L' UNITA' del 24 marzo 2007 pubblica un'intervista di Umberto De Giovannangeli all'ambasciatore israeliano in Italia, Gideon Meir.
Il giornale dei DS sottolinea con la sua titolazione i passaggi nei quali Meir afferma che nonostante i dissensi con il governo italiano esiste un dialogo proficuo.
Noi richiamiamo l'attenzione sulle chiare parole di Meir riguardo al governo palestinese, ad Hamas e all'apertura all'organizzazione terroristica del sottosegretario Craxi.
Ecco il testo:
«Il confronto è fruttuoso e sincero anche se a volte non si è d’accordo. Ma questo è normale». Il nuovo ambasciatore israeliano, Ghideon Meir concede a l’Unità la sua prima intervista in Italia. Parla a tutto campo del «dialogo ottimo» col governo di Romano Prodi e Massimo D’Alema, dell’apprezzamento del presidente Giorgio Napolitano e della situazione del Medio Oriente. «Nell’accordo Hamas-Fatah - spiega - non si parla né di pace, né di Israele. Ma Abu Mazen per noi resta un interlocutore». Su Hamas invece usa parole molto dure: «Non si fanno scrupolo di usare dei bambini per propagandare il terrorismo».
IL NUOVO AMBASCIATORE israeliano esprime apprezzamento per l’impegno del nostro Paese in Libano. Critica l’ultima uscita «pro-Hamas» del sottosegretario Vittorio Craxi. Giudica negativamente il nuovo governo di unità nazionale palestinese ma offre una riapertura di credito verso il presidente Abu Mazen
Il rapporto con il governo di Romano Prodi e Massimo D’Alema; l’apprezzamento per il Capo dello Stato Giorgio Napolitano e per l’impegno dell’Italia in Libano, le critiche severe all’ultima uscita «pro-Hamas» del sottosegretario agli Esteri Vittorio Craxi. E ancora: il giudizio (fortemente negativo) sul nuovo governo di unità nazionale palestinese e, al contempo, una riapertura di credito verso il presidente dell’Anp Mahmud Abbas («resta il nostro unico interlocutore»). È un’intervista a tutto campo, la prima a un giornale italiano, quella che Ghideon Meir concede a l’Unità.
Ambasciatore Meir, c’è chi sostiene che i rapporti tra Israele e il governo italiano di centrosinistra non godano di buone salute.
«Non sono di questo avviso e non perché sia obbligato a sostenerlo per il ruolo che ricopro. Dal primo momento che sono arrivato in Italia ho avuto un ottimo dialogo con tutto il governo italiano, con il premier Prodi, con il ministro degli Esteri D’Alema, con molti altri ministri che ho incontrato. Il dialogo è fruttuoso, è sincero, a volte non si è d’accordo ma questo è normale».
Un dialogo sincero è quello che porta ad affrontare di petto questioni cruciali, come, ad esempio, il giudizio sul nuovo governo di unità nazionale palestinese.
«Cinque anni fa è stata presentata al mondo la Road Map. Questo “tracciato di pace” non è un programma israeliano, è un programma del Quartetto (Usa, Ue, Onu, Russia, ndr.). In Israele c’è stato un dibattito molto acceso, duro, se accettare o no la Road Map. Alla fine il governo israeliano, proprio perché desidera la pace, ha deciso di accettare la Road Map. Bisogna ricordare che questo è avvenuto in un anno in cui sono stati uccisi quasi 600 israeliani dal terrorismo; nel solo mese precedente la presentazione della Road Map sono stati uccisi 130 israeliani, nella quasi totalità civili inermi. Nonostante questo, Israele ha accettato la Road Map. Il problema è un altro...».
Quale, ambasciatore Meir?
«Appena i palestinesi devono realizzare una parte della Road Map, tutto si blocca. Mi riferisco in particolare alla lotta al terrorismo nella quale i palestinesi non si sono minimamente impegnati. La Comunità internazionale vede che i palestinesi hanno un problema e invece di agire con la necessaria determinazione sulla dirigenza palestinese, ecco che immediatamente la pressione ricade su Israele. Questa è un’anomalia. Per noi, la Road Map è ancora valida, è l’unico documento rilevante...E poi...».
E poi cos’atro?
«E poi c’è Hamas. Un’organizzazione terroristica, che si trova anche nella lista delle organizzazioni terroristiche stilata dalla Ue; un’organizzazione che non si fa scrupolo di utilizzare dei bambini, per fare propaganda alle proprie azioni terroristiche: ogni persona civile dovrebbe inorridire e capire di cosa sia capace questo movimento terrorista, di fronte all’agghiacciante “intervista” mandata in onda dalla Tv di Hamas a due bambini di pochi anni, figli di una kamikaze che si fece saltare in aria provocando la morte di cinque israeliani. Hamas è un’organizzazione che nel 2006 ha vinto le elezioni nei Territori e questo è un nuovo problema, perché abbiamo a che fare con un governo con cui non si può parlare. Israele non parla con le organizzazioni terroristiche..».
Un giudizio che resta inalterato anche alla luce dell’accordo raggiunto alla Mecca tra Abu Mazen e il leader in esilio di Hamas Khaled Meshaal?
«La Mecca è un luogo sacro per i musulmani, ma l’accordo che lì è stato firmato non è certo un accordo “sacro”. L’accordo tra Hamas e Al-Fatah è stato fatto soltanto per fermare lo spargimento di sangue tra palestinesi. La parola pace non appare neanche una volta nell’accordo, così come la parola Israele. Israele non viene minimamente considerato in quell’accordo che è alla base della formazione del nuovo governo palestinese. Anche nel programma del governo di unità nazionale la parola Israele non compare mai. La parola pace non appare neanche una volta. Quello che invece appare è la parola resistenza. Resistenza sotto ogni forma, e questo significa una cosa sola: terrorismo. Nel programma di questo governo vi sono tre punti per noi inaccettabili: il diritto alla resistenza, ovvero terrorismo, non solo come organizzazioni ma anche come governo; il diritto al ritorno, un diritto - che noi contestiamo - che se applicato significherebbe la distruzione di Israele come Stato ebraico; il fatto che questo programma e il governo che ne è derivato, legano le mani ad Abu Mazen. Il programma di governo stabilisce che ogni accordo sottoscritto dall’Olp e quelli che potrebbe raggiungere con Israele devono essere sottoposti all’approvazione, attraverso referendum, non solo dei palestinesi dei Territori ma anche di quelli della diaspora. In altre parole, tutte le richieste di Meshaal - che risiede a Damasco - sono state accettate. In pratica Abu Mazen e Al-Fatah, si sono ridotti ad essere la facciata esterna, quella presentabile, di Hamas».
Ma il presidente Abu Mazen resta un interlocutore di Israele?
«Abu Mazen è l’unico interlocutore per noi, non ne esistono altri. Lui desidera veramente la pace e quindi Israele continuerà ad avere rapporti con il presidente dell’Anp, a partire dalle questioni della sicurezza e delle condizioni di vita della popolazione civile palestinese. Con la stessa nettezza, le dico che per noi è impossibile parlare con questo governo palestinese, né riteniamo che si debba fare una distinzione tra ministri di Hamas e gli altri, perché tutti hanno sottoscritto la stessa piattaforma di governo. Vorrei in proposito ricordare che gli accordi di Oslo (1993, ndr.) furono preceduti dal riconoscimento di Israele da parte dell’Olp. Chiunque sostenga che vi possa essere un riconoscimento implicito di Israele o non conosce la storia dei rapporti tra Israele e l’Olp oppure è disposto a rinunciare alla soluzione di due Stati, due popoli».
Un tema molto delicato è quello dei rapporti tra Israele ed Europa. L’impegno assunto l’altra estate dall’Europa, con l’Italia in prima fila, in Libano con la missione Unifil, ha modificato il giudizio di Israele?
«Fino a tre anni fa i rapporti politici tra Israele e l’Europa non erano molto buoni. L’Europa era sbilanciata verso la parte palestinese e per questo era meno capace di svolgere un ruolo di moderatore credibile, super partes. Un cambiamento drastico in questi rapporti lo si è avuto dopo il ritiro unilaterale di Israele da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia. Qualcosa di importante è mutato sia nella leadership israeliana, in particolare in Ariel Sharon (allora primo ministro, ndr.) sia in quella europea. C’è stata una comprensione reciproca e da lì è iniziato un dialogo molto fruttuoso. Il risultato più evidente di ciò è che per la prima volta Israele ha accettato ai propri confini delle forze internazionali guidate dall’Europa e, soprattutto, dall’Italia. Per quanto ci riguarda riteniamo molto importante il fatto che l’Italia abbia accettato di guidare queste forze internazionali. Un fatto che l’opinione pubblica israeliana apprezza moltissimo. Ora si tratta però di applicare totalmente la risoluzione 1701 dell’Onu (quella che ha posto fine alla guerra dei 34 giorni in Libano): restare a metà del guado sarebbe esiziale, per tutti. Negli ultimi tempi, l’atteggiamento dell’opinione pubblica israeliana è di nuovo cambiato e non so se la stessa cosa è avvenuta in Europa. Di certo, un ruolo decisivo nella costruzione del senso comune dell’opinione pubblica europea verso Israele lo hanno i mass media, e in troppe circostanze questo ruolo purtroppo non è stato positivo».
Ambasciatore Meir, vorrei tornare all’Italia, e in particolare all’opinione pubblica di sinistra. Quale impressione ha potuto ricavare in questi mesi e quale messaggio si sente di lanciare dalle pagine de L’Unità?
«Da quando sono arrivato in Italia ho intessuto un dialogo molto onesto e aperto con la sinistra italiana, per forza di cose - sono solo 4 mesi che sono qui - soprattutto con i leader politici della sinistra. Proprio nella sinistra italiana vedo un cambiamento sostanziale nella comprensione di quello che avviene, il che naturalmente non azzera le critiche. Ritengo che parte del cambiamento intervenuto nella sinistra italiana derivi dalla comprensione che Israele è uno Stato democratico in cui esiste un dibattito, come in Italia. I mass media in Israele sono persino più critici di quanto lo siano quelli italiani. Penso anche a scrittori molto amati qui in Italia, come Amos Oz, Abraham Bet Yehoshua, David Grossman, che spesso hanno posizioni molto critiche verso l’operato del governo israeliano, ma l’importante è che in Italia, e nella sinistra stessa, non si identifichi l’intero Israele con le posizioni di Oz, Grossman, Yehoshua; posizioni rispettabilissime ma che non si identificano con quelle della maggioranza degli israeliani. E anche queste posizioni meritano rispetto e ascolto. La sinistra più consapevole avverte tutto questo, riconosce il pluralismo di posizioni che caratterizza una società democratica come quella israeliana, e ciò è incoraggiante. L’importante è non usare posizioni autorevoli ma minoritarie in Israele per giustificare le proprie posizioni».
Nel rapporto con la sinistra italiana, qual è la personalità che più l’ha colpita?
«Giorgio Napolitano. Penso che ciò che il Presidente ha detto il 27 gennaio ha avuto una importanza enorme, non ho parole per poter definire quanto siano state importanti le sue affermazioni. E non solo perché quelle parole di condanna dell’antisionismo che spesso tende a celare posizioni antisemite, sono venute dal Capo dello Stato italiano, ma per l’autorità morale di Napolitano, e per il suo percorso politico di dirigente della sinistra italiana».
Il Capo dello Stato, e come lui i leader della sinistra italiana, ha condannato duramente le minacce lanciate contro Israele dal presidente iraniano Ahmadinejad.
«Israele prende sul serio l’opzione diplomatica, solo che quando chiediamo atti conseguenti, abbiamo la sensazione che non tutti ci seguano su questa strada. E che a volte a prevalere siano altri interessi,quelli economici, che influenzano, condizionandola pesantemente, l’azione diplomatica; un’azione che per essere davvero incisiva non può fare a meno dello strumento delle sanzioni contro l’Iran. Non dobbiamo dimenticare che siamo alle prese con il capo di uno Stato che sta realizzando un piano di riarmo nucleare, che invoca la distruzione dello Stato d’Israele, che dice chiaramente quello che pensa. Quella di Ahmadinejad non è propaganda, è molto di più e di più grave. E a questo proposito vorrei dire qualcosa al sottosegretario Craxi...».
Si riferisce alla sua telefonata al premier Haniyeh (Hamas)? Il sottosegretario ha affermato che in definitiva ha telefonato a un primo ministro palestinese e non a un capo di Al Qaeda.
«Al signor Craxi vorrei dire che Al Qaeda non è una organizzazione avulsa da tutta la Jihad mondiale. Non si può fare una vera distinzione tra Al Qaeda, l’Iran, Hezbollah, Hamas...Hanno tutti un unico fine: combattere contro i valori occidentali. Capisco che per Craxi uccidere israeliani non è come uccidere arabi. Per lui evidentemente c’è differenza fra sangue e sangue».
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