Gli attacchi ai giornalisti occidentali nel mondo islamico ? Colpa degli Stati Uniti. Non conta che le guerre in Afghanistan e Iraq vengano dopo l'11 settembre, e l'intervento americano in Libano nel 1983 venga dopo che l'Olp aveva trasformato quel paese nel campo di addestramanto di tutti i gruppi terroristici antioccidentali.
Se gli occidentali sono odiati dai fondamentalisti islamici e dai nazionalisti arabi, dunque, è colpa loro.
Questo tesi, che sono certamente un esempio di cecità di fronte all'evidenza della natura aggressiva e indiscriminata del terrorismo fondamentalista, sono di Robert Fisk. Giornalista dell'Indipendente, quotidiano britannico anti Usa e anti Israele, i cui articoli sono sistematicamente pubblicati dall'UNITA'.
Che dovrebbe diventare uno dei giornali del Partito democratico, espressione di una sinistra rinnovata e, in teoria, lontana dai vecchi pregiudizi.
Il minimo che si può dire di fronte a un articolo come quello di Fisk, e alla quotidiana linea editoriale sul Medio Oriente è invece che all'UNITA' di pregiudizi ideologici ce ne sono ancora molti.
Ecco il testo:
Quando è che ci è venuto a mancare il fegato a noi giornalisti? Quando è tramontata l’illusione dell’immunità? Quando abbiamo accettato di indossare i giubbotti antiproiettile o le divise militari nella guerra del Golfo del 1991? In Bosnia? Nel maligno, ripetitivo uso della parola «terrorismo, terrorismo, terrorismo» nei nostri articoli? In Iraq quando ce ne stavamo nei nostri alberghi blindati protetti delle torri di controllo e dalle guardie del corpo? Quando ci siamo abituate a quelle che Martin Bell chiama le «due palme», il boschetto alla Monty Python che fa da sfondo a qualunque servizio della Bbc trasmesso dal tetto della sede di Baghdad? Come è possibile che Alan Johnston possa essere tenuto prigioniero per sei settimane - un reporter di prima classe, un giornalista innocente, onesto, rispettabile - senza che le dimostrazioni dei giornalisti che chiedono la sua liberazione abbiano alcun effetto?
Per me tutto è cominciato nel settembre del 1983 - il 6 settembre, per essere precisi - quando Terry Anderson, capo della sede della Associated Press a Beirut, e io ci trovavamo nella cittadina semi-distrutta di Bhamdoun tra le montagne del Libano centrale.
Le navi americane bombardavano i miliziani drusi e palestinesi in quanto gli americani - sì, ci risiamo - sostenevano il governo libanese di Amin Gemayel «democraticamente eletto».
Terry ed io avevamo scavalcato alberi divelti su strade coperte di bossoli di munizioni quando ci si avvicinò un palestinese armato. Era scarmigliato e con la barba lunga. Ed emanava un cattivo odore. «Da dove venite?», chiese. «Stampa», rispondemmo in coro. «Che ci fate qui?». Terry gli mostrò il tesserino libanese da giornalista. E altrettanto feci io. «America». «L'America uccide i palestinesi». Ricordo ancora l'espressione di Terry. «Giornalisti», ripetemmo ancora una volta. «Sahafa». Reporter.
A questo punto al primo uomo si erano aggiunti altri uomini armati uno dei quali vestito di nero si rivolse a Terry: «L'America uccide i musulmani. Perché volete uccidere i musulmani? Sei una spia?». Non ero mai stato trattato così prima di allora. Qualcosa non era andato per il verso giusto. Per decenni avevamo viaggiato in tutto il Medio Oriente con il nostro tesserino da giornalisti gridando «sahafa» a ogni posto di blocco e sempre ci avevano fatto segno di passare, magari mugugnando, ma sempre accettando il fatto che facevamo il nostro lavoro, che non lavoravamo per i governi, che eravamo giusti, imparziali, coperti dall'immunità.
Ebbene quel tacito patto si era rotto. Non eravamo più giornalisti. Eravamo stranieri, «ajnabi» in arabo. Alla fine a salvarci fu un giovane palestinese che disse che eravamo giornalisti che facevamo il nostro mestiere pericoloso e che dovevamo essere protetti. Gli altri uomini armati rimasero impassibili e ci fissarono con aria diffidente mentre ce ne andavamo.
Nel giro di sei settimane gli attentatori suicidi avrebbero ucciso 241 soldati americani nella caserma dei Marines a Beirut e nel giro di meno di 18 mesi Terry sarebbe stato rapito e trattenuto come ostaggio - fate bene mente locale mentre entriamo pazientemente nella settima settimana del rapimento di Alan Johnston - per quasi sette anni.
È facile prendercela con noi stessi. I nostri vantaggiosi rapporti con le ambasciate straniere hanno portato i nemici dei nostri paesi a pensare che eravamo agenti segreti. Aver indossato la divisa militare nel 1991 è stato un atto di follia. I famigerati «pool» di giornalisti - sostituiti ora dagli altrettanto famigerati giornalisti «al seguito» (come abbiamo finito per accettare queste scandalose parole?) - non ci hanno fatto del bene. Ma ora noi giornalisti siamo chiaramente in prima linea.
Sebbene detesti il modo in cui i ragazzetti e le ragazzette della televisione si addobbano con i giubbotti militari antiproiettile per andare in onda - avete notato come i loro accoliti impediscono a chiunque non sia mascherato da guerriero di passare davanti alle telecamere in queste occasioni per evitare che il telespettatore si chieda per quale motivo il giornalista è vestito in quello strano modo? - devo ammettere che ora siamo noi i bersagli.
Eravamo bersagli - e deliberatamente - a Sarajevo. I militari americani ci hanno sparato. La vergognosa risposta americana alla morte dei giornalisti britannici fuori Bassora nel 2003 dimostra con quanta indifferenza i «nostri» trattino ora la nostra vita. Quando un cameraman della Reuters è stato ucciso dai soldati americani ad Abu Ghraib, i soldati coinvolti in quella brutta storia hanno mentito. Il cameraman era un palestinese.
La nostra professione è sempre più isolata, rinchiusa, confinata. E ai «nostri» va bene così. Né gli americani né i britannici vogliono che ce ne andiamo liberi e senza controllo in giro per l'Iraq a scoprire le bugie dei nostri governi, a portare alla luce le malefatte dell'aviazione americana in Iraq o in Afghanistan.
Così stanno le cose. Non possiamo muoverci in Iraq per paura di essere massacrati dai nemici dei nostri paesi. Non possiamo muoverci nel sud dell'Afghanistan. I giornalisti italiani possono essere riscattati dai loro governi. I giornalisti afgani - penso all'interprete/giornalista dell'italiano sequestrato - finiscono puramente e semplicemente con la testa mozzata. Il giornalismo non è mai stato così limitato e circoscritto da simili orrori. Mai prima d'ora siamo stati informati così poco e così male.
Suppongo si possa dire che le cose non erano molto diverse durante la seconda guerra mondiale. Anche allora indossavamo la divisa dell'esercito. Richard Dimbleby prese parte all'incursione della Raf su Amburgo. («Tutto quello che riesco a vedere dinanzi a me è una grande palla di luce»). I giornalisti della Germania nazista andavano in guerra con la Wehrmacht e la Luftwaffe. E noi non passavamo il tempo a lamentarci dell'obiettività.
Quando un corrispondente della Associated Press fu sganciato con le truppe americane dietro le linee nemiche, i tedeschi lo giustiziarono insieme agli altri prigionieri. Perché dovremmo aspettarci oggi un trattamento diverso?
Beh, una ragione è che questa non è la seconda guerra mondiale. E non è nemmeno - ne prenda nota per cortesia Tony Blair - la terza guerra mondiale. Stiamo illegalmente combattendo delle guerre in Medio Oriente sostenendo una occupazione e - attraverso l'appoggio insensato ai governi più discutibili - stiamo uccidendo decine di migliaia di innocenti.
Come giornalisti possiamo opporci a tutto questo. Possiamo alzare la voce contro queste grandi ingiustizie. Ma solo se siamo liberi. Ovviamente aggiungo la mia voce a quella di quanti chiedono la liberazione di Alan Johnston. La sua detenzione in mano ai sequestratori è un disastro per i palestinesi e per tutti gli arabi del Medio Oriente. E fin tanto che sarà in mano ai suoi sequestratori come possiamo scrivere delle atrocità dell'Iraq, dell'Afghanistan e di Gaza?
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