Furio Colombo vorrebbe che la sinistra difendesse Israele
ma se lo fa la destra per lui non va bene
Testata:
Data: 22/06/2007
Pagina: 1
Autore: Furio Colombo
Titolo: Le colpe della sinistra sulla «fine» di Israele
Furio Colombo, sull' UNITA'  del 22 giugno 2007 , difende Israele dai pregiudizi della sinistra.
Aggiungendo a questa attività meritoria la manifestazione di un atteggiamento davvero poco comprensibile. Per lui, sembra, il vero problema posto dalla lontananza della sinistra da Israele è... la vicinanza della destra.
Colombo vorrebbe una destra dominata dalle sue componenti antisioniste e antisemite (che pure esistono) ?
Vorrebbe che il passato fascista della Difesa della Razza non fosse mai stato rinnegato e superato ?
Vorrebbe che, non essendoci che pochissimi amici di sinistra di Israele, non ve ne fosse nessuno a destra ?
E pensa che in questo caso la situazione di Israele sarebbe migliore ?
E in base a quale ragionamento ?

A noi sembra che Furio Colombo dovrebbe limitarsi a criticare l'antisionismo e l'antisemitismo della sinistra a cui appartiene. Accogliendo l'evoluzione della destra come il fatto positivo che è. E magari indicandola come un modello per una sinistra che voglia lasciarsi alle spalle i suoi pregiudizi ideologici.

Ecco il testo dell'articolo: 


Ero a Pesaro, alla Festa Nazionale de l’Unità, il 16 settembre 2006, un giorno di tempesta ma anche di folla, la folla di quei militanti di sinistra, persone anziane e giovani, famiglie intere con i bambini, uomini e donne che ricordano ancora la Resistenza come un pezzo della loro vita, uomini e donne che non hanno mai veramente separato il loro impegno morale sui diritti umani da quello sindacale in difesa del lavoro, da quello politico in difesa della democrazia. Eccoli, sono in tanti nonostante la pioggia violenta. Occupano - seduti e in piedi - tutti gli spazi del tendone «La Libreria» dove, accanto ai tradizionali dibattiti politici che avvengono nel tendone più grande - quello da mille posti - si parla di libri.
Quando entro, completamente inzuppato di pioggia, l’applauso è grande, affettuoso, lungo, come accade a volte nelle feste dell’Unità, in cui molti vogliono ancora dire il loro grazie e il loro sostegno al giornale ritrovato.
Quando, due ore dopo, il dibattito è finito, gli applausi sono gentili e brevi, ma anche un po’ imbarazzati. Un uomo della mia età mi abbraccia e dice: «Ti voglio bene per quello che hai fatto a l’Unità. Ma non sono d’accordo neanche con una parola di quello che hai detto». Le dediche e le firme richieste sono poche, nessuna sul libro che ho presentato. Spesso mi chiedono, per affetto, di firmare libri non miei (come quelli di Tiziano Terzani) alla fine delle presentazioni. Non questa volta. Questa volta il libro era La sinistra e Israele, atti di un seminario a sostegno di Israele che ha avuto luogo un anno fa. Qualcuno fra il pubblico ha notato un fatto curioso, e me lo sussurra nel breve «dopo dibattito», mentre il temporale, fuori, continua furioso. Guardando i nomi nella copertina del libro, nota che «per trovare quelli che sostengono Israele a sinistra, bisogna andare molto a destra della sinistra. Tu li disorienti perché arrivi così a sinistra nella tua intransigenza contro Berlusconi, contro la destra postfascista, la Lega e il “regime”. E poi sei il più accalorato a sostenere Israele. Come si spiega?».
Si spiega con il proposito di quell’intervento a Pesaro e di queste pagine. Israele appartiene al mondo e ai valori della sinistra. Senza il sostegno della sinistra del mondo Israele muore. Questa frase non piace e sarebbe accolta con sprezzo dalla destra israeliana. Ma anche in Italia, anche a Roma, ricordo una sera d’estate - il 17 luglio di quello stesso anno - in cui in tanti, ebrei e non ebrei, ci siamo raccolti davanti alla sinagoga di Roma, ci siamo arrampicati su una pedana e abbiamo espresso sdegno e tormento per le parole di Ahmadinejad, presidente dell’Iran, che aveva lanciato la parola d’ordine «cancellare Israele». Abbiamo detto sostegno a Israele attaccata dal Libano. Abbiamo detto solidarietà a Israele che - circondato da nord e da sud - aveva cominciato a respingere gli Hezbollah in Libano (dopo il rapimento di tre soldati).
Di quella notte mi sono rimaste impresse tre cose. Alcuni di coloro che hanno parlato erano di sinistra. Nessuno, tra la folla di via Portico d’Ottavia, che pure è la stessa strada, lo stesso luogo, del rastrellamento della notte del 16 ottobre 1943 (mille uomini, donne, bambini, neonati e ammalati, che non sono mai più ritornati, benché di qui si veda - appena al di là dal Tevere - la cupola di San Pietro). L’applauso più grande, più lungo ha salutato Gianfranco Fini. Fini ha fatto molte cose per meritare quell’applauso nella sua vita politica. Ma la sua vita politica è stata iniziata da Giorgio Almirante, segretario di redazione della rivista La difesa della razza, appena una generazione fa. Dalla folla alcuni giovani hanno gridato in coro - benché brevemente - «vinceremo». È stato come un capogiro, una vibrazione triste che per un istante è sembrata salire da quella folla. C’era come un cortocircuito nel tempo e nello spazio. L’abbandono della sinistra stava provocando una caparbia rivalsa. Si manifesta quando gli ebrei di Roma si stringono intorno a Fini. Si manifesta quando - a uno a uno - rappresentanti e notabili dello schieramento di Berlusconi si susseguono passandosi il microfono per dire che c’è un legame tra Prodi e gli estremisti islamici. E tutto porta ovazioni, come se si stesse discutendo davvero della vita di Israele.
Il dirottamento funziona e la gente sembra felice di battere le mani a Schifani e a Cicchitto, come a simboli dell’identità e del senso storico di Israele. Come un treno sullo scambio sbagliato, il convoglio di quella notte, che avrebbe potuto chiamarsi «con la destra per Israele», correva con qualcuno di noi aggrappato fuori. Ma la sinistra era altrove, a denunciare Israele e la sua guerra, immaginata come una decisione inutile e crudele.
***
Ho posto al pubblico dell’incontro di Pesaro che sto raccontando, tre domande: doveva proprio esserci uno stato di Israele? Doveva proprio essere lì? È stato il solo nuovo paese nato in terra d’altri?
Ho iniziato a raccontare il rastrellamento e la deportazione degli ebrei nella notte del 16 ottobre 1943. Ho ricordato l’evento della principessa romana che - avvertita di quanto stava accadendo - ha avvertito a sua volta la Santa Sede. Avendo accesso in Vaticano, la principessa ha chiesto di informare al più presto il Papa. Il cardinale Maglione si è limitato a convocare per un colloquio l’ambasciatore tedesco a Roma, Rahn. Alla principessa ha detto: «Non possiamo convocare nessun altro. Non c’è un consolato degli ebrei a Roma».
Ho ricordato un documentario che mi hanno fatto vedere nella sinagoga di Cracovia, materiale girato dai militari tedeschi: si vede un gruppo di bambini che viene fatto sloggiare da una scuola, ciascuno con la sua seggiolina. Camminano su un viale affollato di passanti. Tutti i bambini hanno la stella gialla. Vengono spinti in un vicolo e - mentre si voltano e guardano insieme a molti che erano già nel vicolo - alcuni muratori costruiscono subito un muro, una fila di mattoni sopra l’altra, finché i bambini non si vedono più. È il muro del ghetto di Varsavia. Neanche a Varsavia c’era un consolato degli ebrei. Ma più avanti, in un’altra scena dello stesso documentario, c’è l’assedio al ghetto. Nelle strade circostanti la gente continua a passare come in giornate normali. Dal marciapiede i soldati tedeschi sparano a chi si affaccia dalle case al di là del muro. Un passante avverte un soldato sbadato, gli indica un volto alla finestra. Il soldato spara subito.
Ma lo stato di Israele è in Medio Oriente per una scelta arbitraria? Gli israeliani hanno cominciato ad abitare un piccolo pezzo di Palestina, quando era territorio dell’ex Impero ottomano reclamato come proprio dalla Giordania, e occupato dalle truppe e dalla amministrazione dell’Impero britannico. Lo hanno fatto su mandato delle Nazioni Unite (1948). Nello stesso giorno è stato istituito un piccolo stato palestinese - altrettanto nuovo e mai esistito prima - che però tutti gli arabi (non i palestinesi, ma il potere dei grandi paesi arabi dell’area) hanno rifiutato, iniziando subito una catena di guerre. Dopo una di quelle guerre per stroncare subito l’invasione egiziana, giordana, siriana e libanese, gli israeliani hanno conquistato e dichiarato israeliana Gerusalemme (1967).
Che cosa c’è di diverso dalle guerre del Risorgimento italiano che - una dopo l’altra - hanno aggregato pezzi di territorio che non erano mai stati «italiani», se non nel sogno di Petrarca e Leopardi (un sogno sionista?), strappandoli con sangue, violenza, odio, a vicini europei (con cui oggi l’Italia forma l’Unione Europea)? Che cosa c’è di diverso rispetto alla conquista di Roma - la nostra celebrata «breccia di Porta Pia» - che per duemila anni, proprio come Gerusalemme, era stata capitale religiosa e sede di un altro stato e di un altro governo che ha dovuto cedere alla forza e si è barricato nell’isolamento, nel non riconoscimento del governo italiano, nella scomunica per cinquant’anni, prima di ricominciare a vivere accanto e insieme, in un incrocio di diritti reciproci con lo stato italiano?
Se una diversità c’è, è che il Risorgimento italiano ha conquistato e dichiarato italiani pezzi di territorio austriaci e balcanici (in una Europa in cui tutti i confini erano stati stabiliti arbitrariamente dal susseguirsi di diversi poteri). Israele ha bensì realizzato un proprio autonomo sogno risorgimentale (detto «sionismo» o ritorno alla terra degli ebrei), ma ha occupato e preso possesso di una piccola parte di quella terra solo dopo un voto e una autorizzazione - bilanciata da autorizzazione equivalente stabilita per gli abitanti della Palestina - delle Nazioni Unite. E non ha tolto terra a un altro stato più di quanto l’India o il Pakistan lo abbiano tolto all’Impero britannico. I risorgimenti, il sionismo, i grandi movimenti di liberazione dal colonialismo e dalle persecuzioni sono sempre fondati sul reclamo di un territorio, sulla presa di possesso fisica di quel territorio, sulla ricerca di riconoscimento internazionale per quell’evento. E - fatalmente - su molto sangue e continui spossessamenti. Come l’India e il Pakistan, Israele ha ottenuto il riconoscimento internazionale (con l’eccezione - durata decenni - del Vaticano). A differenza dell’India e del Pakistan, uno dei due stati non ha mai accettato di esistere. O non gli è stato permesso dalle potenze arabe dell’area. Ed è cominciata la guerra infinita.

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