Di seguito un intervista con Mamoun Fandy, editorialista del quotidiano saudita Asharq al Awsat, che in un importante articolo ha chiesto l'abbandono della richiesta del "diritto al ritorno".
Ecco il testo:
Londra. “Il diritto di ritorno dei palestinesi in Israele è un ostacolo per il processo di pace, promosso dal Re Abdullah”, commenta con il Foglio Mamoun Fandy, editorialista del quotidiano saudita Asharq al Awsat ed anche ex direttore del medesimo nella redazione di Washington. “Chiunque voglia una pace seria con lo stato ebraico – sostiene Fandy, che ha incontrato in più occasioni il sovrano Abdullah, ma che non “osa” definirsi vicino al sovrano – deve offrire condizioni che possano essere accettate”. Per l’editorialista egiziano, infatti, la richiesta del diritto di ritorno rende l’iniziativa “vuota di contenuti”. “Non possiamo chiedere a Israele di trasformare il proprio paese in uno stato palestinese. Dobbiamo promuovere due stati per due popoli e non due stati per un popolo soltanto”. Fandy, direttore anche dell’Institute for Stategic Studies per il medio oriente, ha esposto le sue preoccupazioni sugli ostacoli all’iniziativa di pace anche su Asharq al Awsat, il quotidiano in lingua araba più diffuso al mondo, vicinissimo alla famiglia reale. Il giornale saudita ha pubblicato l’articolo di Fandy senza censure e senza porre tabù. “Il re Abdullah accetta le critiche costruttive – spiega l’editorialista – ho parlato più volte con lui e ha sempre dimostrato di essere onesto nel suo ruolo di mediatore. Il sovrano è determinato a trovare una soluzione per questo conflitto, che sta durando da troppo tempo”. Fandy, infatti, spiega che nella prima iniziativa di pace del 2002, il diritto di ritorno dei palestinesi “non appariva come una prerogativa”. La richiesta fu aggiunta successivamente, durante quel summit di Beirut del marzo del 2002, al quale fu presentata per la prima volta la proposta saudita. “Furono i siriani e l’allora leadership palestinese, che non volevano trovare un accordo di pace con Israele – spiega Fandy – a richiedere l’inserimento del diritto di ritorno tra i punti fondamentali”. Secondo l’analista di Asharq al Awsat, infatti, esiste nei governi arabi una tendenza a seminare ostacoli nello sviluppo della regione. “Il diritto di ritorno dovrebbe essere posto come una richiesta negoziabile – sostiene Fandy – non come un punto irremovibile. O gli israeliani non potranno mai sedersi al tavolo dei negoziati con noi”. Altrimenti, “l’offerta manca di realismo”. “Dobbiamo tenere in considerazione le preoccupazioni degli israeliani – dice ancora Fandy – se vogliamo iniziare un dialogo costruttivo. E’ tempo di offerte coraggiose”. L’editorialista egiziano è critico con il pacchetto offerto a Israele. Ma sostiene anche che il summit di Riad è stato la prima conferenza “matura” organizzata da leader arabi. “La delegazione irachena e di altri paesi della regione – spiega – per la prima volta hanno esposto non soltanto i propri successi, ma anche i loro problemi. Di solito nei summit i leader arabi dicono che va sempre tutto bene, nascondendo la verità”. E invece ieri il presidente iracheno, Jalal Talabani,ha detto in piena conferenza che le violenze nel suo paese sono state causate anche dai governi presenti in sala. “Al summit di Riad ho sentito un nuovo modo di parlare, ormai gli eventi sono trasmessi in diretta. I capi di stato non possono più permettersi di essere retorici e di ingannare il popolo”. Inoltre, la crescente minaccia del nucleare iraniano ha reso necessario un cambiamento nella “sostanza e nei toni” dei leader arabi. Per Fandy, però, questo summit è soprattutto importante per il suo “dietro le quinte”. L’Arabia Saudita, infatti, sta continuando a lavorare alle sue alleanze nel mondo arabo in funzione anti Iran. “Il re Abdullah si è incontrato con il presidente siriano, Bashar el Assad, ci saranno quindi nuove sorprese nelle relazioni fra Siria e Arabia Saudita”. L’iniziativa araba si sta trasformando “nell’unica valida alternativa” alla Road Map. “L’importante è che il summit non si pieghi alla ‘lobby degli ostacoli’, continuando a imporre richieste inaccettabili”.
Dal GIORNALE, un articolo di Gian Micalessin:
La Lega Araba ha deciso di non decidere. La due giorni di Riad attesa come la svolta cruciale per uno storico negoziato con Israele si è infilata nel solito vicolo cieco. I capi arabi hanno deciso di ignorare l’offerta di negoziati diretti arrivata del premier israeliano Ehud Olmert accontentandosi di approvare lo stesso piano di pace saudita già adottato nel 2002.
La proposta, interessante perché propone un riconoscimento dello Stato ebraico da parte di tutte le nazioni arabe in cambio di uno Stato palestinese sui confini del ’67, non ha, nella forma attuale, nessuna possibilità di decollare.
La Lega Araba non ha infatti introdotto il minimo accenno ad aperture o negoziati per modificare le parti del piano basate sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi in Israele e sull’immutabilità dei confini del ’67.
La Lega non sembra disposta, dunque, a rendere più appetibili le parti già definite inaccettabili da Israele e Washington. Le ambiguità del summit non finiscono qua. Il punto della dichiarazione finale che sottolinea il rischio di una proliferazione nucleare, ma ribadisce il legittimo diritto all’energia atomica per ogni nazione è un altro capolavoro d’ipocrisia.
Preoccupati della corsa al nucleare di Teheran e dell’egemonia politico militare iraniana sulla regione i capi arabi rivendicano il diritto a intraprendere la corsa atomica, ma negano di volerlo fare per scopi militari. Decisi a imitare il nemico israeliano e l’avversario iraniano i capi arabi, sauditi ed egiziani in testa, scalpitano per aprire laboratori di arricchimento dell’uranio, ma ribadiscono di voler inseguire solo scopi civili e pacifici. La proliferazione riguarda, insomma, solo le già esistenti armi atomiche israeliane e quelle futuribili della Repubblica islamica.
L’ultima speranza per chi a Riad si attendeva svolte epocali sono gli accordi segreti. Archiviata l’idea di delegare le trattative con Israele a un comitato di Paesi moderati formato da Arabia Saudita, Egitto, Giordania ed Emirati la Lega potrebbe surrettiziamente mantener viva l’idea. Si tratterebbe però delle consuete trattative segrete già dimostratesi inadatte a ottenere risultati. Resterebbe irrisolto inoltre il problema della Siria decisa a non riconoscere lo Stato ebraico in mancanza di un accordo sulle alture del Golan.
In questo clima il summit si è concluso in un crescendo di accuse utili per garantire la compattezza dei Paesi arabi e per trasmettere un messaggio gradito a delle opinioni pubbliche sempre più anti-americane e anti-israeliane. «Continuando a ignorare le più realistiche offerte di pace Israele sottopone non solo se stesso, ma l’intera regione al rischio di ripercussioni imprevedibili» ha avvertito il ministro degli Esteri saudita Saud El Feisal.
Il presidente palestinese, pur ribadendo il rischio di un’impennata della violenza in casi di rifiuto israeliano, è stato l’unico ad accennare alla trattativa: «Speriamo che il summit porti – ha detto Abbas - alla formazione di un comitato guidato dalla monarchia saudita per permettere l’applicazione dell’iniziativa araba». Una speranza condivisa dal vice premier israeliano Shimon Peres che ha rinnovato la disponibilità israeliana a una trattativa diretta.
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