Una giornalista palestinese non ha potuto seguire lo sgombero di Gaza. E' stata "discriminata", accusa. Maurizo Debanne sull'UNITA' è d'accordo con lei.
Dimeniticando alcune cose: il terrorismo palestinese non è un 'invenzione degli israeliani. I media palestinesi, d'altro canto, non sono liberi e sono veicoli di trasmissione dell'odio e dell'esaltazione della violenza.
Israele, in un momento difficile ed estremamente delicato, aveva tutte le ragioni e tutti i diritti di prendere precauzioni.
Non è "discriminazione", ma solo discernimento.
Ecco il testo:
http://www.unita.it/view.asp?IDcontent=66347
Palestinese e giornalista: discriminata
Maurizio Debanne
Ala'a Karajh è una giornalista palestinese di 23 anni. Le qualità del mestiere le possiede tutte: di curiosità ne ha da vendere, la realtà sa bene che la si conosce solo per strada e non per sentito dire. L'umiltà poi la dimostra prendendo appunti in ogni incontro a cui prende parte. «Da tutti posso imparare qualcosa», dice a l'Unita.it. Ala'a ha fatto parte di un gruppo di 12 giornalisti, 6 israeliani e 6 palestinesi, che ha preso parte ad un workshop di 3 giorni presso la redazione di RaiNews24 sul ruolo dei media nel conflitto israelo-palestinese. Il progetto, finanziato dall'Unione europea, dal Comune di Roma e dalla Regione Lazio, è stato organizzato dal Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente e da due Ong, Keshev (israeliana) e Miftah (palestinese).
Dai lavori sono emerse fuori tutte le difficoltà che attraversa la stampa di ambo le parti. Ala'a non si sottrae a elencare le proprie. «Il giornalismo palestinese è ancora molto giovane e dunque manca a volte di professionalità», ammette. Tuttavia, le difficoltà non derivano solo dall'inesperienza e dall'estremismo di alcuni canali, come quello di Hamas. «Due anni fa durante il ritiro da Gaza voluto dal governo israeliano di Ariel Sharon le televisioni di tutto il mondo coprirono l'evento. C'erano anche le telecamere di Al Jazira e Al Arabya. Ma a noi giornalisti palestinesi non ci fu rilasciato il permesso dalle autorità di sicurezza dello stato ebraico di entrare a Gaza per raccontare lo sgombero degli 8mila coloni». «Una decisione incomprensibile», è il commento del capo della delegazione israeliana, Yitzar Be'er, direttore di Keshev.
E qui si apre allora il problema delle fonti. Se ai palestinesi non è concesso di vedere con i propri occhi ciò che accade in Israele, o un discorso del primo ministro o di altri membri dell'esecutivo dello stato ebraico, come possono svolgere appieno il proprio lavoro? «Siamo più volte costretti a ricercare le notizie guardando le tv satellitari arabe», confessa Ala'a. A questo quadro va aggiunto inoltre che per i palestinesi è difficile spostarsi anche all'interno della stessa Cisgiordania. A causa dei blocchi interni israeliani, recentemente criticati dalla Banca Mondiale in un rapporto sull'economia palestinese, è difficile coprire gli eventi nelle varie città della West Bank. Insomma, oltre alle difficoltà di sfondare in un settore molto competitivo, ancora giovane e a volte attaccato da un fanatismo, in Palestina essere giornalisti è davvero un'impresa. Al'a però non si scoraggia e non nasconde davanti a nessuno il suo sogno: diventare un giorno anchorman di una importante Tv araba.
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