Facciamo finta di credere ad Abu Mazen
analisi del conflitto interpalestinese di Pezzana, Israel e Oren
Testata:
Data: 21/06/2007
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Autore: Angelo Pezzana - Simona Verrazzo - al.pat
Titolo: Facciamo finta di credere ad Abu Mazen - Pregiudizi mediatici - “La risposta alla crisi dell’Anp non è Fatah. E’ Israele”, spiega Oren
Da pagina 20 di LIBERO del 21 giugno 2007, un articolo di Angelo Pezzana:

Dopo la carneficina di Gaza, che ha visto Hamas eliminare anche fisicamente il potere di Fatah, facciamo pure finta di credere ad Abu Mazen quando da Ramallah fa la voce dura contro gli estremisti, decidendo di rompere ogni rapporto con chi gli ha fatto fuori, o costretto alla fuga, tutta la dirigenza che aveva nella Stricia. Facciamo finta di credergli, quando usa parole “ inequivocabilmente dure” per respingere al mittente improvvise quanto equivoche profferte di “ dialogo sereno e fraterno”, giuntegli da un Hamas sempre più isolato. Facciamo finta di credergli, anche se non possiamo fare a meno di chiederci come abbia potuto aspettare tanto, condannando a morte certa centinaia di suoi uomini, per mandare a quel paese Hamas e indire nuove elezioni. Ne aveva il potere ma non il coraggio. Facciamo allora finta di credere che gli sia venuto, che adopererà le centinaia di milioni di dollari che gli entreranno in cassa, che in parte riscuoterà da Israele sotto forma di rimesse delle tasse dovute, non consegnate prima nella certezza che sarebbero finite ad Hamas, e che adesso Israele verserà esigendo certezza sulla loro destinazione, e anche su questa debole speranza facciamo finta di crederci. Ci sono poi Usa ed Europa, pronte come non mai a sostenere, anche economicamente, quella parte della società palestinese che continuiamo a classificare “ moderata”. Fingiamo pure di crederci, anche se non possiamo dimentirare che i voti con i quali Hamas è andata al potere sono arrivati da Gaza e Cisgiordania, mica dalla luna. Fingiamo anche di dimenticare che di fronte alla guerra civile inter-palestinese gli Stati europei hanno sentito esclusivamente il bisogno di chiedere a Israele di collaborare al nuovo governo dell’Anp presieduto da Salam Fayyad, invece di chiedersi, anche,in che misura era possibile aiutare lo Stato ebraico a prevenire gli attacchi missilistici dalla striscia di Gaza e dal sud del Libano Da questo orecchio, da sempre, la sordità è assoluta. Israele ha dei doveri, di diritti manco l’ombra. Fingiamo anche di credere a quegli inviati che ci ricordano ogni piè sospinto che “ a Gaza, su una superficie di 360 Km quadrati, ci sono un milione e mezzo di palestinesi, quindi il pezzo di terra più affollato del mondo”, quando la densità di abitanti di Parigi è otto volte superiore. Ma citare quei dati, anche se fasulli, commuove l’opinione pubblica occidentale. Che poi Gaza sia per certi versi paragonabile a una “pattumiera a cielo aperto”, non è materia che riguarda Israele, anche se viene sempre citata come se lo fosse. Le serre, ad esempio, lasciate ai palestinesi nell’estate 2005 con l’uscita dei coloni, invece di essere usate dai nuovi padroni che le avevano ereditate gratis, furono distrutte, con un gesto di pesante masochismo economico. Fingiamo anche di non indignarci sul fatto che ben pochi organi di stampa hanno evidenziato che Israele, pur essendo a rischio attentati il traffico da e verso Gaza, ha aperto i passaggi per consentire l’ingresso degli aiuti umanitari, cibo e medicine, programmati dalle Nazioni Unite. Fingiamo anche di credere che con la Siria non ci siano state quelle tresche denunciate persino dal governo libanese in cambio della sicurezza del nostro contingente Unifil. Fingiamo di crederci, non perchè lo abbia dichiarato il ministro degli esteri, ma perchè se non ci fosse qualcosa di losco e nascosto nei nostri rapporti col mondo arabo, questa sì sarebbe una novità assoluta, dopo la tradizione Andreotti-Craxi ribadita dall’attuale tandem Prodi_D’Alema. Ma in questo caso, per crederci, esigiamo le prove.

Dal FOGLIO, l'opinione di Giorgio Israel ( a pagina 3 dell'inserto):

Roma. Tutti i problemi dei palestinesi sono causati da Israele. Tutti i problemi dei palestinesi dovrebbero essere risolti da Israele. E’ questo il messaggio, non tanto subliminale, che arriva dagli articoli, reportage, servizi, interviste pubblicati in questi giorni. Una campagna mediatica che si autoalimenta con le immagini degli sfollati in fuga dalla Striscia di Gaza verso la Cisgiordania, da quando Hamas ha preso il controllo del territorio e imposto la sua legge. Alla base di questa posizione c’è un pregiudizio che va avanti da sempre, spiega Giorgio Israel al Foglio. Un “pregiudizio terzomondista e alla fine antioccidentale” che fa apparire l’Autorità palestinese come la vittima e Israele il carnefice. Ma una lettura più approfondita di questa prospettiva, che sembra sfuggire a tv e carta stampata, rivela l’altra faccia della medaglia che considera i palestinesi come un popolo inferiore. La mossa del vittimismo non soltanto risulta essere infondata – ieri nuovi razzi Qassam sono stati lanciati proprio dalla Striscia di Gaza contro il Negev – ma nasconde la bassa opinione che la Comunità internazionale ha del popolo palestinese. La metafora è semplice ma rende bene l’idea. Israele è l’attore politico maturo, il “padrone”. L’Anp è una forza non ancora in grado di autogestirsi, è un animale domestico che non è capace di accudirsi da solo, al quale procurare il cibo. Detto questo, lo stato ebraico deve prendersi cura e gestire un territorio che non è il suo e che non ha intenzione di mantenere. Quello che è successo nella Striscia di Gaza, la presa da parte di Hamas, sarebbe colpa di Israele “che prima l’ha occupata e poi si è ritirato”. E’ proprio questo l’errore, continua Israel. I palestinesi devono essere considerati come un pari interlocutore “capace di prendersi le proprie responsabilità”. Non è più possibile, quando le cose si mettono male, considerare uno l’adulto e l’altro il bambino, il primo che sgrida ma poi viene in aiuto, il secondo che vuole fare da solo ma poi piange se non ci riesce. In questa surreale situazione – dove Israele entra nella Striscia di Gaza per portare soccorso medico ai palestinesi e trae in salvo i civili stranieri, ieri è toccato a 140 cittadini russi – si legge una presa di posizione contro Israele che altro non è che semplice accanimento, ma che in alcuni casi cade in un giudizio palesemente anti israeliano. Perché si scrive e si parla della “tragedia della Palestina dove la pace è impossibile” (come fa Sandro Viola nel Diario di Repubblica del 19 giugno), perché si ricostruisce la storia di una “terra di grandi tradizioni”, ma non si fa la domanda più politicamente scorretta ma giusta: di chi è la colpa se i palestinesi di Hamas hanno letteralmente cacciato dalla Striscia di Gaza i palestinesi di Fatah? Se si parla di guerra civile, cosa c’entra un altro stato? “Purtroppo – continua Israel – far cambiare questa presa di posizione è una partita persa in partenza perché non succederà mai”. Che l’esercito israeliano occupi o si ritiri, attacchi le postazioni da cui partono i Qassam o porti soccorso, la realtà sarà sempre che c’è un popolo oppresso e uno oppressore. “Si tratta di prese di posizione che durano da trent’anni in cui non si fa altro che ripetere lo stesso atteggiamento anche di fronte a fatti che negano l’evidenza”. Una controinformazione esiste, seppure in forma minore. Soprattutto negli Stati Uniti; in Italia, secondo Israel un’informazione corretta arriva dal corrispondente della Rai da Gerusalemme, Claudio Pagliara. I problemi più seri arrivano adesso, sia per il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, sia per il premier israeliano, Ehud Olmert. Il problema immediato è quello di rifornire di beni di prima necessità la popolazione civile della Striscia di Gaza. Chi può tenta la fuga in Cisgiordania. L’Egitto ha annunciato il trasferimento della propria rappresentanza diplomatica da Gaza city a Ramallah. Ma chi non ha i mezzi per lasciare la sua casa attende aiuti, soprattutto medici, ma tra una settimana si prevede anche alimentari. E pure in questo caso ci si aspetta, e già sta accadendo, che la mano arrivi da Israele. Ma il problema, quello grosso, arriverà quando bisognerà cacciare Hamas dalla Striscia di Gaza, riaffidandola ad Abu Mazen. Fatah non ha i mezzi militari all’altezza del compito, e il presidente dell’Anp certamente si aspetta che venga svolto dall’esercito israeliano. Il neo ministro della Giustizia israeliano, Ehud Barak, a neanche una settimana dalla sua nomina, si ritrova a dover pensare di preparare un’operazione contro Hamas nella Striscia di Gaza. “E’ un errore – dice Israel – perché così facendo l’Anp non si responsabilizzerà mai. Olmert dovrebbe comportarsi meno da soccorritore e utilizzare il pugno duro, altrimenti si troverà a dover gestire un territorio che non è il suo”. E, fatto ancora più surreale, gli stessi paesi arabi si aspettano e confidano nell’aiuto di Gerusalemme. Su tutti l’Arabia Saudita, che tanto aveva investito nel governo di unità nazionale palestinese al summit della Mecca, seguita dalla Lega araba, che si trova di fronte all’ennesimo fallimento diplomatico. Il vero problema, per Israel, è l’Iran, che è stato capace di organizzare la presa della Striscia di Gaza e imporre uno stato islamico alle porte di Israele e del Mediterraneo.

Sempre da pagina tre dell'inserto del FOGLIO, l'opinione dello storico Michael Oren:

Al Fatah non è la risposta” alla crisi dell’Autorità nazionale palestinese, e anzi andrebbe disarmata come Hamas. A sostenerlo è lo storico israeliano Michael Oren, che in un lungo editoriale pubblicato ieri dal Wall Street Journal critica la scelta di Stati Uniti, Israele e Unione europea di puntare – ancora una volta – sulla leadership del presidente Abu Mazen e sul ruolo politico e militare del suo movimento. “L’America e i suoi alleati in medio oriente hanno tutti i motivi per essere nel panico – scrive lo storico, ricercatore allo Shalem Center di Gerusalemme – Le bandiere verdi di Hamas sventolano su Gaza e le milizie di al Fatah addestrate dagli Stati Uniti si sono date a una fuga ignominiosa. Il timore è che il terrorismo sostenuto dagli iraniani e ospitato dai siriani arrivi in breve tempo a controllare la Cisgiordania e mini la stabilità dei governi filo occidentali di Libano, Giordania, Egitto e Golfo Persico”. I timori, dice Oren, sono fondati, ma il rimedio scelto per scongiurare l’avverarsi di questo scenario è profondamente sbagliato. Washington, Gerusalemme e Bruxelles, in mancanza d’altro, hanno infatti optato per il riconoscimento politico e il finanziamento del governo nominato da Abu Mazen. “L’obiettivo – spiega Oren – sarebbe quello di dare ai palestinesi un’alternativa laica e pacifica ad Hamas e di persuadere chi sta a Gaza di tornare all’ovile di Fatah. Ma una politica del genere ignora tutte le lezioni arrivate dal più volte abortito processo di pace e dalla monumentale corruzione e dalla tendenza al jihadismo di al Fatah. In realtà, qualunque edificio istituzionale si tenterà di costruire sulle fondamenta marce dell’Autorità palestinese è destinato a implodere, producendo un solo effetto: aumentare, anziché ridurre, l’influenza di Hamas”. Per Oren nemmeno gli aiuti ai palestinesi sono una risposta efficace per uscire dalla crisi. “Dalla sua creazione con i cosiddetti accordi di Oslo nel 1993 – scrive lo storico sul Wsj – l’Autorità palestinese ha ricevuto più aiuti dall’estero di qualunque altra entità nella storia moderna. Più ancora, pro capite, di quelli che percepirono i paesi europei con il Piano Marshall”. Ma questi aiuti, sottolinea lo storico, sono andati per lo più a foraggiare i conti in banca dei leader di al Fatah e in larga parte sono stati da essi utilizzati per stipendiare milizie di vario tipo, fino a fare della Cisgiordania l’area “a più alto rapporto polizia-abitanti del mondo”. Il problema della corruzione, che per Oren è stato alla base del successo elettorale di Hamas nel 2006, non sarebbe però che un aspetto secondario dell’inaffidabilità di Fatah. Perché se il movimento che fu di Yasser Arafat “si riprometteva, in origine, di sostituirsi a Israele dando vita a uno stato laico e democratico in Palestina, dagli anni Novanta l’organizzazione ha deciso di cambiare fisionomia, facendo di sé un movimento islamico e abbracciando il lessico del jihad. Centinaia di moschee furono costruite con fondi pubblici e gli imam vennero assunti per diffondere il messaggio del martirio e dell’odio contro cristiani ed ebrei”. I risultati arrivarono nel giro di pochi anni, ricorda lo storico, con “gli incitamenti agli attentatori suicidi [...] che hanno avvelenato un’intera generazione di giovani palestinesi”. Facile capire, sottolinea Oren, come il passo successivo fosse lo sdoganamento di Hamas. Anche il presunto ruolo di al Fatah nella lotta al terrorismo è, per Oren, un mito da sfatare: “Sebbene Abu Mazen abbia solitamente criticato gli attacchi terroristici come ‘contrari all’interesse nazionale palestinese’, ma non come un affronto alla morale e al diritto internazionale, egli non ha mai sconfessato le Brigate al Aqsa, una costola di Fatah responsabile di alcuni tra i più sanguinosi attacchi contro civili israeliani. Attacchi che servivano in realtà a Fatah per accreditarsi ancora come movimento di resistenza e ad allontanare le accuse di essersi venduto all’America e a Israele. Paradossalmente, c’è un rapporto diretto tra il sostegno che Fatah riceve dall’occidente e il livello di violenza che deve esprimere per provare la propria ‘palestinesità’”. Se non è possibile fidarsi di al Fatah, per Oren gli Stati Uniti e i partner del Quartetto non possono far altro che “lavorare alla creazione di un’autorità autonoma palestinese nel West Bank i cui leader possano avere piena libertà nell’amministrazione delle risorse pubbliche così come della sanità e dell’istruzione. [...] La sicurezza, però, dovrebbe essere amministrata congiuntamente da Israele e Giordania [...] con la presenza di quest’ultima a garantire che non si tratterebbe di un ritorno all’occupazione”.

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