Da L'UNITA' del 28 gennaio 2007, riportiamo un'intervista di Umberto De Giovannangeli a Vittorio Foa.
Segnaliamo la scarsa attinenza del titolo "Foa le critiche a Israele sulla guerra sono giuste" con il contenuto dell'articolo.
Di fatto, non c'è una dichiarazione di Foa di condanna della reazione all'aggressione di Hezbollah nell'estate del 2006, né (ciò che evidentemente più sarebbe interessato all'UNITA') una difesa delle posizioni antisraeliane di D'Alema.
Non escludiamo che Foa approvi D'Alema e disapprovi la guerra di Israele ai terroristi di Hezbollah: semplicemente, nell'intervista parla d'altro.
Il titolo, perciò, non informa
Ecco il testo:È una straordinaria riflessione che attraversa il tempo e che congiunge passato, presente e futuro, quella che Vittorio Foa regala a l’Unità. Il tema è Israele. La Diaspora. E la sinistra. Nella Giornata della Memoria uno dei padri della sinistra italiana si sofferma, con la consueta lucidità, sui temi di più scottante attualità.
Partirei da una domanda che ripercorre un po’ le aspre polemiche di questi giorni. Per Vittorio Foa cosa significa oggi essere «amico d’Israele»?
«Vuol dire in primo luogo essere amico della sua sopravvivenza e del suo progredire. La linea della pura forza è la sua morte, non è la vita di Israele».
«ESSERE AMICO DI ISRAELE significa volere la sua sopravvivenza, e la linea della pura forza è la sua morte». E ancora: «Gli ebrei sono andati nel mondo, hanno fatto l’America e hanno sofferto l’indicibile. Devono continuare ad essere forza positiva per tutti». Vittorio Foa racconta la sua Giornata della Memoria
«Quando D'Alema, con il quale ho avuto molti dissensi sul piano politico ma che ammiro sul piano della politica estera, si è mosso sulla questione del Libano io ho ravvisato una cosa molto importante: Israele si considerava militarmente infallibile. La guerra della scorsa estate dimostrò che non era vero. L'iniziativa italiana offriva la dimostrazione che per vivere bisogna stare d'accordo con gli altri e che non si può vivere semplicemente affermando le proprie ragioni.
Il problema di Israele, in realtà, è di avere nemici che vogliono la sua distruzione, e non sono disposti ad accettare nulla di meno.
Come sarebbe possibile, a Israele, "stare d'accordo" con costoro?
Foa, o D'Alema, lo spieghino, se ci riescono.
E questo mi è parso un elemento forte di solidarietà. Essere ebreo voleva dire volere lo Stato d'Israele come civiltà e non come sopraffazione».
In occasione della Giornata della Memoria, che si celebra oggi (ieri, ndr) il capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha affermato che il nuovo antisemitismo si maschera dietro l'antisionismo che nega la sicurezza di Israele.
«Questo è stato vero e può esserlo ancora, è anche vero però l'opposto: e cioè che l'esaltazione ebraica è mascherata attraverso le polemiche. Il primato è la verità. Nella politica lo Stato ebraico è uno Stato e deve essere giudicato come Stato, per le cose che fa. Poi vi sono tutti gli aspetti culturali, sentimentali, morali che hanno la loro dignità; però come Stato deve essere giudicato liberamente. E sullo Stato ebraico voglio dire che proprio perché lo difendo, penso che la sua difesa non sta nella pretesa di invincibilità.
Israele non è non pensa di essere invincibile. Ma è consapevole della necessità di difendersi, e delle catastrofiche conseguenze che avrebbe una sconfitta.
Perciò un amico di Israele deve innanzitutto sostenere il suo diritto all'autodifesa e favorire le condizioni politiche e stratgica della sua vittoria contro chi vuole distruggerla.
Non è vero. Nessun Paese è invincibile, neanche l'America. Certo, ci sono dei cretini che straparlano in un certo modo contro lo Stato d'Israele. Io rispondo che lo Stato d'Israele si vive proprio perché è la sua cultura, e la sua civiltà che lo fanno vivere. E la sua cultura, la sua civiltà sono con gli altri e non da solo».
Nella conversazione che ha preparato questo incontro, lei ha detto che l'unicità dello Stato ebraico che ha caratterizzato la sua nascita è quella di pensarsi non contro altri ma a sostegno di altri. Oggi questo cosa può voler dire?
«Vuol dire che di fronte ai contrasti internazionali quello che conta non è chi ha ragione e chi ha torto ma qual è la possibilità di fare la pace. Quando la pace è possibile bisogna battersi per la pace e quando si ottiene di battersi per la pace si aprono le vie per la collaborazione. Lo Stato d'Israele può sopravvivere solo se nel Medio Oriente esso diventa non già la forza di un Occidente schierato militarmente contro un Oriente che adesso sta fra l'altro prendendo piede in modo drammatico, ma può sopravvivere se diviene una linea di raccordo e di collaborazione di tutta l'area mediorientale. Io sempre pensato che Israele avrebbe potuto fin dal principio essere questo. Quando c'è stata la Guerra dei Sei Giorni (luglio 1967, ndr), ricordo che ricevetti allora una delegazione che veniva da Israele, e dissi loro che io pensavo che loro avevano una enorme possibilità di diventare una forza di pace e di costruzione comune in Medio Oriente. Ma loro non lo capirono. Recentemente ho visto su Haaretz (il quotidiano progressista di Tel Aviv, ndr) una cosa terribile di un reduce della guerra del '67 che ricorda "cosa credevamo noi allora di aver risolto dei problemi, non avevamo risolto niente…". La guerra non aveva risolto nulla. Sarebbe stato possibile fin d'allora tentare comprensione e collaborazione reciproche. Quello che tentò poi il presidente egiziano Sadat. Anouar Sadat fu un grande uomo di Stato che capì cosa voleva dire la collaborazione e riuscì - non credo che il giudizio sia eccessivo - a cambiare il corso della storia».
Quella delineata da Foa è un'utopia che non tiene conto dell'opposizione del mondo arabo alla stessa esistenza di Israele.
Sadat, che volle realmente giungere ad un accordo con Israele, lo ottenne.
E qualsiasi altro leader arabo che avesse realmente voluto la pace con Israele l'avrebbe ottenuta.
Israele non è la punta avanzata di un'aggressione coloniale dell'Occidente all'Oriente, ma la prima linea di resistenza delle società libere all'assalto jihadista.
Un grande scrittore israeliano, Amos Oz, ha detto che certe volte per guardare con speranza al futuro, bisogna liberarsi dalla gabbia della Memoria. Questo cosa può voler dire per Israele ma anche per la Diaspora ebraica?
«Quando parliamo di memoria per Israele il primo pensiero va alla Shoah. Ma al di là della Shoah, io penso ai milioni di ebrei che dalla Russia sono andati in America. Hanno fatto l'America. Hanno sofferto delle cose indicibili. Penso alle lavoratrici tessili ebraiche. Sì, hanno creato l'America, hanno creato delle cose solide e forti. Gli ebrei sono stato questo, sono stati questi nel mondo, e devono continuare ad esserlo. Devono continuare ad essere una forza positiva per tutti. Io ci credo davvero, e l'ho creduto fin da quando ero bambino e questa convinzione mi accompagna anche oggi».
Cosa è, se c'è oggi, per Vittorio Foa sinistra in Israele?
«Io penso a David Grossman. Penso che le idee che propone possano avere un futuro. È vero che per il momento sono prevalentemente letterati, però io credo che deve essere quello il futuro della sinistra. Ho ammirato la dichiarazione di Grossman il 20 novembre a Roma, come il discorso che tenne durante la commemorazione di Rabin a Tel Aviv il 4 novembre; una cosa straordinaria quest'uomo e le cose che ha detto. Quello è il futuro di Israele; al di fuori di questo può essere soltanto una guerra continua, esasperata, che non finisce mai».
C'è un altro tema scottante: quello dei rapporti tra la sinistra italiana e Israele. C'è chi parla di un "grande tradimento", di un "amore" che dopo il 1967 si è quasi consumato…
«No, questo non è giusto. Io credo che la sinistra, essa stessa sta trasformandosi profondamente. Sono convinto che proprio la parte radicale della sinistra è soggetta a profondi mutamenti. Il primo elemento (e ragione) di questo mutamento è la multilateralità della politica america, la quale scopre la multilateralità con il fallimento di George W. Bush. E scopre l'importanza che nella politica ha l'ambiente. L'importanza che nella politica ha la donna. Queste cose qui sono cose che rivelano una novità nella sinistra. Io credo profondamente alla novità della sinistra radicale. Credo che la sinistra radicale deve cambiare e che noi dobbiamo aiutarla a cambiare. La sinistra radicale in Italia, in fondo, ha capito delle cose che la sinistra ufficiale non ha capito della condizione vitale. La sinistra partitica ha una concezione molto burocratica della vita; la sinistra radicale vede alcune cose che la sinistra ufficiale non vede, ma bisogna aiutarla a vedere le cose nuove. Io non sono della sinistra radicale ma se potessi ancora far politica, lavorerei per aiutare la sinistra radicale a rivedere se stessa e a creare delle forme nuove di collaborazione».
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