette oggi all’Europa di giocare un ruolo di primo piano anche nel conflitto israelo-palestinese. E questo - conclude lo scrittore - è un dato di fatto incoraggiante. Uno squarcio di speranza in un plumbeo presente». (2-fine)
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