Dall'UNITA' del 28 maggio 2007:UNO SGUARDO «criticamente indulgente»: è quello con cui il più affermato scrittore israeliano dei nostri tempi, Abraham Bet Yehoshua, analizza il presente di Israele, le sue contraddizioni e le mai sopite potenzialità. «A l'Unità - dice Yehoshua - raccon-
to, con amore ma senza remore, il mio Israele». I suoi sogni, le sue ansie, i tabù sfatati e quelli che ancora resistono. Sperando, un giorno non lontano, «di celebrare la più grande conquista di Israele: quella di poter essere finalmente un Paese normale, in pace con gli altri, in pace con se stesso».
Non è un segreto per nessuno che la società israeliana viva una crisi profonda. La sua classe dirigente ha raggiunto il minimo della popolarità e della autorevolezza proprio in un periodo di grandi emergenze provenienti da tutti i fronti: il mancato successo militare della Seconda Guerra del Libano, le continue recrudescenze di combattimenti nella Striscia di Gaza, i processi per corruzioni politiche... Qual è la sua lettura della situazione?
«La situazione di Israele confonde. Da una parte abbiamo tutti i problemi che lei ha ricordato e molti altri ancora, ma dall'altra l'economia del Paese -nonostante la guerra dell'anno scorso e la continua tensione militare- è fiorente. Questo segnale viene invero dall'economia, ma tutti sanno che l'economia di uno Stato è anche legata a fattori di stabilità politica e sociale. Alle guerre seguono generalmente crisi economiche, qui invece succede il contrario. La questione della popolarità la metterei da parte. La popolarità va e viene con gli avvenimenti, e qui di avvenimenti ne accadono quasi ogni giorno. Se la leadership uscisse dal suo letargo e prendesse le giuste iniziative, le cose potrebbero ancora cambiare. La guerra del Libano ha dato uno scossone a tutta la società; l'ha fatta scontrare con la propria ottica narcisista e con il senso di superiorità in cui viveva -soprattutto l'esercito- e ha messo allo scoperto disfunzioni, anche gravi, che dovranno essere affrontate e curate. Certo, è molto più facile addossare la colpa alla leadership attuale, che non riconoscere errori di un lungo passato, ma questo non sarebbe né giusto né storicamente corretto: il processo di indebolimento della società e dell'esercito inizia dal momento in cui l'una e l'altro si sono trovati ad occuparsi di occupazione militare e di insediamenti invece che di difesa della propria popolazione. Un male quindi, che è in gran parte eredità degli anni in cui la destra era al potere. In ogni caso, la società israeliana sta facendo i conti con i risultati di questa guerra. Come tutte le democrazie, anche quella israeliana ha i suoi tempi. Ma i meccanismi si sono messi ormai in moto e le centinaia di inchieste in corso daranno il loro segno, perché non c'è alternativa, visto che è una questione vitale per lo Stato».
Verifiche e controlli sono indubbiamente importanti. Ma la domanda è se i risultati della guerra, come pure l'atmosfera che l'ha seguita, non hanno colpito mortalmente l'idea di esercito di popolo?
«Anche in questo caso l'esercito è specchio dei cambiamenti avvenuti nella società. Una società più consumistica, più individualista, in cui la gran parte della popolazione vive ad un alto livello di vita. Le persone che hanno deciso, combattuto e sbagliato -laddove ci sono stati sbagli- sono in ogni caso parte di questa società, che deve fare i conti con sé stessa, e lo sta facendo. C'è ora da vedere se, in una prospettiva di tempo più lunga, i risultati politici potranno in qualche modo compensare i malfunzionamenti militari. Israele non voleva conquistare il Libano e neppure una piccola parte di esso. L'obiettivo politico era di far capire al Libano che la divisione artificiale che si era creata fra la bella vita e la fioritura economica dei sunniti e dei cristiani a Beirut e nel nord del Libano e la minaccia costante per Israele rappresentata dagli Hezbollah sciiti nel sud confinante con Israele, non era più sostenibile e accettabile. Questo risultato sembra sia stato ottenuto. Il governo libanese sta prendendo sempre più le sue responsabilità rispetto alla passata totale egemonia di Hezbollah nel sud del Paese. Anche la posizione del mondo arabo ha rappresentato una novità assoluta: il mondo arabo sunnita ha capito una volta di più quali problemi l'estremismo sciita può creare innanzi tutto ai propri regimi, al mondo arabo in generale e forse al mondo intero. E pur non potendolo fare apertamente, molti Stati arabi hanno assunto posizioni che hanno colpevolizzato più Hezbollah che non Israele. Anche le dinamiche generatesi dalla guerra con il Libano hanno risvolti positivi...».
Quali?
«Mi riferisco all'iniziativa saudita che mi sembra sincera e promettente, anche perché è mossa dagli interessi intrinseci delle nazioni arabe. Molte di queste vedono oggi nella pace con Israele - e la fine del conflitto israelo-palestinese - uno strumento strategico per arginare la marea fondamentalista sciita. Ma l'ostacolo alla realizzazione di questa iniziativa è purtroppo rappresentato oggi dai palestinesi, fra i quali regna il caos assoluto, principale eredità lasciata da Arafat. Non c'è nessuna figura o organo che abbia veramente la forza e il potere di far applicare una qualsiasi forma di accordo con Israele. Per questo penso che vada esplorata con maggiore attenzione l'opzione siriana, verificando tutti quei punti che sono sul tavolo da decenni e che aspettano di essere maturi fra i governi e i popoli: un Golan smilitarizzato e aperto alle due popolazioni potrebbe essere la soluzione che metterebbe fine al conflitto israelo-siriano. E per quanto riguarda la Siria, là il potere laico baathista di Assad ha l'autorità e la forza di arrivare ad un accordo. A quel punto, con i palestinesi si potrà continuare con accordi progressivi e parziali fino a che si potrà arrivare al punto di incontro che ponga fine al conflitto, quando i due popoli e le due leadership saranno maturi per farlo. Di una cosa resto persuaso: Israele non ha speranze a lungo termine se non trova un accordo con gli arabi».
A poco più di un anno dalle ultime elezioni e dalle parole di apprezzamento per il «New Labour» di Amir Peretz, che cosa rimane della speranza nel personaggio e nella sinistra israeliana in generale?
«La delusione nei confronti di Amir Peretz sta nel fatto di aver tradito il suo programma sociale. Le persone avevano riposto in lui la speranza di una rivalutazione dei valori sociali e socialdemocratici del partito Laburista e la delusione in questo senso è stata cocente. Ma non dobbiamo cadere nell'errore di confondere il personaggio politico che rappresenta il Labour e il partito stesso. Il partito Laburista è nella politica israeliana una "creatura organica", come lo è d'altronde il Likud per la destra. Può vivere crisi più o meno gravi o più o meno lunghe, ma non scomparire. Il vero problema sta invece in cosa succederà con Kadima (il partito del premier Ehud Olmert, ndr). Se questo partito dovesse sfaldarsi e parte dei suoi membri ritornare in seno al Likud, la prospettiva più realistica è che avremo nuovamente un governo guidato dalla destra. Ed è proprio qui che la delusione per la mancata rinascita del Labour è maggiore. Il Likud ha ormai in gran parte assorbito posizioni più moderate rispetto alla soluzione del conflitto con i palestinesi, ma dovrà sempre accontentare quella parte del suo elettorato che lo tira a destra, se non altro per distinguersi dal Labour. Non potrà - anche se molti al suo interno lo vorranno - andare fino in fondo nelle concessioni necessarie per arrivare alla pace. Peretz doveva percorrere la strada sociale per guadagnarsi il favore, la stima e l'appoggio dell'opinione pubblica, ed usare questo credito per guidare il Paese sulla strada della pace, per la quale la società israeliana, o almeno una sua gran parte, ha già più volte dimostrato in passato di essere disposta a fare rinunce, se solo se ne vengano a creare le premesse. In ogni caso il guaio è stato fatto. Siamo alla vigilia dell'elezione di un nuovo leader della sinistra e la cosa più importante è che questa nuova figura sappia leggere in modo giusto i fenomeni sociali che muovono la società israeliana e trovare le giuste risposte ai suoi problemi che non sono solo, lo ripeto, legati alla ricerca della pace. Il ritorno ai valori di giustizia sociale come bandiera del Labour, è un passaggio necessario per riportare il partito al suo posto naturale nella politica e nella società».
Le elezioni per la leadership del Partito Laburista vedono un testa a testa fra Ehud Barak, un ex Capo di Stato Maggiore e Ami Ayalon, un ex Generale e ex Capo dell'Intelligence israeliana. Poco più di un anno fa Lei definiva l'elezione al vertice di Olmert e Peretz, personaggi senza un background militare significativo, come ricerca di una "normalità". Questa voglia di normalità è stata sconfitta dalla necessità della continua emergenza militare?
«Non rinnego le mie parole, ma le devo mettere in un giusto quadro. Quando si parla in altri Paesi di generali e capi di stato maggiore, si può forse associare la cosa a personaggi che vivono in basi militari e si occupano tutta la loro vita di questioni militari, in una realtà tutta loro, staccata da quanto avviene nella società. In Israele non è assolutamente così. I nostri militari sono perfettamente coscienti di quanto avviene nella realtà e nella società, in tutti i suoi aspetti. Il fatto che molti leader vengano da un passato militare viene tutto sommato a merito dell'esercito che instrada ad un senso di responsabilità verso il Paese. Nessuno vieta a figure del mondo dell'accademia, della cultura, dell'economia di entrare nella politica e di prendersi responsabilità a livello nazionale, ma purtroppo ciò avviene in una misura non ancora sufficiente. In merito ai due personaggi in corsa per la leadership laburista, è difficile etichettarli come militaristi o guerrafondai: Barak è quello che ha messo sul tavolo di Camp David le proposte più coraggiose che siano mai state fatte ai palestinesi e che Arafat ha respinto. Lo stesso Barak è colui che ha tirato Tzahal fuori dal Libano. Ayalon, al quale va il mio sostegno, è il co-promotore insieme all'intellettuale palestinese Sari Nusseibeh, dell'"Appello Nazionale", un piano dettagliato per la composizione del conflitto basato innanzitutto sulla creazione di una base di fiducia fra i due popoli e che riporta sostanzialmente Israele ai confini del '67. Politicamente, siamo insomma davanti a due colombe, anche se con i gradi...Spero solo che le circostanze create dalla Seconda Guerra del Libano permettano a chi sarà eletto, di mantenere vivo nell'agenda politica del partito e del Paese un orientamento quanto più possibile sociale».
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