La crisi di fiducia tra Italia e Stati uniti
interviste a Richard Perle e Michael Walzer
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Data: 08/02/2007
Pagina: 2
Autore: Ennio Caretto - Maurizio Molinari
Titolo: «Bagdad, Vicenza e Kabul: si rischia una crisi di fiducia Prodi s'imponga ai dissidenti» - Ma su Lozano abbiamo ragione

Dal CORRIERE della SERA dell'8 febbraio 2007, un'intervista a Richard Perle:

WASHINGTON — Lo scorso novembre, quando il governo italiano ritirò le truppe dall'Iraq, Richard Perle dichiarò al Corriere che «Prodi non ha fatto un favore a Bush» e i rapporti Usa-Italia ne avrebbero sofferto. Sarebbe stato opportuno, obbiettò, un ritiro più graduale o meglio ancora parziale. Oggi, l'ex sottosegretario alla Difesa vede confermati i suoi timori e denuncia «il rischio di una crisi di fiducia» tra Washington e Roma. A Perle, leader neocon,
teorico della guerra dell'Iraq, consulente di amministrazione e Congresso, sembra che ilgoverno Prodi abbia fatto errori — e anche sgarbi — tali da perdere credibilità presso la Casa Bianca. Perle auspica che l'Italia torni a rispettare la «continuità storica» della sua politica atlantica.
Perché adesso ci sarebbe il pericolo di una crisi di fiducia?
«Alle tensioni sull'Iraq hanno fatto seguito quelle sull'allargamento della base di Vicenza, sulla missione in Afghanistan, sulla lettera degli ambasciatori agli italiani. Per di più è riemerso il fantasma del povero Calipari, la cui uccisione fu un tragico errore, deprecato da tutti, non un atto premeditato. L'America non può condividere l'incriminazione del soldato Lozano».
Ma in una democrazia come quella italiana ci deve essere spazio per il dissenso su problemi del genere...
«Certo. Nel vostro caso però il dissenso è a priori e minoritario, e non dovrebbe inficiare la linea del governo. Viene dalla sinistra radicale che è sempre stata antiamericana e la cui ideologia a volte condiziona anche la vostra magistratura. Se Prodi vuole conservare il rapporto con gli Stati Uniti, s'imponga ai dissidenti all'interno della sua maggioranza».
L'amministrazione considera l'Afghanistan un banco di prova della affidabilità dell'Italia?
«Credo di sì. Il ministro della Difesa Robert Gates chiederà più truppe e più aiuti economici ai Paesi Nato, e in primavera il generale Bantz Craddock, che comanda le truppe, sferrerà un'offensiva contro i talebani. La vostra sinistra parla di "exit strategy", ma io penso che l'Italia debba impegnarsi di più. Non resti a guardare, o finirà per fare la figura della Spagna in Iraq, e Prodi diventerà un altro Zapatero».
Eppure la vostra amministrazione ha espresso apprezzamento per il ruolo italiano in Afghanistan e Libano.
«La questione in Afghanistan è che bisogna compiere un salto di qualità. In Libano avete un ruolo cruciale, e tutti ve ne danno atto.
Ma la solidità dei nostri rapporti si misura sull'intera politica, non su una sola missione. Paradossalmente, la Francia che era così lontana si sta riavvicinando. Voi invece che eravate così vicini sembrate allontanarvi».
Le tensioni tra i nostri due Paesi non sono anche il frutto della politica estera di Bush?
«Il vostro precedente governo vi aderì, e comunque mi pare che non la si possa contestare per quanto riguarda la lotta al terrorismo e la difesa dell'Afghanistan, due fronti su cui ha dato buoni risultati. Inoltre il presidente ha ripreso l'iniziativa per la pace tra israeliani e palestinesi. E ha l'appoggio di numerosi alleati nei rapporti con Corea del Nord e Iran. Anche gli antiamericani dovrebbero ammetterlo».
C'è però la guerra in Iraq, che continua a dividere anche voi americani, una guerra civile.
«Non è una guerra civile, perché non ci sono due fazioni che si contendono il controllo dell'Iraq. C'è una guerra settaria, anche all'interno degli stessi sciiti e sunniti, ci sono vendette etniche, tribali, familiari, e ci sono interferenze iraniane e siriane, una conferma che l'Iraq va stabilizzato o ne andranno di mezzo Medio Oriente e Golfo».
I vostri democratici sono contro l'escalation del conflitto. Per lei Bush è sulla strada giusta?
«Lo è, non tanto perché stia mandando altri 21mila soldati, quanto perché sta affidando alle nostre forze il compito che doveva affidare loro fin dall'inizio, quello della sicurezza urbana, presupposto per un ordinato processo politico

Dalla STAMPA, un'intervista di Maurizio Molinari a Michael Walzer:

«Dietro le crisi diplomatiche fra Italia e Stati Uniti c’è il dissenso su due questioni che hanno a che vedere con i valori: quando e come deve usare la forza, il rispetto dello Stato di Diritto». Michael Walzer, sociologo dell’Università di Princeton e direttore della rivista liberal «Dissent», va oltre le schermaglie fra Washington e Roma, invitando a confrontarsi sui temi-chiave.
Partiamo dall’uso della forza. Quali sono i contorni del dissenso fra Usa e Italia?
«Gli Stati Uniti vogliono usare troppo la forza, l’Italia e in gran parte l’Europa invece non vogliono usarla per nulla. Se guardiamo bene a linguaggio e contenuti delle recenti polemiche sui raid Usa in Somalia contro Al Qaeda, sull’allargamento della base militare americana a Vicenza e sui compiti dei soldati italiani in Afghanistan contro i taleban ci accorgiamo che il filo conduttore è dato dal fatto che l’America usa la forza, è convinta che sia la strada per ottenere la sicurezza e si aspetta che gli alleati facciano lo stesso mentre l’Italia, rispecchiando un orientamento molto diffuso in Europa, non è d’accordo. Non vuole usare affatto la forza».
Come se ne esce?
«Aprendo una discussione su come e quando adoperare la forza nel mondo dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001».
Da dove partire per affrontare tale confronto?
«Da due punti fermi. Primo: la guerra giusta ovvero la possibile esistenza di ragioni per le quali diventa opportuno l’uso della forza. Secondo: l’uso della forza non deve necessariamente portare alla guerra».
Cosa intende per «forza che non porti alla guerra»?
«Penso ad esempio alle zone di divieto di sorvolo aereo che la comunità internazionale impose sul Nord e Sud dell’Iraq per quasi dieci anni. Servivano a proteggere i civili, indebolivano Saddam ma non erano una guerra come quella che venne poi lanciata nel 2003. Un altro esempio sono gli embarghi: se applicati rigidamente costituiscono una forma di uso della forza e possono risultare utili per evitare delle guerre. Spero che la comunità internazionale scelga proprio la via dell’embargo per impedire all’Iran di arrivare alla bomba atomica, senza dunque dover ricorrere alla guerra».
Chi dovrebbe elaborare la teoria dell’uso della forza per evitare le guerre?
«Spetta alla comunità internazionale ma ogni nazione, ogni governo, ogni pensatore può dare il proprio contributo. Serve una riflessione comune per darsi regole e valori condivisi, utili ad affrontare i nuovi pericoli della nostra epoca».
Ma sull’Afghanistan come giudica la scelta di quei Paesi, come Italia, Spagna e Germania che rifiutano di mandare le truppe nel Sud contro i taleban ed i miliziani di Al Qaeda?
«Chi si è opposto alla guerra in Iraq deve sostenere la guerra in Afghanistan. Il motivo di fondo per opporsi all’intervento militare in Iraq è che si è trattato di una deviazione dalla guerra al terrorismo, privando di risorse e uomini il conflitto in Afghanistan. Il sostegno alla guerra ai taleban legittima chi si è opposto all’invio di truppe in Iraq».
Veniamo alla seconda questione di dissenso sui valori, inerente al rispetto dello Stato di Diritto...
«Nel caso del rapimento in Italia dell’imam egiziano Abu Omar l’amministrazione Bush ha violato la legge italiana. La pratica delle "renditions" da parte di questo governo anche in altre occasioni ha violato le leggi di Paesi stranieri. Si tratta di una politica irrispettosa dello Stato di Diritto altrui. Dunque è a mio parere legittima la richiesta italiana di processare gli agenti della Cia coinvolti, indipendentemente da altri risvolti politici».
E nel caso della richiesta della magistratura italiana di processare il caporale Lozano per la morte di Nicola Calipari a Baghdad?
«In questo caso è il rifiuto americano che avviene sulla base di leggi nazionali che prevedono il perseguimento dell’eventuale crimine sul territorio nazionale. Nessuno Stato in tempo di guerra consente di far processare i propri soldati da un tribunale straniero e dunque sono gli Stati Uniti che chiedono legittimamente all’Italia di rispettare il loro Stato di Diritto».
Sono contrasti destinati ad aumentare o a riassorbirsi?
«Continueranno fino a quando non troveremo un’intesa su chi e come deve adoperare la forza e fino a quando non sarà rispettato lo Stato di Diritto, il proprio come quello altrui».

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