Secondo De Giovannangeli il suicidio palestinese è "indotto" da Israele
che non lasciandosi distruggere spinge i terroristi alla guerra civile
Testata:
Data: 30/05/2007
Pagina: 1
Autore: Umberto De Giovannangeli
Titolo: Gaza, suicidio di una nazione
L'UNITA' del 30 maggio 2007 pubblica un articolo di Umberto De Giovannangeli sul "suicidio della nazione palestinese"a Gaza.
Suicidio "indotto" sostiene De Giovannangeli. Naturalmente da Israele, che dopo il disimpegno ha fatto della Striscia un "enorme carcere a cielo aperto
", come dichiara uno dei fondatori dell'Olp, Haider Abdel Shafi. E dalla comunità internazionale che ha sospeso i finanziamenti all'Autorità palestinese.
Questo tentativo di adossare a Israele e alla comunità internazionale responsabilità che sono interamente delle fazioni palestinesi ( e di chi le ha sostenute e le sostiene) è un esempio di assoluta disonestà intellettuale.
Fin dal primo giorno dopo il disimpegno Gaza è stata trasformata nella piattaforma di lancio di razzi kassam verso Israele. Sono proseguiti i tentativi di infiltrazione dei terroristi in Israele, e gli attentati agli stessi valichi commerciali.
Si è incrementato il contrabbando di armi con l'Egitto.
Nè Hamas, né Al Fatah, hanno speso il minimo sforzo nella costruzione di un'economia a Gaza. Il disimpegno non è stato percepito come un'occasione di sviluppo e come un incoraggiamento alla trattativa, ma come una vittoria del terrorismo e un incitamento a nuovi attacchi.
E'per difendersi da questi attacchi che Israele ha dovuto imporre il suo controllo sui confini con Gaza.
Ancora: sono i palestinesi ad aver eletto il governo di Hamas, sapendo benissimo che questo gruppo non vuole la pace, ma il terrorismo e la distruzione di Israele.
Israele si è difesa, semplicemente evitando di finanziare chi vuole distruggerla.
La comunità internazionale formalmente l'ha seguita, ma in realtà i finanziamenti all'Autorità palestinese, dopo l'elezione del governo di Hamas, sono aumentati.
Una prova ulteriore che la crisi palestinese non dipende dall'esterno: anche quei soldi non sono stati utilizzati per lo sviluppo o i servizi sociali, ma per la guerra e l'indottrinamento all'odio.
La disgregazione della società palestinese è il frutto dell'implosione dell'ideologia della violenza e del culto della morte che già hanno alimentato l'aggressione terroristica a Israele.
I palestinesi si "suicidano" perché l'ideologia che guida la loro lotta nazionale in realtà non è interessata alla costruzione di nessuna società, ma solo alla distruzione di Israele.
Se u.d.g. ammettesse questo, però, dovrebbe anche ammettere di aver sostenuto, insieme a molti altri,  una dirigenza  politica che è stata la massima disgrazia anche per il popolo palestinese. Dovrebbe ammettere che il sostegno ad Arafat e all'intifada appartiene al triste repertorio degli entusiasmi rivoluzionari per le tirannie del terzo mondo, dalla Cina maoista all'Iran khomeinista, sempre disastrose per i popoli che le hanno sperimentate.
Meglio allora, dare la colpa a Israele. Che osa difendersi. Che non si lascia distruggere. E così induce al "suicidio" i palestinesi. Ecco la morale di u.d.g.  e dell' UNITA': la vittima è responsabile per il suo assassino. Si deve far ammazzare per salvarlo.

Ecco il testo:  


Per raccontare il suicidio (indotto) di una nazione devi trascorrere almeno una notte a Gaza. Una notte di «ordinaria paura» in attesa di un nuovo raid israeliano. O di nuovi scontri tra Hamas e Fatah. Devi partecipare dell’angoscia di chi dalla nascita non ha conosciuto che dolore e violenza, toccare con mano la bancarotta di una leadership politica, devi muoverti con circospezione in strade presidiate da giovani miliziani delle tante fazioni che nella Striscia si contendono il territorio. Giovani che conoscono una sola legge: quella dei kalashnikov.
FRATELLI CONTRO FRATELLI. L’Autorità nazionale palestinese? Semplicemente, qui a Gaza non esiste. In giro incontri solo civili (pochi), e miliziani di Hamas e di Fatah. Di agenti in divisa neanche l’ombra. E l’ordinaria paura in attesa di un nuovo raid israeliano
La casa che ci ha ospitato per una notte è quella di Yasser Hanzeh, 35 anni e sei figli, maestro elementare. Yasser vive a Tel Hawa, uno dei quartieri di Gaza City dove più si è sparato nei giorni della resa dei conti tra Hamas e al Fatah.
Se Gaza è una immensa prigione a cielo aperto, Tel Hawa è uno dei suoi «bracci» più disgraziati. Qui la gente vive tappata in casa, pochi si azzardano a uscire. «Se non ti sparano addosso quelli di Hamas o del Fatah, c’è il rischio di essere centrato da un missile israeliano», racconta Yasser. Dalle finestre di casa Hanzeh, si apre uno scorcio che racchiude in sé la tragedia di un popolo senza più speranza: a poche decine di metri c’è lo scheletro di un palazzo sventrato da un attacco aereo israeliano: è un edificio di tre piani, era la sede della «Forza esecutiva di Hamas», prima di essere distrutto dai caccia con la Stella di David. La strada è il regno dei giovani col volto mascherato, le tute nere e i kalashnikov. Giovani che rispondono ai comandi di un capo locale. Tutti contro tutti. A unire è una rabbia che tracima in una violenza senza sbocchi. La parola più praticata è «Vendetta». A Gaza è andata in frantumi anche la (granitica) compattezza di Hamas. Ogni gruppo armato fa riferimento a un capo politico. I più duri prendono ordini dai due nemici giurati di Ismail Haniyeh, il primo ministro, anch’egli di Hamas, che li ha sacrificati per la costituzione di un governo di unità nazionale con «Mahmud il moderato», al secolo Abu Mazen. I due falchi di Hamas sono gli ex ministri Mahmud al Zahar (Esteri) e Said Siam (Interni). L’hanno giurata ad Haniyeh «il pragmatico» e sono loro ad aver soffiato sul fuoco dello scontro con quelli di Fatah.
Sul piano militare non c’è partita: le varie fazioni di Hamas possono contare su almeno diecimila uomini, a fronte dei tremia fedelissimi di Abu Mazen. A Gaza nessuno si fa più illusioni sulle possibilità del governo di unità nazionale. Il disincanto è l’altra faccia della paura. In questo lembo di terra isolato dal mondo, dove vivono ammassate 1 milione e 400 mila persone, si consuma una duplice sconfitta: quella della classe dirigente palestinese, nella sua doppia variante nazionalista e islamista, ma anche di Israele. Perché qui a Gaza sul suicidio di una nazione sta edificandosi «Jihadland», la terra del Jihad, avamposto qaidista; un avamposto che, una volta consolidato, minerebbe ulteriormente la sicurezza dello Stato ebraico. A Gaza agiscono ormai da tempo reclutatori di Al Qaeda, addestratori di Hezbollah, emissari dei Pasdaran iraniani. Corano e Qassam. Lavaggio del cervello e 150 dollari (una enormità per la gente di Gaza) come paga mensile per ingrossare le fila dell’esercito jihadista. A costoro nulla importa che tra le rovine di Gaza si stia seppellendo la dignità di un popolo orgoglioso, che per decenni ha reclamato giustizia e rivendicato, legittimamente, il diritto ad uno Stato indipendente su una parte (quella occupata da Israele nel ’67) della Palestina.
Delle speranze che avevano segnato, nell’agosto di due anni fa, il ritiro di Tzahal dalla Striscia, non restano tracce. Il perché lo spiega con parole semplici il «grande vecchio» di Gaza: Haider Abdel Shafi, l’unico tra i fondatori dell’Olp ancora in vita. «La verità - dice - è che gli israeliani sono andati via (nel 2005, ndr.) ma hanno conservato le chiavi di questo enorme carcere a cielo aperto che è diventato Gaza. E come in ogni prigione i detenuti si battono tra di loro per il potere, un potere inutile quando non si è liberi ma si vive in una cella». La gente di Gaza è allo stremo, esausta, esasperata. Con Yasser costeggiamo edifici anneriti dalle fiamme appiccate dalle milizie dell’una e dell’altra parte, ci avventuriamo tra le macerie di palazzi colpiti dai missili israeliani (62 raid aerei nella Striscia dal 16 maggio, 51 palestinesi uccisi, tra i quali 14 civili), facciamo fatica a superare montagne di rifiuti. Dalla polvere che si alza dai palazzi colpiti dai missili aria-terra israeliani emergono figure imbiancate, sembrano dei fantasmi, sono donne e bambini che cercano di recuperare qualche masserizia tra le rovine. Il caldo è opprimente, stagnante. La meta è un panificio che apre solo due ore al giorno: «Non posso lasciar morire di fame i miei bambini -dice Yasser- devo rischiare». Yasser non si stanca di ripetermi: «Mi raccomando, non prendere appunti, non scattare foto, se scoprono che sei un giornalista finisce male». Sui muri dei palazzi crivellati dai proiettili si susseguono le foto degli «eroi» di Jihadland, quelli che per i giovani in tuta nera e kalashnikov in mano, sono gli eredi del Saladino: Osama bin Laden, il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, il capo di Hezbollah libanese, lo sheikh Hassan Nasrallah. «Loro sì che hanno fatto tremare gli americani e i nemici sionisti», dice Ahmed, 21 anni che, arma in pugno, ci ferma ad un improvvisato posto di blocco. Combattere sembra essere diventato per decine di migliaia di giovani come Ahmed, l’unica ragione di vita. Si spara anche per dire: io esisto. È tragico, ma è così. In un letto d’ospedale a Shifa giace un ragazzo, Ghassan Soueif, con ferite al collo, alle gambe, al petto e allo stomaco: «Stavo piazzando una mina anti-carro armato a Shajhayeh la scorsa settimana -racconta- quando sono stato colpito dal fuoco di un aereo israeliano. Ritornerò a far parte della resistenza quando mi sentirò meglio. Perché dovrei preoccuparmi? Se muoio sarò un martire e andrò in paradiso».
Il suicidio di una nazione, si è detto. Perché nell’inferno di Gaza sta morendo l’autonomia politica palestinese. Ad aver staccato la spina alla speranza sono in molti. Tutti coloro che hanno contribuito a fare di Gaza una prigione a cielo aperto. Quei ragazzi col volto coperto e in tuta nera che si fronteggiano armati di kalashnikov e di odio raccontano del fallimento della politica; un fallimento che accomuna «moderati» e oltranzisti palestinesi, ma che chiama anche in causa, e pesantemente, una comunità internazionale incapace di andare oltre la stanca recita dei comunicati pieni di «preoccupazione» e di inviti alla calma, ma privi di qualsiasi ricaduta fattuale. Del governo di unità nazionale, Ziad Abu Amr è il ministro degli Esteri; studioso di fama mondiale del fondamentalismo islamico, laico, progressista, Abu Amr è ben visto nelle cancellerie europee e anche a Washington. Le sue parole non hanno il sapore di una tardiva autodifesa, ma chiedono conto di una realtà drammatica che non può essere imputata solo alla dirigenza palestinese: «Se sei sotto assedio -dice il ministro a l’Unità- se sono quindici mesi che non ricevi lo stipendio, se oltre il 60% della popolazione è al di sotto della soglia di povertà, e sotto i continui attacchi israeliani, se il 70% dei giovani è disoccupato, se non c’è speranza, questo è l’ambiente giusto per le tensioni, la violenza interna e l’aumento del radicalismo». Per contrastare queste «avverse condizioni» Abu Amr ha lanciato nelle scorse settimane un accorato appello agli europei affinché intervengano per rimuovere «l’assedio» al quale vengono sottoposti i palestinesi e affinché l’Unione Europea instauri relazioni con l’intero governo palestinese.
Un appello che non ha sortito effetto alcuno. L’assedio israeliano e il boicottaggio europeo sono una punizione collettiva per chiunque a Gaza. Una intera società viene distrutta. Israele continua a bloccare qualsiasi attività commerciale. I pescatori non possono allontanarsi dalla costa e si vedono costretti a sfidare le onde tentando vanamente di catturare pesci con reti gettate a mano. E così a Gaza una umanità sofferente si trascina tra raid e tregue, in un eterno presente che non lascia scampo. Un presente che divora le nuove generazioni palestinesi. «Gli adolescenti -spiega il professor Muhammed Haj Yihye, coordinatore della più documentata ricerca sui giovani kamikaze palestinesi- partecipano spesso alle manifestazioni, alle marce, ai funerali. Sono esposti alla retorica della violenza, agli slogan di vendetta. Che lo vogliano o meno si identificano con l’ambiente. Tornano a casa pieni di odio, senso di abbandono, amarezza e desiderano vendicarsi per la loro sofferenza». «A Gaza i bambini di tutte le età sono tutti terrorizzati e hanno incubi notturni. I genitori ci raccontano che i loro figli non vogliono che le madri escano e li lascino soli, e hanno paura ad uscire di casa», testimonia Monica Awad, responsabile per le comunicazioni dell’Unicef nei Territori. Alla periferia più degradata di Gaza City incontriamo padre Manuel Musallam, l’unico sacerdote cattolico di rito latino a Gaza. Per spiegare cosa sia la disperazione, mi racconta una storia vera accaduta a Gaza, non lontano dalla sua parrocchia. «Un ragazzo di sedici anni, Shadi, che viveva in una famiglia numerosa senza lavoro, un giorno, uscendo di casa, aveva visto la sorella chiedere l’elemosina all’entrata di una moschea. È tornato a casa, ha scritto una breve lettera al padre e alla madre, poi è andato ad attaccare una postazione di soldati israeliani al confine. È andato incontro alla morte. Tre ore dopo è stato riportato su una barella, morto». Allora hanno scoperto la lettera che Shadi aveva scritto. I genitori l’hanno consegnata a padre Musallam. «Padre, madre, vi voglio bene - c’è scritto -. Volevo vivere per la Palestina, ma vi ho vendicato. Ho esposto al pericolo la mia vita, mi sono ucciso per farvi risparmiare un pezzo di pane per uno dei miei fratelli. Ora non siete più 10, siete nove. Ora potete dar da mangiare a tutti in famiglia». Padre Musallam chiude la lettera e riflette amaramente: «Questa non è la storia di uno solo, ce ne sono tante altre, ogni giorno». C’è animazione attorno all’ufficio di Abu Mazen. Il rais è a Gaza City impegnato in un incontro con il presidente dell’Europarlamento, Hans-Gert Pottering. Abu Mazen annuncia che la settimana prossima, il 7 giugno, incontrerà il premier israeliano Ehud Olmert, primo faccia a faccia in quasi due mesi. L’ufficio di «Mahmud il moderato» sembra un fortino in stato d’assedio: decine di membri di Forza 17, la guardia presidenziale, circondano l’edificio, armi alla mano: cecchini sul tetto, jeep blindate. Si teme un attacco. Non degli F16 israeliani, ma dei miliziani di una delle fazioni di Hamas o della Jihad islamica. Yasser scuote la testa e dà sfogo ad un sentimento comune ai «prigionieri di Gaza»: «Si incontrano, si stringono la mano, ma poi la situazione resta tale e quale, anzi va sempre peggio». Gaza ha smesso di sperare, e partecipa impotente al suicidio (indotto) di una nazione.

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