Ritiriamoci dall'Afghanistan e affidiamolo all'Iran.
Lucio Caracciolo spiega, sul RIFORMISTA del 7 marzo 2007 la sua geopolitica della resa incondizionata. Non solo dichiara persa la guerra afghana prima che la "sconfitta" sia stata provata sul campo, propone anche un exit strategy che passa da Teheran e da concessioni al regime degli aytollah.
Naturalmente a tutto vantaggio di quest'ultimo nel momento in cui è ancora aperta la partita sul nucleare.
Ecco il testo:
Il primo errore è stato entrare in Afghanistan, il secondo errore è stato entrarci in quel modo, con l'idea di restare a lungo e la pretesa di potere sconvolgere gli assetti tribali. E due errori sono già troppi. Adesso, l'unica speranza per la Nato è trovare una strategia per ritirarsi in maniera dignitosa, e la questione è assai complessa perché non si tratta solamente di salvare la faccia, ma di evitare che la ritirata, come spesso accade, accenda nuovi focolai. Facile a dirsi ma difficile a farsi: per limitare i danni talebani è necessario contenere il Pakistan; e l'unico modo di contenere il Pakistan è coinvolgere direttamente l'Iran. Proprio mentre il dossier atomico ha provocato, almeno per il momento, una rottura diplomatica tra Teheran e le democrazie occidentali. Questo, riassumendo, è il difficile scenario tracciato da Lucio Caracciolo, noto analista di geopolitica e direttore della rivista Limes.
In altre parole, quella afgana è stata una campagna cominciata male e continuata ancora peggio: «Come mi ripete spesso un ufficiale russo che ha combattuto in Afghanistan, l'unico errore della Nato è stato entrarci», racconta Caracciolo. «E' una partita che non può essere risolta in maniera vincente nel breve o medio periodo. Del resto, anche se volessimo giocarla, non disponiamo delle forze per farlo. E anche se avessimo le forze, mancherebbe comunque una strategia». Mancano gli uomini, insomma, e manca un progetto strategico che dia un senso alla loro missione. «Non si può tenere sotto controllo un territorio come quello afgano con 40 mila uomini», spiega Caracciolo, «basti pensare che in Kosovo ne sono stati impegnati molti di più. E comunque per inviare altre truppe bisognerebbe inventarle: il numero dei soldati americani si è semplicemente esaurito. Anche i mezzi scarseggiano, e mentre l'America è impegnata su due fronti in guerre poco produttive dal punto di vista strategico tutto questo sta minando il morale delle truppe», fattore che non va sottovalutato. Poi c'è la mancanza di strategia, in Iraq così come in Afghanistan: «Sono progetti basati su desideri, più che su analisi realistiche», sostiene l'analista. «Nel caso dell'Iraq, gli americani si aspettavano di essere accolti trionfalmente e che dopo Saddam sarebbe fiorita una società civile democratica e filo occidentale. In Afghanistan, qualche progetto c'era ed è stato realizzato». Ma la Nato ha sbagliato i calcoli: «Si poteva entrare in Afghanistan sapendo che ce ne saremo dovuti andare presto, accontentandoci di mantenere un'influenza esterna. Invece si è deciso di smantellare il paese come un calzino, di smantellare la Loya jirga (il consiglio tribale, ndr) per istituire degli organismi che mimano la democrazia occidentale, stravolgendola». Il risultato è che «dal 2004 la situazione è in costante peggioramento». A mali estremi, dunque, estremi rimedi. Vale a dire, un'apertura all'Iran.
L'unica è andarsene, sostiene Caracciolo: «Lo sanno per primi i nostri soldati che stanno lì. E' una missione a tempo, solo che il problema è trovare il modo di ritirarsi in maniera decente, senza accendere altre crisi». Come? «Una soluzione militare è del tutto inesistente e risulterebbe comunque controproducente». La stragrande maggioranza degli analisti, in effetti, concorda sul fatto che serve una soluzione politica in Afghanistan. «La priorità dovrebbe essere consolidare e influenzare dall'esterno i meccanismi dei consensi interni», spiega il direttore di Limes. In altre parole, sostenere i «meccanismi di convivenze locali» anziché «esportare con arroganza organismi che possono funzionare altrove, ma non in Afghanistan». Soprattutto, poi, occorre coinvolgere i paesi che influenzano e che nutrono interessi in Afghanistan.
«Prima di tutto, dobbiamo contenere il Pakistan, vero focolaio del fondamentalismo islamico e del jihadismo. Il presidente Pervez Musharraf è il primo a sapere che la capitale del “Talibanistan” è a casa sua, ma è una crisi che non può risolvere, solo gestire». Dunque serve il coinvolgimento di una potenza esterna. Ovvero la Repubblica islamica iraniana: «l'Iran controlla di fatto una parte del paese, nel Sud. E il contingente italiano, che si trova a Herat, ne sa qualcosa. Teheran sta già in qualche modo contrastando i talebani, soprattutto in materia di narcotraffico». Ma quello che serve adesso è un «compromesso geostrategico con l'Iran». Insomma, uno scambio che preveda «il contenimento del jihadismo pakistano (e quindi dei talebani, ndr) da parte di Teheran», in cambio del riconoscimento del proprio status di potenza regionale.
Finora, seppure in misura diversa, americani ed europei si sono opposti alla crescente egemonia iraniana. Presto, tuttavia, rappresentanti di Teheran siederanno allo stesso tavolo degli americani nella conferenza di pace a Baghdad, e c'è chi intravede un segnale di distensione. Per Lucio Caracciolo, la questione è ancora aperta: «Molto presto, si arriverà a un compromesso con Teheran, oppure a una guerra. Probabilmente, si tratta di mesi, non di anni».
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