Dal CORRIERE della SERA del 4 marzo 2007, un articolo di Davide FrattiniRAFAH (Gaza) — Nei cunicoli armi, droga, qualche volta persone (ricercati o spose per procura che non hanno i documenti).
Mohammed dice che qua sotto lui sta bene. Il caos e il fracasso di Rafah restano lontani. Mohammed dice che qua sotto lui è tranquillo. Basta non pensare alle guardie egiziane che potrebbero riempire il tunnel di gas o a quei dieci metri di terra sopra la testa, che potrebbero crollare.
Mohammed è uno dei «topi» che vivono scavando, in questa città all'estremo sud della Striscia di Gaza. È una corsa all'oro che viaggia lenta: un metro all'ora, dieci ogni notte, almeno due mesi per arrivare dall'altra parte. Di sopra, disoccupazione al 70 per cento. Di sotto, dollari. Nei cunicoli passa di tutto: armi e munizioni, droga, sigarette, qualche volta persone (ricercati o spose per procura che non hanno i documenti).
La squadra lavora alla galleria da oltre un mese. La barriera di metallo innalzata dagli israeliani è a pochi metri, la frontiera vicina. Quando il sole tramonta, il canto dei muezzin palestinesi si fonde con le voci di quelli egiziani. Il buco è nascosto in una casa demolita, una collinetta di macerie accartocciate, dove si è salvata una stanza grande come uno sgabuzzino, quel che basta per ospitare i cinque uomini. Mohammed ha 22 anni, gli altri, mascherati, sembrano giovani quanto lui. Tutti esili: il budello che a zig zag si muove verso l'Egitto è largo 70-80 centimetri.
Nel pavimento è stato scavato un primo pozzo, va giù quattro-cinque metri. È l'«occhio» del tunnel ed è largo un metro e mezzo. Si scende aggrappati a una corda e si atterra sulla sabbia morbida, che entra dappertutto, sotto i vestiti e sotto le unghie. Più avanti gli scavatori picchiano con il martello pneumatico e le pale. Procedono verso sud, aiutati da una bussola. La luce è quella della candele, il generatore serve solo per i macchinari. La terra smossa viene portata in superficie e raccolta nei sacchi: resterà qua fino alla fine, trasportarla è troppo pericoloso, il tunnel verrebbe individuato.
I «topi» hanno scavato 300 metri e sono a metà del percorso. «Lavoro per una settimana, a volte resto qua dentro a dormire — racconta Mohammed —. Mi riposo per un'altra settimana e ricomincio». Suo cugino è il proprietario della galleria. È lui che gli ha insegnato il mestiere ed è lui quello che è diventato ricco. «Per ogni carico di armi, guadagno 10 mila dollari e chiedo un kalashnikov per me. Mio cugino può arrivare a 200 mila dollari. Non ho mai accettato di trasportare droga, è contro la religione». Un tunnel viene usato per due-tre volte. Se nessuno lo scopre, i trafficanti lo lasciano riposare per sei-sette mesi e poi lo riattivano. I più sofisticati muovono le armi con dei carrettini, trascinati da una carrucola. Altrimenti i ragazzi si caricano cinque kalashnikov a testa e strisciano per tutti i 600 metri.
La famiglia di Mohammed controlla tredici passaggi. Il contrabbando è sempre stato una questione di clan, i dieci più potenti (come gli Abu Samhadana, gli Al Shair, gli Zorob) dominerebbero il commercio illegale. Quando nel 1982 gli israeliani hanno lasciato il Sinai, la frontiera ha tagliato a metà Rafah. La cortina di ferro alta nove metri non ha diviso i legami di sangue: parenti lontani, cugini di quarto o quinto grado, si sono ritrovati dai lati opposti del confine. Le loro case separate e invisibili, ma a non più di cento metri. Gli scavatori si sono messi all'opera.
I tunnel vecchi sono i più pregiati, lavori da ingegneri. In città nessuno racconta se siano ancora utilizzati.
«Sono grandi, in alcuni si può camminare — spiega Ahmed, che di gallerie è un esperto —. Sono rivestiti di legno perché non crollino, hanno una linea telefonica e le armi vengono trasportate sui carrelli. Anche Hamas e Fatah possiedono i loro, segretissimi». Durante la seconda intifada, gli israeliani hanno cercato di fermare il traffico. Tra il 2000 e il 2004, 1800 case sono state demolite, le più vicine alla frontiera, per evitare che le cantine nascondessero un traforo. I trafficanti si sono spostati più indietro. «Prima del ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza — continua Ahmed — i tunnel venivano aperti a 500 metri dal confine e altri 200 venivano percorsi in Egitto». Adesso che Tsahal non controlla più la fascia di sicurezza della Philadelphi Road, i contrabbandieri sono tornati a ridosso della barriera e le case distrutte, come quella dove lavora Mohammed, sono cresciute di valore. Nel mercato immobiliare di Rafah, le macerie si pagano caro.
Costruire un tunnel è un investimento che non tutti si possono permettere, anche se i profitti sono assicurati. Fino a un anno e mezzo fa, una galleria costava attorno ai 100 mila dollari, perché le pattuglie israeliane rendevano le operazioni più pericolose: il silenzio dei vicini e la riservatezza degli scavatori andavano comprati. Adesso i buchi sono talmente tanti, la manodopera così numerosa, che la cifra sarebbe crollata a 20 mila dollari. «Gli scavatori arrivano dai villaggi attorno — commenta Ahmed —. Usare estranei è anche più sicuro: qua se ti assenti da casa per due mesi, tutti capiscono che cosa sei andato a fare».
Ahmed indica un palazzo in costruzione nel centro della città, è di proprietà di un contrabbandiere. Cinque piani pagati con gli ultimi mesi di scontri tra Hamas e Fatah. Un kalashnikov costa 300-400 dollari in Egitto e viene rivenduto a 2 mila tra i palestinesi. Un M16 viene comprato a 600-700 dollari e può arrivare a 5 mila.
Il conflitto interno ha trascinato il mercato. Il traffico delle armi da usare contro Israele non si è mai fermato. L'intelligence è sicura che attraverso questi tunnel passi la prossima guerra. Davanti alla commissione Esteri e Difesa del Parlamento, Yuval Diskin, capo dello Shin Bet, ha snocciolato la contabilità della morte. In un anno, sarebbero stati spacciati: 30 tonnellate di esplosivo, 20 mila kalashnikov, 3 mila pistole, 6 milioni di munizioni, 12 missili anti-aerei, 95 razzi anticarro. I servizi segreti sono convinti che Hamas voglia imitare il modello degli Hezbollah in Libano e stia accumulando missili a lungo raggio. In ottobre, l'esercito ha lanciato l'operazione Frutta Spremuta ed è rientrato nella Striscia per distruggere 15 tunnel. Un'ottantina di gallerie sarebbe rimasta intatta sotto la sabbia, pronte per essere usate.
Mohammed e i suoi compagni continuano a scavare verso sud. Quando il lavoro sarà finito, il cunicolo potrebbe rimanere tappato per qualche tempo. «Verifichiamo solo di essere arrivati sotto la casa giusta. Non vogliamo spaccare il pavimento, gli egiziani potrebbero scoprire la galleria in un raid. Quando siamo pronti con un carico, buchiamo e in una notte facciamo passare le armi».
La settimana scorsa, le pareti di un tunnel hanno ceduto e tre «topi» sono stati seppelliti vivi. Uno di loro è rimasto sotto per due giorni, i palestinesi non riuscivano a raggiungerlo e gli egiziani non sono voluti intervenire. Quando l'hanno tirato fuori, è morto in ospedale. Mohammed non ci pensa e continua a scavare. Lo aspettano 10 mila dollari e il suo secondo kalashnikov.
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