I razzi kassam e gli scontri tra Hamas e Fatah ? Un favore a Olmert
che per Sandro Viola resta l'unico "cattivo"
Testata: La Repubblica
Data: 18/05/2007
Pagina: 1
Autore: Sandro Viola
Titolo: Il boomerang palestinese

Un osservatore imparziale, di fronte al caos di Gaza e agli atacchi a Israele, ne concluderebbe che gli israeliani non avevano tutti i torti quando tentavano di spiegare alla comunità internazionale che non avevano un interlocutore credibile per il processo di pace e che non potevano rinunciare a tutelare direttamente la propria sicurezza. 
Sandro Viola invece, sulla REPUBBLICA del 17 maggio, sostiene che le fazioni palestinesi hanno fatto un favore a Olmert e tutti quelli israeliani che, per pura malvagità si deve supporre, non vogliono trattare con le fazioni terroristiche che si contendono Gaza e la Cisgiordania.
Ecco l'articolo:

«No», diceva Jorge Luis Borges: «i peronisti non sono né buoni né cattivi. Semplicemente, sono incorreggibili».
Nulla come la frase del grande scrittore argentino può servire meglio per definire, con un solo aggettivo, i palestinesi d´oggi. La faida intestina in cui si dibattono ormai da settimane, gli oltre trenta morti degli ultimi tre giorni, l´impotenza del governo di Unione Hamas-Fatah a fermare lo scontro, costituiscono infatti la prova di come essi siano incapaci di porsi sulla scena come interlocutori attendibili d´un negoziato di pace.
Incapaci di correggere i tanti errori politici commessi in passato. Moderati o radicali, militanti di Fatah o di Hamas, i palestinesi non si limitano più – come si diceva una volta – «a non perdere l´occasione di perdere un buona occasione». Adesso fanno di peggio.
Adesso stanno distruggendo, forse ancor più di quanto non avessero già fatto inviando i loro kamikaze a seminare vittime nelle città israeliane, quel che restava dell´immagine proposta in questi decenni: un popolo che chiede giustizia, che reclama i propri sacrosanti diritti su una parte della Palestina. L´immagine che prevale oggi è infatti un´altra. Quella d´un coacervo di bande armate che sparano l´una contro l´altra, ormai prive d´una consistente, credibile guida politica, e dunque senza veri progetti e prospettive salvo il caos d´una guerra civile. E chi vorrebbe parlare, negoziare, cercare un compromesso territoriale con simili interlocutori?
Che sollievo, per il governo israeliano, lo scontro interno tra palestinesi. Che evento propizio in specie per il primo ministro Ehud Olmert, molto probabilmente (col suo 3 per cento di consensi) il governante più screditato di tutto il mondo civile. Israele stava vivendo infatti, sino a pochi giorni fa, una delle sue fasi storiche più critiche. Un governo traballante sotto l´urto d´una ondata di scandali vergognosi. Una commissione d´inchiesta sulla condotta della guerra in Libano nell´estate scorsa, che non aveva esitato (come avviene nelle democrazie, come tante volte non è avvenuto in Italia) a mettere sotto accusa il primo ministro, il ministro della Difesa e il capo di Stato maggiore in carica durante la guerra. L´insorgere d´un senso di sfiducia, se non addirittura di nausea, verso le istituzioni e la politica, da parte della società israeliana nel suo complesso.
Ma soprattutto, questa fase difficile sembrava caratterizzata dall´impazienza dei paesi amici. L´impazienza che andava crescendo – in Europa, ma anche in America – nei confronti d´Israele. Questo era il tema di quasi tutti i colloqui che avevo avuto sino a domenica scorsa qui a Gerusalemme. Il lento ma continuo divergere degli interessi di Israele da quelli europei e americani. Di conseguenza, i toni e i gesti insofferenti che giungevano dai governi occidentali, ogni volta più netti, verso l´Israele politico.
Governo, partiti e gruppi di pressione come quello dei coloni ebrei in Cisgiordania, oggi la forza politica più compatta e motivata del paese.
Tra aprile e maggio, non c´era stato un giorno in cui non fossero venuti da Occidente una frase critica o un avvertimento.
L´impegno preso dagli europei di non trattare con Hamas si stava ormai sgretolando. Il ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, aveva seccamente dichiarato che la presenza (anzi la prevalenza) di Hamas nel governo palestinese non giustifica l´embargo degli aiuti economici stanziati dall´Unione europea. E nonostante la decisione americana di non stabilire alcun rapporto con un governo Hamas-Fatah, Condoleezza Rice aveva avuto un lungo e cordiale colloquio col ministro delle Finanze di quel governo, Salam Fayyed.
Intanto la Banca mondiale aveva protestato contro le restrizioni ai movimenti di persone e cose imposte in Cisgiordania dall´esercito d´Israele, restrizioni che stanno finendo di strozzare il po´ d´attività economiche che ancora sopravvivono in Palestina. La Croce Rossa era insorta contro gli abusi commessi sui palestinesi di Gerusalemme Est. E infine erano venute fuori le voci d´un disaccordo in seno al governo di Washington: da un lato Bush, sempre molto filo-israeliano, dall´altro il Segretario di stato e il ministro della Difesa Robert Gates, ormai esasperati dalla condotta del governo Olmert e sempre più in sintonia col presidente dell´Autorità naziona- le palestinese, Mahmud Abbas.
Le ragioni dell´impazienza euro-americana sono più che evidenti. La lentezza e inconsistenza del dialogo aperto da Olmert con i palestinesi, la mancanza di vere risposte al piano di pace avanzato un mese fa dai sauditi, le troppe obbiezioni opposte dai militari e dagli apparati di sicurezza israeliani al cosiddetto «calendario Rice»: l´insieme di misure, cioè (stavolta fissate in modo preciso, il mese e il giorno), che le due parti dovrebbero adottare per giungere entro l´estate ad un miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi, e alla fine delle azioni di guerriglia contro Israele. Senza parlare dell´esasperante riluttanza di Olmert e dei militari ad agire contro i coloni, a smantellarne gli insediamenti illegali, ad imporre la legge, insomma, anche ai sostenitori del Grande Israele.
Il fatto è che l´Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, sanno di non avere molto tempo. Per non assumere i contorni d´una rotta disastrosa, il ritiro americano dall´Iraq dovrebbe avvenire su uno sfondo regionale meno febbrile di quello attuale. La situazione sulla frontiera libanese sembra per il momento sotto controllo, ma non si può certo escludere che gli Hezbollah tornino ad operare nell´area presidiata dai contingenti Onu. Se Hamas e la Jihad islamica dovessero intensificare i lanci di razzi Qassam sul Negev, gli israeliani sarebbero costretti a reagire con vaste e probabilmente sanguinose operazioni militari nella Striscia di Gaza.
Da qui, dall´incombere di tanti rischi, era venuto nei mesi scorsi una crescita delle pressioni su Israele. A quarant´anni esatti dalla sua folgorante vittoria nella guerra dei Sei giorni, quando s´era chiusa l´epoca dello Stato sionista come rifugio degli ebrei perseguitati e s´era aperta l´epoca della potenza militare israeliana, Israele appariva per la prima volta esposto alle spinte e sollecitazioni dei governi amici, che gli chiedevano d´imboccare – se non la strada della pace, che oggi non s´intravede – almeno quella d´un inizio di negoziato con la parte palestinese.
Ma ecco che in soccorso di Olmert, a vanificare le pressioni europee e americane, sono venuti correndo proprio i palestinesi.
Con la Striscia di Gaza ormai in preda alle convulsioni d´un avvio di guerra civile, col governo d´Unione nazionale Hamas-Fatah che potrebbe disfarsi da un giorno all´altro, gli israeliani che non vogliono sentir parlare di negoziati sono adesso in una botte di ferro. Per loro è andata bene. Ma non per chi vede il Medio Oriente avvicinarsi ancora una volta – stavolta a causa dell´insensatezza palestinese – verso l´orlo del precipizio.

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