Umberto De Giovannangeli, dopo averci edotto sulle responsabilità israeliane nel "suicidio" palestinese e sui "ghetti" creati dalla barriera difensiva dedica un articolo alle condizioni degli abitanti di Sderot.
E' una lodevole ricerca di equità, anche se i primi due articoli prendevano due intere paginate, e questo solo tre colonne.
Il punto, però, è un altro. Tra i due aspetti del conflitto, la sofferenza israeliana e quella palestinese, esiste un nessso causale che continua a essere eluso. E' l'aggressione terroristica palestinese a Israele a rendere necessaria la risposta israeliana e quindi a determinare, in ultima analisi, la catastrofe palestinese.
Tra il terrorismo e la risposta israeliana, poi, esiste un'ulteriore differenza: il primo è deliberatamente rivolto contro i civili, la seconda no.
Finché questi fatti non saranno chiariti ai lettori dell'UNITA' , i servizi di u.d.g. sulle sofferenze dei palestinesi resteranno propaganda, non informazione. E nessun servizio su Sderot potrà modificare la loro natura.
Ecco il testo:
SDEROT dove la vita è una roulette russa. Sderot, dove in due anni sono piovuti 1685 razzi Qassam, 280 nelle ultime due settimane. Sderot, dove la gente si sveglia la mattina e si addormenta la notte con il terrore che dagli altoparlanti escano le due parole
più temute: «Treva Adom» (allarme rosso). Sderot, dove «la paura non ha odore, non ha colore. Si insinua giorno dopo giorno fino a prendere possesso». Per cogliere oggi lo spirito di una nazione devi venire qui, in questa cittadina a due chilometri dalla Striscia di Gaza, che gli incessanti lanci di razzi da parte dei miliziani palestinesi, ha reso una città-fantasma, abbandonata da 8mila dei suoi 25mila abitanti. Sderot non è un insediamento, non fa parte dei territori occupati. Sderot è parte di Israele, come lo sono la vicina Asqhelon, Tel Aviv, Haifa. La gente di Sderot ha un solo desiderio: vivere in pace. Ma per gli oltranzisti dell’Intifada, Sderot è un obiettivo da colpire, una città da terrorizzare, una «entità sionista» da distruggere. E non importa se a essere ripetutamente colpiti dai Qassam siano l’asilo e la scuola elementare dove incontriamo i bambini di Sderot. Ogni cosa attorno a loro racconta di una condizione psicologica insostenibile. La parola più pronunciata dai bambini di Sderot è «pachad» paura. Quella che traspare dallo sguardo di Noa, 5 anni, che stringe a sé, un orsetto di peluche: «Si chiama Baby - mi dice .- ed il mio portafortuna». Quando Tahal Pfeffer, 4 anni, torna a casa dall’asilo, si accuccia sotto il tavolo della cucina e lì rimane. Quando Tahal ha cominciato a comportarsi così, circa sei mesi fa, sua madre Ofra ha pensato che si trattasse di un gioco. Tuttavia dopo averla incoraggiata a parlarne, Ofra si è resa conto che questo era il modo escogitato dalla figlia per controllare lo stress causato dall’allarme sicurezza all’ombra del quale la piccola Tahal ha vissuto gran parte della sua giovane vita: i razzi Qassam che cadono su Sderot, il rumore dell’artiglieria israeliana che fa fuoco su Gaza e i boom supersonici provocati dagli aerei dell’aviazione militare dello Stato ebraico.
La famiglia Pfeffer non costituisce un caso isolato. Un recente sondaggio, condotto a Sderot su un campione di 150 famiglie con bambini piccoli, ha evidenziato che il 54% dei genitori e/o dei bambini soffre di SPT (Sindrome Post-Traumatica) Tahal trasale al minimo rumore, così come fa Yaakov, suo fratello maggiore, sette anni: dallo squillo di un campanello ad uno sbattere delle porte.Quando parte la sirena dell’allarme «Treva Adom», il segnale che un Qassam è in avvicinamento, i bambini si bloccano immediatamente. Se accade di notte, corrono immediatamente nel letto della madre. Sono smarriti, impauriti, emotivamente destabilizzati. Quelli subiti dai bambini di Sderot non possono essere liquidati come meri «danni collaterali» di attacchi che «non hanno fatto vittime». «Vivere con un genitore post-traumatico può essere molto difficile per un bambino», ci spiega Anshel Katz, un giovane psicologo che presta assistenza volontaria a Sderot. «Questi genitori - aggiunge - cessano di essere tali, non sono più in grado di prestare attenzione ai figli e dimenticano come si fa anche solo a godersi il tempo trascorso insieme ai propri bambini». Perché la scansione della quotidianità a Sderot è segnata dalla paura. E dal dolore. Come quello che riempie lo sguardo di Yael, due anni. Yael è la figlia di Oshri Oz, 35 anni. Oshri era un tecnico dei computer, ed è stato colpito e ucciso nella sua auto domenica scorsa durante una ondata di lanci di Qassam contro Sderot. A rivendicare l’attacco sono state le Brigate Ezzedine al-Qassam, il braccio armato di Hamas. La vita a Sderot è una roulette russa: passano nemmeno trenta secondi dall’avvistamento del razzo al suo impatto. Trenta secondi per cercare un rifugio, per evitare di essere intrappolato nelle macerie del palazzo di quattro piani centrato tre giorni fa da un razzo Qassam. Nel municipio di Sderot incontriamo il sindaco della città, Eli Moyal. È stanco, reduce dall’ennesima notte insonne, ma le sue parole sono ferme, decise: «La caduta di Sderot - dice - significherebbe la caduta del sionismo». «Se si vuole rafforzare questa città - aggiunge - occorre riempirla e non svuotarla». Un sito internet locale ha condotto un sondaggio di opinione. «Che fare», ha chiesto. «Allontanarsi e aspettare che la bufera passi?», il 24% sono di questo avviso. Oppure protestare, dimostrare, bloccare le strade, manifestare contro dei «governanti imbelli»? Il 72% ritengono che sia questa la strada migliore. In città ci sono decine di rifugi pubblici: metà non hanno corrente elettrica. Oltre cento abitanti di Sderot - tutti inquadrati nelle unità della riserva delle forze armate - hanno inviato al premier Ehud Olmert una lettera di protesta in cui affermano che non indosseranno più la divisa se il governo non saprà garantire loro nella sicurezza. Nella lettera precisano di non sentirsi più in grado di lasciare le loro abitazioni per un periodo di riserva (in genere di un mese) sapendo di lasciare dietro le famiglie alla mercé degli attacchi palestinesi. «Ci rifiutiamo di accettare che i nostri figli e gli altri abitanti di Sderot continuino a fungere da carne da cannone per lo Stato di Israele», scrivono i riservisti, fra cui vi sono anche diversi ufficiali.
A Sderot chi è rimasto lotta per ridare ai ragazzi, ai bambini, una parvenza di normalità. Da alcuni giorni sono riprese le lezioni nelle scuole della città, ma solo nelle aule messe in sicurezza e senza mai uscire in cortile. «Soprattutto in questa stagione - dice Caroline Blum, una giovane maestra d’asilo - i bambini erano abituati a uscire in cortile, a fare gite, a vivere a l’aria aperta, come tutti i bambini al mondo. Ora, invece». Ai suoi piccoli alunni, Caroline Blum ha insegnato un nuovo «gioco»: cercare un riparo, stendersi a terra coprendosi la testa con le mani. Dallo scatenarsi, il 15 maggio, dell’«Intifada dei Qassam», a Sderot e nelle zone vicine sono state uccise tre persone - tre civili - . I feriti sono oltre trenta. Ma questo elenco pesante, non dà conto pienamente del dramma collettivo vissuto da una comunità. Ma Sderot non è solo paura, rabbia. È anche solidarietà concreta. Quella praticata dai giovani volontari di «Lev Echad» (Un Cuore). Come David e Amit. David ha 19 anni ed è studente di una yeshiva (scuola rabbinica) a Gerusalemme. «Dormiamo qui - dice - in una delle scuole. Non potevo continuare a studiare la Torha come se niente fosse». Amit 21 anni, studia legge all’Università Bar Ilna di Tel Aviv. Amit ha deciso di rinviare gli esami per venire a Sderot. Sderot non è sola. Quei volontari raccontano di un sostegno che non è venuto meno. Resistere per ridare una vita normale ai bambini «reclusi» nei loro asili-bunker. Sderot non si arrende.
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