Ieri, giornali e agenzie di stampa, davano per certa la mano del Mossad nella morte dello scienziato iraniano che lavorava alla realizzazione della bomba atomica per conto di Ahmadinejad. Sembra che sia morto per avvelenamento, scriviamo sembra, perché notizie sicure non ce ne sono. Malgrado ciò, le titolazioni riportavano tutte la parola magica "Mossad”, il colpevole per eccellenza. Se fosse vero saremmo i primi a rallegrarcene, un colpo messo a segno dopo alcuni tentativi andati a vuoto, perchè prevenire è sempre meglio che intervenire in ritardo. Ma la notizia sorprendente è un’altra, coinvolge sempre Israele, ma è meno lieta, in quanto riguarda quel lato oscuro che è dentro noi, poveri esseri umani, e ogni tanto deve manifestarsi. Sul sito internet del Guardian, quotidiano inglese noto per essere alla testa di tutte le prese di posizione antiamericane, antisraeliane e antioccidentali in genere, ben 130 ebrei inglesi (non molti, se pensiamo che il loro numero è di circa quattrocentomila) hanno pensato bene di comunicare al prossimo che la loro intenzione non è quella di festeggiare i (quasi) sessant’anni dello Stato di Israele, ma bensì di ricordare i “ 40 anni di occupazione di Gaza e della Cisgiordania”. Preoccupati come sono nel vedere la pagliuzza nell’occhio di Israele, non hanno fatto caso alla trave che giganteggia nel loro, avendo messo anche Gaza fra i territori occupati, dimentichi che Israele l’ha consegnato ai palestinesi nell’agosto del 2005, con scarsi risultati a giudicare dal comportamento di Hamas, ma questo non gli può essere attribuito. Hanno fatto notizia per via di alcuni nomi noti al grosso pubblico, il drammaturgo Harlod Pinter, premio Nobel per la letteratura, Stephen Fry, attore e regista di chiara fama, Eric Hobsbawm, storico marxista, famoso quest’ultimo soprattutto per essere l’autore del “ Secolo breve” un libro nel quale racconta tutto il ‘900. Ma alla Shoah , quindi alla distruzione dei sei milioni di ebrei, dedica solo tre righe tre. Chi ha poca dimestichezza con la teoria psicoanalitica dell’auto-odio, non potrà fare a meno di chiedersi come sia possibile, mentre Israele è sotto minaccia di distruzione da parte del nuovo Hitler di Teheran, un numero, anche se esiguo ma pur sempre significativo, possa scatenarsi contro lo Stato ebraico. Intanto diciamo che non è una novità, un bel gruppetto, anche se non proprio odiatori di Israele, ci fu in Palestina mentre all’Onu stava per essere votata la spartizione alla fine del 1947. Yehuda Magnes, illustre fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme nel 1925, fu tra quelli che premette con più forza sul Presidente americano Truman perché gli Usa non votassero a favore. Era, con altri, per lo Stato binazionale, preso com’era dal sacro fuoco pacifista ed egalitarista, il che vuol dire in termini politici essere ciechi e masochisti. Fortuna volle che Truman si dimostrasse poi quel gran presidente che è stato con il voto affermativo per la divisione in due stati, permettendo così la nascita di Israele. Se quello arabo non è nato anche lui in contemporanea a quello ebraico, è stato uno dei grandi errori che i palestinesi pagano ancora oggi.
Di ebrei così ce ne sono un po’ dappertutto, non ne mancano mai negli appelli universitari, nei convegni dove si condanna Israele per il solo fatto di esistere, e vengono esibiti come dei trofei per dire, “ vedete, anche degli ebrei concordano con le nostre tesi”. Il gioco a volte riesce. Perché lo fanno ? La comune militanza politica non è sufficiente a giustificarli. Stanno male nella propria pelle, vivono una perenne crisi di identità, sono gli ebrei-non ebrei, che vorrebbero essere altro ma non ce l’hanno fatta a diventarlo. Screditare Israele li fa star meglio in mezzo agli antisemiti mascherati da antisionisti. Poveretti.
Dalla STAMPA, un'intervista di Flavia Amabile a Riccardo Pacifici, vicepresidente e portavoce della Comunità ebraica di Roma:
Anche in Italia arriva l’eco della polemica suscitata dalla lettera aperta pubblicato sul Guardian. Abbiamo sentito Riccardo Pacifici, vicepresidente e portavoce della Comunità ebraica di Roma. «Nulla di nuovo, - dice - mi sembra. E’ la classica sindrome che colpisce molti ebrei della diaspora che, nonostante Berlino, continuano ad avere il problema di non considerarsi bene accetti».
Sotto accusa c’è l’etichetta di antisemita rivolta a chiunque critichi il governo israeliano...
«Sotto accusa c’è, a quanto ho capito, il rabbino capo Jonathan Sacks che a una manifestazione aveva affermato: “Israele, siamo orgogliosi di te”. Al rabbino Sacks va tutta la nostra solidarietà e la cosa che mi sembra più incredibile è che a essere oggetto di critiche sia proprio uno come lui, un moderato, un fautore dell’apertura nel dibattito. Ma è anche vero che a firmar l’appello sono i soliti nomi, un’assoluta minoranza rispetto al totale della comunità in Gran Bretagna».
Un’accusa da intellettuali?
«Il tipico atteggiamento radical-chic di una certa minoranza di intellettuali che può esistere anche in Italia ed è rispettabilissima ma che non va confusa con le rappresentanze istituzionali che infatti non hanno avvertito la necessità di assumere questa posizione».
Orgogliosi di Israele, allora, anche voi?
«Usiamo la stessa frase del rabbino Sacks, siamo felici che esista lo Stato di Israele, siamo certi che per ogni ebreo che viva fuori rappresenti un sentimento, un fatto emotivo al di là delle posizioni di ognuno di noi. Ne siamo orgogliosi tanto più in un momento così delicato in cui è uno Stato assediato da più minacce, che arrivano dall’esterno e dall’interno».
Orgogliosi su tutta la linea oppure capita anche a voi di criticare Israele?
«Questo appello riapre una classica ferita all’interno del mondo ebraico tra chi pensa di far emergere i cosiddetti ebrei buoni e democratici e quelli che invece sono appiattiti e tollerano tutto per la sopravvivenza dello Stato ebraico. È chiaro che il diritto di critica a un governo è legittimo, e un conto è il nostro sostegno alla democrazia israeliana un conto criticare al nostro interno questo o quel governo perché ci si sente più vicini al Likud o a Kadima. Siamo convinti che bisognerebbe vivere in Israele per avere diritto di critica».
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