Grande, grandissima Cynthia Ozick
un'intellettuale non conformista che difende Israele e rifiuta le giustificazioni del terrorismo
Testata: Corriere della Sera
Data: 09/03/2007
Pagina: 55
Autore: Cynthia Ozick
Titolo: Ozick: io accuso
Dal CORRIERE della SERA del 9 marzo 2007:

NEW YORK — Cynthia Ozick non ci sta. « The Din in the Head («Il frastuono nella testa», ndr) non parla affatto della morte del grande romanzo americano, come ha scritto erroneamente il New York Times nella sua malvagia recensione». Alternando citazioni di Henry James, di cui è tra i massimi studiosi viventi, a ricordi personali di Isaac B. Singer, Saul Bellow e Philip Roth, l'autrice, edita in Italia da Feltrinelli e Garzanti, spiega al Corriere
di voler «mettere i puntini sulle i». «Il mio ultimo libro è una collezione di saggi in difesa del romanzo, non contro. Parlo di scrittori le cui strade si sono incrociate con la mia». Uno dei capitoli più irriverenti è dedicato a Susan Sontag. «Era come una dea — spiega —. La tiranna che presiedeva ai destini delle lettere e della critica in America. È stata lei a decretare la morte del romanzo tradizionale e nessuno ha osato sfidare la sua fatwa ».
La Ozick e la sua intima cerchia di amici scrittori ne furono devastati. «Nel giro di una notte distrusse il nostro mondo». Poco prima della morte, la Sontag tornò sui propri passi. «Ma ormai era troppo tardi e io avevo soltanto me stessa da biasimare. Ingenuità, cecità e stupidità assoluta mi spinsero ad obbedire ad una fatwa che finì per liquidare giganti come Italo Calvino. Nel romanzo la Sontag ci ordinò di osannare l'aridità severa della metafisica. La sua opera Il benefattore
è praticamente illeggibile. Glaciale, priva di sentimento e di vita, sembra scritta da un vecchio e scheletrico studioso senz'anima, intento a riflettere sulla morte che si avvicina». Ma le colpe della Sontag sarebbero anche altre: «È stata lei ad annullare la distinzione tra arte alta e arte popolare, rimescolandole in un tutt'uno inverecondo. In questo non fu innovatrice: T.S. Eliot l'aveva preceduta in La terra desolata. E così anche l'arte alta finì alle ortiche. E io fui condannata in quanto "elitaria" e "anacronistica"». Dietro questa «insidiosa rivoluzione culturale», secondo l'autrice, c'era lo zampino di una certa sinistra. «La stessa che applaudì il suo saggio sul New Yorker, dopo l'11 settembre, dove la Sontag affermava che l'America aveva avuto ciò che meritava. Quello stesso anno andò in Israele a ritirare i soldi del Jerusalem Prize, facendo un discorso di folle condanna nei confronti dello Stato ebraico. Questo virus ha contagiato in ugual misura ebrei americani ed europei di sinistra. Tutta l'intellighenzia ne è affetta. E tutte le università americane. Un problema gravissimo. Parola di vera liberal». Ma la sua antipatia per l'autrice di L'amante del Vulcano e In America ha anche motivi personali. «Ad un party organizzato dalla rivista Partisan Review
le strinsi la mano, omaggiandola. Lei scoppiò a piangere insultandomi perché l'avevo trattata con eccessiva deferenza, facendola sentire "diversa". Ne fui umiliatissima e le inviai una lettera di spiegazione alla quale non ha mai risposto».
Ben diverso è il suo feeling per Philip Roth. «Lo ammiro immensamente. È uno scrittore straordinario e mi domando perché la giuria del Nobel non l'abbia ancora premiato». La politica questa volta non c'entra. «Perché Roth è uno di sinistra e il Nobel per la letteratura è sempre un riconoscimento politico. Con un'unica eccezione: V.S. Naipaul nel 2001». In The Din in the Head la grande scrittrice nata a New York e cresciuta nel Bronx rivisita la sua amicizia con un altro grande premio Nobel. «Un giorno ricevetti una inaspettata lettera da Saul Bellow. Mi spiegava come, all'inizio della sua carriera, non avesse mai prestato attenzione al tema dell'Olocausto che si sedimentò nel suo spirito solo verso la fine della vita, permeando il suo ultimo libro Ravelstein ». Eppure lei stessa, in un'intervista del 1987 alla Paris Review disse: «Preferisco non creare arte dall'Olocausto, perché non voglio inventare, immaginare o manomettere». Ciò non le impedisce di leggere le opere sull'Olocausto di altri. «Mi hanno chiesto di recensire A Tranquil Star: Unpublished short stories of Primo Levi, appena pubblicato in America da W.W. Norton. Un'opera di assoluta importanza, come tutto ciò che è scaturito dalla penna di uno dei più grandi scrittori del nostro secolo».
Di recente ha fatto scalpore la sua recensione al vetriolo, pubblicata da The New Republic, di My Name is Rachel Corrie, l'opera teatrale sulla pacifista americana uccisa da una ruspa israeliana durante una manifestazione a Gaza. «La sua tesi, ripugnante, è che la Corrie fu deliberatamente assassinata dagli israeliani. Avevo la responsabilità morale di denunciarla». Quando il produttore decise di ritardare l'allestimento dello spettacolo, citando la guerra israelo-libanese di quest'estate, Vanessa Redgrave gridò allo scandalo. «Sono certa che la Redgrave pensi che la Corrie sia stata assassinata perché così giura la propaganda anti-israeliana. Quando Sidney Lumet mi chiese di allestire Lo scialle a Broadway con la Redgrave nel ruolo della protagonista Rosa, io replicai: "Sopra il mio cadavere"».
Il problema della società americana, puntualizza, è proprio questo: «La tirannia delle ideologie, di destra e di sinistra. La New York Review of Books si rifiuta di recensire i miei libri perché non sono abbastanza di sinistra». Eppure è sua una delle crociate più care ai progressisti americani: quella per arginare l'inesorabile declino del romanzo, stritolato da Tv, Internet, cinema e Dvd. «Il boom dei nuovi media ci ha paradossalmente ricatapultati all'antico Egitto. Un'élite letteraria, piccola ma intensa, oggi esplode di gioia se uno come W.G. Sebald pubblica un romanzo letterario straordinario come The Emigrants o Austerlitz. E chi se ne frega se i lettori del
Codice Da Vinci non li leggeranno mai».
Anche lei ce l'ha a morte con quel romanzo? «Ma quale romanzo? Me l'hanno regalato, ma mi sono bastate poche frasi per buttarlo nella spazzatura. Non è letteratura e tanto meno arte, quindi non mi interessa». Più clemente il suo giudizio nei confronti di The Castle in the Forest di Norman Mailer, caso letterario del 2007. «Anche se non sono una sua fan, ammiro il coraggio di Mailer nel sostenere una tesi così poco liberal come l'esistenza del diavolo. Ma gli contesto di aver esonerato Hitler da ogni responsabilità morale, affermando che era posseduto dal demonio e quindi non artefice delle proprie azioni». Lo stesso approccio innocentista che due anni fa la fece bisticciare con Orhan Pamuk. «A conferenza organizzata dal New Yorker dopo l'uscita del suo libro Neve,
Pamuk sostenne che è necessario capire il terrorista. Niente affatto, replicai io, il terrorista si fa capire attraverso le sue azioni. I suoi piagnistei, scuse ed accuse all'Occidente non mi interessano». Il grande romanzo americano è già stato scritto? «È nella testa di molti autori, pronto a materializzarsi. Un po' come il Messia: aleggia sopra di noi e un giorno scenderà sulla terra per incarnarsi». Come vede Cynthia Ozick lo scontro culturale tra fondamentalismo islamico e Occidente? «Come una nemesi storica. L'Europa ha sterminato una minoranza straordinaria, che le aveva regalato matematica, musica, letteratura, finanza, arte e civiltà, nel pieno rispetto della sua cultura. Mezzo secolo più tardi si ritrova un'altra minoranza, completamente agli antipodi della prima per il suo rifiuto di assimilarsi e diventare parte del suo mondo. Una minoranza che, come "cultura", porta solo assassinio, guerra e terrorismo. È come se un'immensa entità storica, misteriosa e metafisica avesse punito l'Europa. È un castigo divino».

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