sono in gioco vitali interessi europei: l'analisi di Emanuele Ottolenghi
Testata: Data: 09/03/2007 Pagina: 0 Autore: Emanule Ottolenghi Titolo: Tutte le minacce della bomba “sciita”
Dal RIFORMISTA dell'8 marzo 2007, un articolo di Emanuele Ottolenghi:
Bruxelles. Con la scadenza del 22 febbraio ormai passata e il rapporto incriminante dell’Iaea sull’inadempienza iraniana, la comunità internazionale si trova ora a discutere un nuovo round di sanzioni contro Teheran. Il linguaggio europeo in tema d’Iran sta divenendo sempre più duro. Non solo poche settimane fa un documento interno proveniente dall’ufficio di Javier Solana indicava come la diplomazia europea fosse pessimista sulla disponibilità iraniana a negoziare un’interruzione del programma di arricchimento dell’uranio. Il giudizio emerso da quel documento - secondo il quale le ambizioni nucleari iraniane finora sarebbero state frustrate più da difficoltà tecniche che da ripensamenti - spiega l’irrigidimento europeo nei confronti di Teheran e la disponibilità, emersa in ulteriori discussioni tenutesi a Bruxelles, di ampliare il regime di sanzioni. Che l’Europa alzi la voce con Teheran sorprenderà forse coloro che si ostinano a leggere la sfida del nucleare iraniano attraverso il prisma della presenza americana in Iraq o della retorica incendiaria del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, contro Israele. Ma la realtà è ben diversa: l’acquisizione di un arsenale nucleare (o degli strumenti tecnologici per crearlo) da parte dell’Iran minaccia direttamente gli interessi vitali dell’Europa per almeno quattro ragioni, che nulla hanno a che fare con Iraq o Israele. Primo, l’ombra dell’atomica iraniana si estenderebbe su due regioni centrali all’economia europea e globale - il Golfo Persico e il bacino del Caspio - mettendo a rischio la stabilità di entrambi e il flusso di risorse energetiche a prezzi sostenibili per l’economia mondiale. Secondo, la bomba “sciita” destabilizzerebbe tutte le monarchie del Golfo che hanno delle nutrite minoranze sciite generalmente discriminate, prive di accesso alle risorse petrolifere spesso situate - come nel caso dell’Arabia Saudita - nelle regioni dove essi risiedono, e tenute lontane dai gangli del potere. Un sostegno iraniano potrebbe alterare in maniera fatale l’equilibrio di potere interno a queste monarchie, travolgere il delicato equilibrio regionale e colpire preziosi alleati occidentali. Terzo, la bomba iraniana - i segnali sono già evidenti nella dichiarazione di sei paesi arabi di voler iniziare un loro programma nucleare - porterebbe con ogni probabilità a una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente e a una proliferazione nucleare nella regione da cui dipende per le sue risorse energetiche l’economia globale. Con un elemento inquietante che nemmeno la fase più acuta della guerra fredda contemplava: il principio della distruzione reciproca assicurata (Mad in inglese, ovvero mutually assured destruction, significa anche folle), che solo a posteriori possiamo dire funzionò ma che di sicuro era una base molto fragile per scongiurare l’inverno nucleare (come la crisi dei missili di Cuba insegna), nel caso mediorientale sarebbe molto più complicato a causa del fatto che ci si troverebbe in presenza di varie potenze nucleari, non due superpotenze, con distanze geografiche limitatissime, e con un tipo di calcolo di costi e benefici molto diverso dalla logica occidentale, cui pure i sovietici in fondo sottostavano. E quarto, di fronte a una proliferazione nucleare mediorientale che coinvolgerebbe con tutta probabilità anche la Turchia, si verificherebbe con tutta probabilità un processo simile anche in Europa - in fase anti-iraniana ma anche, forse almeno per paesi come la Grecia e la Germania, antiturca. La proliferazione nucleare in Europa, evitata durante i quarant’anni di guerra fredda, accadrebbe ora come conseguenza di un progetto nucleare di un paese, quale l’Iran, con limiti ben più grandi dell’Unione Sovietica. Il fatto dunque che l’Europa stia alzando la voce e il tiro contro l’Iran è positivo. Ma nonostante la nuova disponibilità europea a muoversi in maniera più aggressiva nei confronti di Teheran non si possono sottovalutare le sfide, che riguardano l’Italia in particolare. L’Italia è il primo partner commerciale di Teheran. Per l’Europa Teheran occupa il ventiquattresimo posto nella graduatoria dei partner commerciali, ma per paesi come Germania, Francia e Italia si tratta di volumi di scambio importanti, da cui dipendono molti posti di lavoro - 10.000 soltanto in Germania. Gli interessi geostrategici - oltre all’importanza di difendere il diritto internazionale dalle violazioni iraniane - sono forti e genuini, ma anche gli interessi economici prima o poi diventeranno un fattore determinante nella nostra politica nei confronti di Teheran. Si potrebbe ragionare che nel lungo termine il ritiro di investimenti europei dall’Iran - una volta che il regime fosse tornato a miti consigli - produrrebbe importanti rendite. Ma nel breve termine non c’è dubbio che contratti redditizi andrebbero perduti. L’Europa ha il 35 percento del market share iraniano e il 44 percento delle importazioni in Iran provengono dall’Europa. E non si tratta solo di pistacchi e tappeti - gli unici due prodotti iraniani che gli Stati Uniti importano - ma di macchine industriali e da trasporto (66,6 percento), manifattura (10,3 percento) e prodotti chimici (9,6 percento), oltre che ferro, acciaio e forniture per la produzione di elettricità. Molti soldi insomma. L’altro lato della medaglia è naturalmente la nostra dipendenza energetica - l’80 percento dell’export iraniano in Europa è costituito da idrocarburi, il che fa dell’Iran il sesto fornitore d’energia in Europa. Appellarsi agli interessi geostrategici è naturale - e importante, perché l’interesse nazionale non può essere ignorato in nome di contratti e prebende, per quanto redditizi. Ma occorre anche pensare a come gestire il costo di un nuovo round di sanzioni economiche. Se l’Europa e gli Stati Uniti riusciranno a persuadere Cina e Russia a espandere il regime di sanzioni, sarà l’Europa a pagare il prezzo economico maggiore - almeno nel breve termine - e sarà in Europa, non negli Stati Uniti, che si sentiranno i maggiori malumori in merito. Occorre che l’alleanza transatlantica inizi a dialogare rapidamente su misure economiche di compensazione che possano aiutare i settori economici più a rischio a controbilanciare l’effetto delle possibili sanzioni. Una miscela di sussidi e agevolazioni economiche va studiata ora per convincere anche quei settori produttivi in Europa che, guidati dall’interesse economico, tendono a minimizzare i rischi politici di un Iran nucleare, a non opporsi a un regime di sanzioni più duro. I segnali provenienti da Teheran, dopo solo tre mesi di sanzioni, sono incoraggianti. Il regime sta soffrendo più del previsto e un altro giro di vite non potrà essere che salutare. Né l’alternativa - un attacco militare - è al momento migliore come strumento di pressione. Ma il rischio di opposizione a nuove sanzioni esiste ed è reale in Europa e se non si riuscisse ad andare oltre le limitate misure introdotte dalla risoluzione 1737 l’opzione militare potrebbe riguadagnare credito - e non solo a Washington. Occorre dunque che Unione Europea e Stati Uniti, nel coordinare nuove misure punitive, considerino come tenere dalla loro parte quegli interessi economici a maggior rischio di subir perdite da nuove sanzioni.
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