Disastro ecologico a Gaza ? Israele si prenda la sua parte di liquami
ma non sarebbe meglio se, invece di comprare armi, i palestinesi costruissero le fogne ?
Testata:
Data: 04/04/2007
Pagina: 7
Autore: Paola Caridi
Titolo: Gaza a un passo dal disastro ecologico Un villaggio beduino travolto dai liquami
Un villaggio beduino travolto dai liquami, fognature che non funzionano, Gaza a un passo dal disastro ecologico.
E come al solito, la soluzione dei problemi dei palestinesi deve venire dall'esterno. L'Unione europea deve mandare denaro, Israele deve stipulare un accordo per prendersi la sua parte di liquami.
 Paola Caridi, autrice dell'articolo sulla tragedia del villaggio di Umm Nasser, travolto dai liquami,  non è nemmeno sfiorata dal dubbio che il denaro speso in armi, tunnel e razzi kassam potesse essere più proficuamente impiegato per impianti fognari decenti, che non mettano a rischio palestinesi e israeliani.
A questo link un articolo di corretta informazione sulla vicenda

Ecco il testo della Caridi:

Gerusalemme. Non era la prima volta che attorno a Beit Lahya, a nord della Striscia di Gaza, si erano verificate perdite dalle vasche di contenimento delle acque reflue. Nessuno - per fortuna - ci aveva rimesso la vita, ma i segnali d’avvertimento erano stati talmente chiari che tutti sapevano che nei dintorni della cittadina di 50mila abitanti, si era sull’orlo del disastro, ambientale e umano. Quel “tutti” significa realmente tutti: i politici, i funzionari dell’Anp, le autorità politiche e militari israeliane, le organizzazioni internazionali e le ong. Quando, il 27 marzo scorso, il villaggio beduino di Umm an-Nasser è stato quasi completamente travolto dai liquami, la definizione più calzante è stata quella di «tragedia annunciata». D’altro canto, fin dalla sua nascita come una zona di ridislocamento di famiglie beduine, circa dieci anni fa, si sapeva che il problema di Umm an-Nasser era la sua estrema vicinanza all’impianto per il trattamento delle acque reflue. Un impianto nato nel 1979, dietro autorizzazione delle autorità militari israeliane che occupavano Gaza, costruito per un bacino di utenza di 50mila persone, e ampliato all’inizio degli anni Novanta perché gli abitanti, in quella zona della Striscia, erano aumentati.
Nonostante gli interventi, però, quella che è una gigantesca struttura di contenimento dei liquami, costruita senza regole di sicurezza, continua a essere un pericolo: le 50mila persone sono ora diventate 200mila, secondo i dati delle agenzie dell’Onu, perché accanto a Beit Lahya si è sviluppato l’enorme campo profughi di Jabalia. E in quello che è il fatiscente lago di liquami di Beit Lahya, circondato da un surreale argine di sabbia, il livello tra le vasche di contenimento e quelle di trattamento delle acque è quasi sempre pari, tanto da aver costretto le autorità a costruire un’altra vasca più piccola. Ventimila metri cubi d’acqua, per dare - per così dire - un po’ di respiro all’impianto “madre”, al grande lago. La vasca di riserva, però, è collassata completamente, inondando Umm an-Nasser al 70%. Sei i morti, una ventina i feriti, cento piccole case (fatiscenti, perché il villaggio è poverissimo) distrutte, 250 danneggiate, le famiglie ridislocate per l’ennesima volta in tende offerte dal sistema Nazioni Unite e dalle ong. Il disastro di Umm an-Nasser - previsto per esempio con dovizia di particolari da un rapporto dell’ong palestinese Al Mezan del 2003 - può essere però solo un piccolo assaggio della catastrofe prossima ventura. Perché a rischio, e non da ora o dal 27 marzo, sono i 50mila abitanti di Beit Lahya, assurti all’onore delle cronache del conflitto israelo-palestinese per i cannoneggiamenti e i raid israeliani, da un lato, e dall’altro per i lanci di razzi Qassam da quell’area in direzione delle città israeliane. La minaccia è talmente risaputa e imminente che si sta cercando di rattoppare la situazione nel più breve tempo possibile. Il dipartimento aiuti umanitari della commissione europea, per esempio, ha già stanziato 600mila euro per lavori di consolidamento dei terrapieni attorno all’enorme lago delle acque reflue di Beit Lahya. Si tratta, però, solo di provvedimenti tampone. Il nodo del problema non è il trattamento delle acque di scolo. È l’intera gestione delle fognature (che non servono, peraltro, neanche tutto il milione e 400mila abitanti della Striscia di Gaza, il posto più densamente popolato al mondo, e isolato dal resto del pianeta). Il che vuol dire, senza quel sostegno di accordi col vicino (Israele), visto che il disimpegno da Gaza è stato unilaterale. Se, insomma, si dovesse decidere di unire il bacino delle acque reflue di Beit Lahya al mare attraverso un sistema di condutture - come sempre osteggiato da Israele - l’intera questione riguarderebbe anche Tel Aviv: l’inquinamento dell’acqua di mare colpirebbe anche, tanto per fare l’esempio più semplice, l’impianto di desalinizzazione israeliano di Ashkelon, il più grande al mondo nel suo genere, appena al di là della frontiera settentrionale di Gaza. Il disastro di Umm an-Nasser e quello annunciato di Beit Lahya, dunque, vanno oltre la questione meramente tecnica. Esemplificano come i palestinesi di Gaza vivano quotidianamente in condizioni impossibili, sul piano sanitario, alimentare, sociale. E, in più, arrivano al nodo politico delle soluzioni condivise da israeliani e palestinesi. Che riguardano i liquami, in questo caso. Ma non solo.

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