Dal CORRIERE della SERA del 26 gennaio 2007ROMA — Riappaiono i fantasmi dell'Europa irrazionale che produsse la Shoah e il presidente della Repubblica ne denuncia con angoscia certi «indizi», emersi da parecchi episodi di «razzismo, violenza e sopraffazione contro i diversi». Ma a riproporre in qualche modo l'incubo, e in una chiave politicamente e culturalmente surrettizia, è per lui soprattutto l'antisionismo. E non a caso salda appunto l'antisemitismo e l'antisionismo, in un appello che diventa subito una sorta di chiamata a raccolta della Nazione. Infatti, dice, va combattuto «ogni rigurgito di antisemitismo anche quando esso si travesta da antisionismo». Perché «antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico, delle ragioni della sua nascita, ieri, e della sua sicurezza oggi, al di là dei governi che si alternano alla guida di Israele».
È una posizione netta e forte, quella di Giorgio Napolitano nel momento in cui prende la parola per celebrare al Quirinale la Giornata della memoria. Netta e forte in quanto smonta uno dei pretesti più utilizzati da chi tenta di rilanciare un'eterna «questione ebraica», contestando sistematicamente ogni azione degli esecutivi di Gerusalemme, chiunque li guidi. Persino a partire dal diritto del popolo ebraico a far ritorno proprio in quell'angolo di Medio Oriente, l'antica patria. E a restarvi.
Questa condanna del «nuovo antisemitismo» non è inedita per il capo dello Stato. Identiche conclusioni le anticipò negli anni Ottanta, da membro della direzione del Pci, quando definì il sionismo un «movimento di liberazione nazionale» e superò così la travagliata linea del proprio partito. Pronunciata ai giorni nostri, la stessa sentenza suona come un'aspra censura degli ukase che echeggiano sempre più forti dalla Siria all'Iran al Libano, fino al quartier generale palestinese di Hamas e ai settori più radicali della sinistra italiana.
Ragionamenti che ripropone adesso, davanti ai vertici delle istituzioni, da Marini a Bertinotti a Prodi, riuniti nel Salone dei Corazzieri assieme al sindaco di Roma Veltroni, al ministro Fioroni, a un piccolo gruppo di superstiti e a centinaia di studenti. Si rivolge in primo luogo a loro, il presidente della Repubblica, come in una lezione di pedagogia civile. Ai ragazzi che ogni anno si recano in visita ad Auschwitz, che incontrano i superstiti dei lager e che attraverso i racconti ascoltati rivivono l'orrore dell'Olocausto. Parla a loro, Giorgio Napolitano, e li investe della responsabilità di diventare dei «testimoni attivi» di quella che definisce «forse la più immane tragedia nella storia d'Europa». «Come italiani», dice, azzerando ogni tentazione d'amnesia, «dobbiamo serbare il ricordo e sentire il peso degli anni bui delle leggi razziali del fascismo e delle persecuzioni antiebraiche della Repubblica di Salò». Dobbiamo fare «come Jacques Chirac ha fatto in Francia». Dobbiamo cioè trovare il coraggio e la decenza di ammettere «momenti profondamente oscuri» della storia nazionale e rammentare «anche noi la luce che venne dalle imprese dei Giusti, di coloro che hanno meritato questo nome per le prove concrete che offrirono, anche con il rischio della vita, di solidarietà verso i fratelli ebrei perseguitati, esposti alla minaccia della deportazione, della tortura, dello sterminio nei campi». I nostri Giusti, insiste, «hanno salvato l'onore dell'Italia, e oggi dobbiamo noi rendere loro onore».
Insomma: la memoria è fondamentale per andare avanti e darsi un futuro, dice ancora Napolitano. E aggiunge, citando il Primo Levi di Se questo è un uomo, «per assurdo e impensabile che appaia, ciò che è accaduto può ritornare, ancora oggi».
Purtroppo, aggiunge, non mancano i segni premonitori di «fenomeni che possono sfociare in aberrazioni». Fenomeni di «violenza generata da intolleranza, da libidine di potere, da ragioni economiche, da fanatismo religioso o politico, da attriti razziali». Dobbiamo riconoscerli e fermarli, incalza, prima che scavino troppo a fondo nel sottosuolo di sentimenti «bassi» di cui si nutrono da sempre. Guarda caso, s'interroga retoricamente il capo dello Stato, di quei sottovalutati fantasmi «non ne abbiamo forse visti in anni recenti e non ne vediamo forse pure oggi affacciarsi in alcune parti del mondo, e anche non lontano dal nostro Paese?». E chissà se ha in mente, tra gli esempi di un antisemitismo strisciante, le liste nere delle imprese «colpevoli» d'intrattenere rapporti d'affari con Israele: liste che un governo occidentale ancora poco tempo fa spediva ai governi arabi.
C'è dunque un patto da stringere, unendo le intelligenze e le volontà e sapendo che per fortuna disponiamo di un grande «antidoto»: l'Europa unita che «abbiamo costruito negli ultimi cinquant'anni, una comunità di popoli amanti della pace», legati da valori di umanesimo e universalismo.
Un'intervista al senatore dei DS Cesare Salvi. Che rivendica il diritto a "criticare" Israele. Peccato che, anche da parte sua, le critiche siano spesso sonfinate nella negazione del diritto alla difesa di Israele.
Negare a Israele il diritto a difendersi da chi ne vuole la distruzione non è molto lontano , ci sembra, dal negarle il diritto all'esistenza. MILANO — Senatore Salvi, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, celebrando la giornata della Memoria, ha detto: «No all'antisemitismo, ma anche quando esso si travesta da antisionismo». È una frase che la convince o la percepisce come una critica a certi settori della sinistra?
«La condivido appieno. E non perché oggi si debba identificare antisemitismo con antisionismo, ma perché quest'ultimo non può essere la leva per tentare di sradicare lo Stato d'Israele. Ecco perché io, uomo di sinistra e filopalestinese, non riesco a nascondere il mio disappunto per certi eccessi che pure ci sono nella sinistra. Però, detto questo, vedo un rischio».
Quale?
«Che chi critica alcuni aspetti della politica d'Israele possa essere accusato di antisionismo o, peggio ancora, di antisemitismo. Lo stesso errore, spesso, lo si fa anche con chi critica l'amministrazione Bush, ad esempio sulla guerra in Iraq: non per questo può e deve essere accusato di antiamericanismo. Sarebbe ingiusto. Ecco perché è bene distinguere gli aspetti diversi di questa vicenda».
Lei è un esponente della sinistra ds, che non si può dire sia particolarmente morbida nei confronti di Israele. «Le critiche che molti a sinistra, tra cui anche noi, rivolgono allo Stato d'Israele, sono quasi sempre rispetto all'uso della forza e agli attacchi contro la popolazione civile palestinese. E inevitabilmente toccano anche il nodo dell'esistenza dello Stato d'Israele così come è adesso: cioè con confini che non sono quelli assegnati inizialmente. Alcuni territori, insomma, sono stati occupati al di fuori degli accordi. Inevitabile quindi che le critiche a Israele coinvolgano anche questo aspetto, e quindi mettano in discussione la sua struttura attuale».
E questo ragionamento può sconfinare nell'antisionismo? «No, non deve assolutamente avvenire una cosa del genere. L'ho detto: condivido appieno il problema così come è stato posto dal presidente Napolitano. Ha introdotto una posizione nuova: attenti che chi difende il diritto di Israele a esistere deve difendere anche il diritto di Israele come Stato. Il sionismo è un aspetto fondativo della storia di Israele proprio come il Risorgimento e la Resistenza lo sono per l'Italia. Allora il punto è questo: non è vero che chi critica Israele sia necessariamente antisemita, ma nel momento in cui si riconosce il diritto di Israele a esistere lo si deve fare sulla base del sionismo. O meglio: è uno Stato da rispettare, però è anche giusto poterlo criticare e chiedergli una svolta sull'uso della forza».
E non teme, criticando, di essere poi etichettato come antisionista?
«Non temo etichette di alcun tipo, proprio alla luce di quel che ho spiegato prima. Anche se intravedo un rischio di ostilità strisciante nei confronti dell'ebreo, purtroppo, in alcuni settori di base della sinistra. Però questo non cambia lo stato delle cose: così come resta la necessità di riconoscere quel Paese come una democrazia moderna, resta anche la mia critica a Israele. Tutta».
Di seguito, un'intervista all'onorevole Lusetti della Margherita:MILANO — «Vedo imbarazzo».
In chi, onorevole Lusetti? «In certa sinistra. Pochi, tra loro, hanno commentato le parole del presidente Napolitano: Oliviero Diliberto tace, Marco Rizzo tace... Come mai?».
Lei che spiegazione si è dato? «Che hanno paura di inimicarsi la loro base. Perché il problema non è tanto nella classe dirigente della sinistra radicale, ma nella base che loro non vogliono mai scontentare per paura di perdere consensi. E proprio in questa base esiste da anni un problema nei confronti del sionismo».
Ma adesso è arrivato il richiamo del presidente Napolitano. «Appello che condivido appieno, ovviamente. Il suo è stato un messaggio autorevole fatto proprio nella giornata del ricordo della Shoah. Noi della Margherita, ma anche altri della maggioranza, sappiamo bene invece che rispetto a una parte della sinistra radicale su questo tema c'è una sensibilità diversa. Loro spesso in passato hanno esagerato, sfiorando l'antisionismo. Insomma, le frange estreme ci sono.
Però...».
Però? «Da oggi la sinistra radicale ha un problema tattico oltre che politico. Persino Bertinotti, che certo è il presidente della Camera, ha condiviso l'apologia del ricordo della Shoah. Invece la sinistra radicale, gli altri, hanno il problema di essere sempre un centimetro più a sinistra di Bertinotti. Sempre. Perché proprio in questa differenziazione esiste la loro ragion d'essere. E il loro potere politico».
Una differenziazione che comprende anche le critiche a Israele? «Certamente. Sono stati anni di antisionismo, ma i tempi sono cambiati. Ben vengano, dunque, l'appello di Napolitano e quello di Bertinotti. Sono un messaggio alla sinistra radicale: a cambiare i toni. Perché da oggi nessuno potrà far finta di niente».
Una svolta?
«Una vera svolta. Alla quale va aggiunto anche il fatto che il governo ha approvato all'unanimità il ddl sulla Shoah. Vuol dire che, a livello di vertici, un minimo di coesione c'è. Ora per loro il problema resta la base».
L'editoriale di Pierluigi Battista:Giorgio Napolitano ha il merito di aver sottratto la Giornata della memoria alle atmosfere retoriche che ne imbalsamano il significato e di aver indicato nell'«antisionismo» fanatico e viscerale una delle nuove, e ancor più insidiose, manifestazioni dell'antisemitismo contemporaneo. Incombe la minaccia «negazionista» di Ahmadinejad, che invoca l'annichilimento di Israele come esito di una guerra santa di sterminio. Ma incombe anche il pregiudizio diffuso che, sono le parole del presidente della Repubblica, alimenta in forme oblique l'ansia di «negazione della fonte ispiratrice dello Stato ebraico», contestandone la fondamentale ragion d'essere, rifiutandone la base morale e culturale (il sionismo) come premessa di una delegittimazione globale della sua stessa esistenza.
L'antisemitismo camuffato da antisionismo impone la sua presenza in ambiti mentali impensati, lontanissimi dall'odio antiebraico di conio più schiettamente nazista e neo-nazista. Si fa discorso seduttivo, si ammanta di una nobiltà che ne fa scudo protettivo dei nuovi deboli (i palestinesi) perseguitati dai nuovi potenti prepotenti (gli ebrei di Israele), si sublima nella difesa di una Causa buona e giusta: la tutela dei nuovi diseredati e dei nuovi reietti. Non critica singoli atti dei governi israeliani ma scredita la natura stessa di Israele come esito di un'usurpazione. In Occidente protende i suoi tentacoli ideologici persino nella prosa di un ex presidente americano, Jimmy Carter, che squalifica Israele come «l'apartheid in Sudafrica» mentre esalta il dittatore nordcoreano Kim il Sung come «uomo energico e intelligente». Incendia i giudizi di premi Nobel come Harold Pinter e José Saramago, che ha paragonato Israele nientemeno che ad Auschwitz. Fornisce una giustificazione a un'icona della sinistra culturale come Mikis Theodorakis, così imbevuto di odio anti-israeliano da dettargli le invettive contro la «lobby ebraica» che dominerebbe «banche, media e musica», senza per questo essere deplorato dalla comunità intellettuale. Arma la penna di uno stimato sociologo francese come Edgar Morin, che ha brutalmente, insensatamente definito Israele come «un cancro» da estirpare.
Tempo fa Valentino Parlato e Furio Colombo non hanno nascosto la loro disperazione per le sbavature antisemite che deturpavano alcune lettere inviate al «manifesto» e all'«Unità» da lettori esaltati dal sacro fuoco «antisionista». Esprimevano la stessa preoccupazione cui Giorgio Napolitano ha dato solennemente voce nel discorso di ieri. Si interrogavano sull'indifferenza distratta con cui viene accolta, nell'Occidente, la minaccia di Ahmadinejad all'essenza stessa dello Stato di Israele ottenuta attraverso la negazione della Shoah come giustificazione storica di un'ostilità assoluta per gli ebrei raccolti nel loro Stato. Fino a chiedersi come mai, ha detto ancora Napolitano, sia così facile, così poco contrastato, così agevole negare alla radice «le ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza oggi» di uno Stato sottoposto, come viene detto, a un attacco concentrico di tipo «esistenziale», cioè globalmente condannato per il solo fatto di esistere e meritevole perciò di essere annientato con ogni mezzo, anche il più cruento e apocalittico. Non una critica ai singoli atti dei suoi governi democraticamente eletti, come è legittimo al pari di ogni altra critica a qualunque governo di qualunque Stato. Ma un'ostilità pregiudiziale e feroce verso un'entità malvagia che deve soltanto scomparire. E così come è ovvio non squalificare come antisemita la critica ai governi israeliani, è altrettanto ovvio che la delegittimazione in quanto tale di Israele costituisce la nuova versione, pericolosa come quella vecchia, dell'antisemitismo moderno. Che non dura solo un giorno e non riguarda solo la dimensione della memoria.
Battista ricorda le preoccupazioni di Parlato e Colombo. Peccato che oggi MANIFESTO e UNITA' nascondano ai loro lettori le parole di NapolitanoDi seguito, l'editoriale del FoglioIl modo più concreto per ricordare nella condanna i crimini incarnati in feroci sistemi politici e le tragedie del passato è denunciare le nuove forme presenti del male. Per questa ragione, le parole scelte per il Giorno della Memoria dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affondano la presa sul cuore della belva, che ruggisce da Teheran e dai mille rivoli del maremoto jihadista, ma s’accuccia anche nei retropensieri degli odiatori di sé occidentali. Dice Napolitano che bisogna combattere “ogni rigurgito di antisemitismo. Anche quando esso si travesta da antisionismo”. L’affermazione ha il giusto sapore del disvelamento di un’ipocrisia. Perché, come ha ricordato il presidente, “antisionismo significa negazione della fonte ispiratrice dello stato ebraico” e delle “ragioni della nascita, ieri, e della sicurezza, oggi” dello stato d’Israele. Il primo passo di ogni sterminio è la negazione della casa e Israele è nato come, ed è, la casa degli ebrei. “E che cos’è l’antisionismo? E’ negare al popolo ebraico un diritto fondamentale che rivendichiamo giustamente per la gente dell’Africa e accordiamo senza riserve alle altre nazioni del globo. E’ una discriminazione nei confronti degli ebrei per il fatto che sono ebrei, amico mio. In poche parole, è antisemitismo… Lascia che le mie parole echeggino nel profondo della tua anima: quando qualcuno attacca il sionismo, intende gli ebrei, puoi starne certo”. Lo diceva Martin Luther King, ha fatto bene a ricordarlo Napolitano.
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