A chi non ne sia convinto, o ritenga di avere a che fare con una provocazione, consigliamo di leggere attentamente un bel libro riassuntivo ma anche rivelatore di Louis Rapoport, giornalista del “Jerusalem Post”, tradotto in italiano da Erica Joy Mannucci e pubblicato, in prima edizione, sedici anni fa da Rizzoli con il titolo La guerra di Stalin contro gli ebrei. L’antisemitismo sovietico e le sue vittime. Dapprima il suo stato d’animo fu velato. Poi, man mano che avanzava negli anni, si fece irresistibile, sino a diventare vera e propria ossessione come confermerà, nelle memorie, la figlia Svetlana. Lo psicolabile Hitler fu certamente in buona compagnia. Quanto a barbarie, Stalin non gli fu, infatti, inferiore. Anzi, se si tirano le somme è difficile stabilire chi tra due sia stato più assassino.
Gli omicidi dovuti alla paranoia si sprecano, così come i complotti inventati a bella posta per eliminare amici e nemici e, in particolare, per colpire gli ebrei (non a caso anche Lev Trockij, considerato dal capo comunista come un’autentica bestia nera a tal punto che ne commissionò l’assassinio a colpi di piccone, era di nascita giudaica).
Nell’estate 1940, Stalin aveva già ordinato la deportazione di circa un milione di profughi provenienti dalla Polonia, in larga misura ebrei. Poco dopo l’invasione nazista, un numero considerevole di ebrei abitanti lungo il confine ucraino era stato spedito, con carri bestiame, negli Urali e in Siberia ( ne morì da un quinto a un terzo solo per il viaggio in condizioni terribili) mentre i rimanenti erano stati abbandonati al massacro. Non solo il baffuto satrapo appoggiò la nuova ondata di antisemitismo, ma se ne fece promotore assicurando che si diffondesse “con la rapidità di una pestilenza”.
Si pensi al presunto complotto attribuito nel gennaio 1953 a nove medici del Cremlino, sei dei quali erano, guarda caso, ebrei, accusati di avere assassinato con gli strumenti della professione due tra i collaboratori più stretti del dittatore e di essersi venduti all’”imperialismo occidentale” e al “sionismo”.
In Siberia, Kazakhistan, Birodidzan erano già pronti campi con baracche pronte ad accogliere ebrei di ogni estrazione sociali. Se il piano, taciuto in Occidente dagli intellettuali ottenebrati dal fanatismo e dalla propaganda moscovita, non trovò piena attuazione, fu solo perché Stalin morì in marzo. E anche dopo la scomparsa di Stalin la vita per gli ebrei in Unione Sovietica non è stata certamente facile.
E, allora, nulla da dire compagni comunisti? Non sarà forse che quando bruciate le bandiere israeliane la vostra indole antisemita puntualmente fa capolino?
Il feroce dittatore e criminale sovietico, che aveva studiato nel seminario di Tbilisi, coltivò sempre risentimento nei confronti del popolo ebraico, così come d’altronde Marx, nonostante le origini ebraiche, e il signor Vladimir Il’ic Ul’janov, vale a dire Lenin.
Purghe, gulag, genocidio. La politica dell’”amato compagno” Stalin, “alfiere della pace” per i militanti comunisti di mezzo mondo e per i pacifisti inebetiti, non concedeva sconti né tregua.
Nel dopoguerra, come ha scritto la figlia Svetlana, “l’antisemitismo diventò l’ideologia ufficiale e militante, sebbene la cosa venisse tenuta nascosta in ogni modo”.
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