"Contiamo su Prodi e D'Alema" dice Saeb Erekat
ma anche la propaganda di Umberto De Giovannangeli può aiutare
Testata:
Data: 04/06/2007
Pagina: 9
Autore: Umberto De Giovannangeli - la redazione
Titolo: «All’Italia e ai Grandi dico: decidete sui caschi blu a Gaza» - «Via al conto alla rovescia per la fine di Israele»

Fine del "boicottaggio" contro l'autorità palestinese, forza di interposizione a Gaza. Per ottenere questo Saeb Erekat, consigliere del presidente palestinese Abu Mazen, conta molto sul governo italiano,  su Romano Prodi  Massimo D'Alema.
E sulle campagne di stampa del quotidiano dei DS.
Non a caso l'intervista che Erekat ha rilasciato a Umberto De Giovannangeli per L'UNITA' del 4 giugno 2007si apre con un elogio dei reportage propagandistici del giornalista da Cisgiordania e Gaza.

Ovviamente, nell'intervista non ci sono domande sul fatto che in realtà i finanziamenti all'Autorità palestinese sono addirittura aumentati dopo la vittoria elettorale di Hamas e l'entrata in vigore del cosiddetto "embargo" o "boicottaggio" (in realtà, un blocco dei finanziamenti diretti al governo terrorista di Hamas).
Né sulla minaccia alla sicurezza di Israele rappresentata dal continuo lancio di razzi kassam contro Sderot (citati, ma solo come causa dei bombradamenti israeliani su Gaza) o sul fallimento dell'Unifil (modello dell'eventuale forza di interposizione a Gaza) nell'impedire il riarmo di Hezbollah.
La propaganda ha le sue regole.

Ecco il testo:


«Ho letto i suoi reportage da Gaza e dalla West Bank. Raccontano fedelmente la realtà drammatica in cui è costretta a vivere una popolazione sotto assedio e, penso a Gaza, anche in balia di bande armate che non rispettano la legge. Non voglio sfuggire alle nostre responsabilità, ma sfido chiunque a far valere le ragioni del diritto e il rispetto della legge sotto occupazione e con il boicottaggio internazionale». Siamo a Gerico, nell’ufficio di Saeb Erekat, primo consigliere politico del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen). Mi accompagna Osama Hamdan, che aveva tradotto per Erekat i reportage dai Territori pubblicati nei giorni scorsi dall’Unità. Il nostro colloquio è interrotto più volte da lunghe telefonate con la Muqata, il quartier generale del presidente dell’Anp a Ramallah, e con l’ufficio del primo ministro israeliano Ehud Olmert a Gerusalemme. Erekat sta preparando il faccia a faccia tra Abu Mazen e Olmert in programma per il prossimo 7 giugno; il vertice, anticipa Erekat a l’Unità, «dovrebbe svolgersi proprio qui a Gerico. Ma ciò che più conta - aggiunge il capo negoziatore dell’Anp - è che da questo incontro se ne esca con decisioni concrete che ridiano un senso al dialogo».
Sul caos armato a Gaza, Erekat non nasconde le sue preoccupazioni: «La situazione - dice - rischia di sfuggire completamente di mano a tutti. Resto convinto che per fermare la violenza occorre rispettare il principio che deve esserci una sola autorità e una sola forza armata». La dirigenza palestinese conta molto sull’iniziativa diplomatica italiana. E dalle colonne dell’Unità, Erekat lancia un appello al premier Romano Prodi e al ministro degli Esteri Massimo D’Alema: «Il vertice del G8 (dal 6 all’8 giugno in Germania, ndr.) sarà anche occasione per una riunione del Quartetto (Usa, Onu, Ue, Russia, ndr.). All’Italia chiedo di riproporre in questa sede la necessità di ripensare i rapporti con il governo di unità nazionale palestinese, ponendo fine al boicottaggio, e di prendere in seria considerazione l’ipotesi di dislocare in tempi rapidi una forza di osservatori internazionali sotto egida Onu nella Striscia di Gaza. Una forza che contribuisca innanzi tutto a scongiurare un disastro umanitario».
I «murati» della Cisgiordania. I «prigionieri di Gaza». È corretto, sintetizzare così la situazione nei Territori?
«Sono definizioni drammatiche che rispondono alla realtà. Quella vissuta dalla popolazione palestinese è una condizione di sofferenza indicibile. Questo vale soprattutto per la Striscia di Gaza, ridotta ad una prigione a cielo aperto».
Una prigione dove regna il caos armato e dove l’unica legge che sembra contare è quella dei kalashnikov. Raccontando ciò che ho visto a Gaza, ho parlato del «suicidio» di una nazione. Concorda con questa definizione?
«Condivido la sottolineatura della drammaticità della situazione, ma più che di suicidio parlerei di un tentativo in atto di liquidare la causa palestinese. Definizione per definizione, parlerei di un omicidio della causa palestinese. Voglio essere ancora più chiaro: gli scontri armati interpalestinesi mettono in pericolo non solo il governo di unità, ma lo stesso tessuto sociale palestinese, la causa palestinese e la strategia palestinese nel loro insieme. E c’è chi dall’esterno punta allo sfascio».
Lei batte molto sul tasto della necessità di far valere il principio di un’unica autorità e di un’unica forza armata. Parla di diritto, di rispetto della legge, ma a Gaza la realtà trasuda rabbia, disperazione, violenza.
«Alla base di questa realtà c’è la frustrazione e l’assenza di speranza per il futuro, specie tra i giovani palestinesi. Qui sta la vera sfida, per tutti coloro che cercano con sincerità una soluzione condivisa al conflitto israelo-palestinese: ridare una speranza ai senza futuro di Gaza. E per farlo occorre rivedere la posizione verso il governo in carica».
Nel senso?
«Nel senso di porre fine al boicottaggio. All’Europa dico: vincolate i finanziamenti ad un controllo severo sul loro utilizzo, vincolateli a progetti sociali, ma non contribuite allo strangolamento di un popolo. Perché laddove, come a Gaza, oltre il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, dove il 65% dei giovani è senza lavoro, parlare di pace diventa un esercizio retorico, privo di senso reale».
La speranza fissata nel presente è anche la fine della violenza nella Striscia, sia negli scontri tra fazioni palestinesi, sia per ciò che concerne i raid aerei israeliani in risposta al lancio dei razzi Qassam su Sderot. In questa chiave, è ancora attuale l’ipotesi, avanzata dall’Italia, di una forza di interposizione nella Striscia?
«Non solo è attuale ma diviene sempre più urgente realizzarla. Per quanto ci riguarda, siamo pronti a dare parere favorevole se esso può servire a sbloccare la situazione. L’Anp sostiene pienamente gli sforzi dell’Italia».
Ma è necessario anche il via libera di Israele.
«Negli ultimi giorni registriamo una modifica della posizione israeliana. Autorevoli ministri hanno aperto alla possibilità di una forza internazionale a Gaza. L’argomento è sul tavolo, anche del prossimo incontro tra il primo ministro Olmert e il presidente Abbas».
Qual è in conclusione di questo nostro incontro il messaggio che vorrebbe lanciare al governo italiano, in particolare per ciò che concerne la situazione a Gaza?
«La realtà è sotto gli occhi di tutti, e ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. Senza indulgere ad autoassoluzioni. Per quanto ci riguarda, non nascondiamo le nostre difficoltà, la situazione a Gaza è drammatica e rischia di essere ingovernabile. Ma la "somalizzazione" di Gaza sarebbe una sciagura per tutti, perché destabilizzerebbe ulteriormente il Medio Oriente. Per questo è tempo delle decisioni, dell’assunzione di responsabilità. Gli appelli non bastano più».
Israele s’interroga: negoziare, ma con chi?
«Con colui che Olmert incontrerà nei prossimi giorni. Con il presidente liberamente eletto dai palestinesi, con il garante del governo di unità nazionale: Abu Mazen. Non è un problema di interlocutore, ma della volontà di Israele di lavorare davvero per una pace fondata su due Stati. L’assedio di Gaza, il Muro che penetra nella Cisgiordania occupata, l’espropriazione di terre, l’unilateralismo forzato non incoraggiano la ricerca di un compromesso».
L’opinione pubblica internazionale è rimasta impressionata dal vide del giornalista della Bbc Alan Johnston rapito il 12 marzo.
«Conosco personalmente Johnston e so che un giornalista corretto, capace, che ha a cuore la causa palestinese. Il suo rapimento è un atto criminale. Il presidente e il governo stanno facendo il possibile per liberarlo. Se non ci riusciranno con i mezzi pacifici, allora non escluderei una operazione delle forze di sicurezza».

Con mezza pagina dedicata all'intervista a Erekat, non rimane che un trafiletto per dar conto delle minacce di Ahmadinejad a Israele:

TEHERAN Il presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, ha detto che è ormai cominciato «il conto alla rovescia» per la scomparsa di Israele. Un tema ricorrente, che torna a proporre mentre si fa sempre più teso il braccio di ferro con la comunità internazionale sul programma atomico della Repubblica islamica. È dall’ottobre del 2005, quando auspicò per la prima volta la cancellazione di Israele dalle carte geografiche, che Ahmadinejad ha continuato ad intervalli più o meno lunghi a battere su questo tasto, alternandolo con iniziative volte a mettere in dubbio la realtà dell’Olocausto. Prese di posizione che hanno provocato reazioni di protesta da parte di governi occidentali e non, aumentando i timori per i fini del programma nucleare iraniano, che Teheran afferma avere scopi esclusivamente civili e non militari. L’occasione dell’ultima uscita è stata una cerimonia di benvenuto ad alcuni ospiti stranieri giunti a Teheran per le celebrazioni del 18/o anniversario, che si celebra domani, della morte dell’ayatollah Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica. Un regime che non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele. «È cominciato il conto alla rovescia per la caduta del regime sionista, ad opera dei popoli del Libano e della Palestina», ha affermato Ahmadinejad.

Cliccare sul link sottostante per inviare una e-mail alla redazione dell'Unità

lettere@unita.it