FAMIGLIA CRISTIANA pubblica domenica 1° luglio a pagina 26 un articolo di
Carlo Remeny intitolato “Il rischio della terza intifada”.
Se nelle scorse settimane il settimanale cattolico aveva rilevato le
“colpe” di Israele nell’attuale situazione di guerra creatasi sul fronte
palestinese, con questo articolo si ribadisce che la sorte dei palestinesi
“dipende” dall’atteggiamento che terrà Israele.
Quindi, da un lato lo Stato ebraico è responsabile di tutto quanto accade
a Gaza e in Cisgiordania, dall’altro, deresponsabilizzando i palestinesi, si
riversa sul governo israeliano la responsabilità di riportare alla
normalità una situazione di guerra civile determinatasi non per colpa di
Israele ma per la grave irresponsabilità dei governanti palestinesi.
Israele “deve essere generoso” con Abu Mazen e non “deve soffocare”
“l’Autorità a Gaza.” E chi sarebbe l’Autorità a Gaza?
Hamas: una formazione terroristica che predica la distruzione dello Stato
ebraico.
In sintesi, Israele deve essere disponibile con Abu Mazen, far finta che
Hamas non voglia distruggerlo, far scomparire i posti di blocco militari
nella Cisgiordania, “cessare i raid militari nelle città palestinesi”,
liberare i prigionieri palestinesi ecc. ecc.
Israele è un faro di democrazia, di tolleranza e di rispetto per i diritti
umani ma è arrivato il momento che il mondo occidentale imponga ad Hamas
di riconoscere lo Stato di Israele, ed ammetta senza falsi pregiudizi le
responsabilità oggettive dei palestinesi nell’attuale situazione politica
e sociale senza addossare colpe e responsabilità inesistenti a Israele!
Riportiamo integralmente l’articolo.
Mai come in questo momento la sorte dei palestinesi sembra essere nelle
mani di Israele. Ci sono due Governi palestinesi, uno nella Cisgiordania
occupata e l’altro a Gaza. Se Israele saprà essere generoso verso quello
in Cisgiordania, senza voler soffocare l’Autorità a Gaza, la frattura interna
potrebbe rimarginarsi sotto l’egida di Abu Mazen, altrimenti in pochi mesi
la resa dei conti in campo palestinese si trasferirà da Gaza a Ramallah,
Nablus, Hebron, Betlemme, con esiti incerti anche per lo Stato ebraico.
Che non sia più tempo di promesse e dichiarazioni di principio, ma di
gesti
concreti, lo ha capito primo fra tutti il presidente egiziano Hosni
Mubarak, e non è un caso. Gaza in mano a un movimento islamico influenza
l’Egitto per due motivi: a causa della vicinanza fisica tra i territori e
per la vicinanza ideale tra Hamas e i Fratelli Musulmani. Non è solo Abu
Mazen che deve far presto per evitare che il suo trono prenda fuoco, ma anche Mubarak, prima che un disastro umanitario nella striscia di Gaza
vada a provocare un’opinione pubblica egiziana che si sospetta molto più vicina
ai Fratelli Musulmani che non al regime dello stesso Mubarak.
Questo spiega come mai l’Egitto abbia preso le distanze da Hamas,
trasferendo la sua missione diplomatica presso l’Autorità nazionale da
Gaza a Ramallah, invitando Abu Mazen, Ehud Olmert e re Abdallah di Giordania a
un vertice a Sharm el Sheikh, che secondo il Cairo deve assolutamente
produrre risultati favorevoli ad Abu Mazen.
Il presidente palestinese ha bisogno di denaro per pagare gli stipendi dei
dipendenti dell’Amministrazione pubblica, per gli agenti dei suoi servizi
di sicurezza, per ristrutturare e rendere più efficienti gli stessi
servizi. Ha assoluto bisogno di dimostrare all’opinione pubblica che
grazie a lui la qualità della vita migliora: quindi i posti di blocco militari
israeliani nella Cisgiordania occupata devono scomparire, come i quasi
quotidiani raid militari delle forze ebraiche nelle città palestinesi
devono cessare. Abu Mazen deve provare di non essersi dimenticato dei
10.000 detenuti nelle carceri israeliane. Ha bisogno che Israele ne liberi
un numero consistente.
Tra questi potrebbe esserci quel Marwan Barghouti, condannato a cinque
ergastoli da Israele, che sembra essere l’unico dirigente di al-Fatah a
godere di vasto seguito popolare. Lo sanno bene anche gli israeliani, non
è un caso che per esempio un ministro come Gideon Ezra, un ex dei Servizi di
Sicurezza interna, ne suggerisca il rilascio da almeno due anni, e ora con
maggiore insistenza: per salvare Abu Mazen e al-Fatah, e garantire a
Israele un partner laico con cui poter trattare.
Il presidente dell’ANP ha bisogno, inoltre, che lo Stato ebraico lo
autorizzi a riarmare i propri servizi e acconsenta che quadri militari
palestinesi a lui fedeli, attualmente in Giordania, possano fare ingresso
in Cisgiordania. Inoltre, ha l’assoluta necessità che sul piano politico
venga avviato un processo che porti a una Conferenza internazionale per
affrontare la questione dello status finale dei Territori palestinesi: il
futuro di Gerusalemme Est, delle colonie ebraiche illegali in
Cisgiordania, il ritorno dei profughi palestinesi, i confini e l’autorità del futuro
Stato palestinese, e via discorrendo. Se tutto questo potesse davvero
essere messo in moto, sarebbe il momento per convocare elezioni politiche
e presidenziali anticipate. Ha chiesto che abbiano luogo il più rapidamente possibile anche il Consiglio centrale dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, il massimo organo palestinese che comprende pure i rappresentanti della diaspora, e appoggia incondizionatamente Abu Mazen, ma ha due gravi lacune: non è un organo democraticamente eletto come il Parlamento dell’Autorità
palestinese, dominato da Hamas, e Hamas e Jihad islamica non ne fanno
parte. Un sondaggio realizzato da un istituto indipendente palestinese in questi
giorni ha rivelato che il 75 per cento degli intervistati tra Gaza e la Cisgiordania vuole il voto anticipato e il 59 per cento attribuisce in egual misura ad al Fatah e a Hamas la responsabilità delle recenti violenze. Hanna Amireh, membro del Consiglio centrale e del Comitato esecutivo dell’Olp, ci dice che la separazione tra Gaza e la Cisgiordania è per “un lungo periodo”, e ammette l’esistenza del rischio che Hamas possa “esportare” la rabbia da Gaza verso la Cisgiordania: “E’ per questo che a Gaza non devono mai mancare cibo, elettricità, acqua (tutto passa via Israele) e la riunificazione deve avvenire con strumenti politici”. Più volte negli ultimi mesi il capo dell’Ufficio politico di Hamas Khaled Meshal ha ammonito: se Israele non negozierà con i palestinesi in tempi brevi, ci sarà una nuova sollevazione popolare. Ora, questa terza Intifada potrebbe essere anche una rivolta contro Abu Mazen in Cisgiordania, se Hamas non avesse altri strumenti per uscire
dall’isolamento. Il Governo di unità nazionale palestinese, archiviato con troppa
leggerezza, era pure un freno a ogni rivolta.
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