Meno di due settimane fa, le dimissioni di sei ministri sciiti dal governo libanese avevano già indicato chiaramente che piega avrebbe preso il Libano. La regola del consenso settario tra le varie componenti del sistema politico libanese impone che ogni decisione sia presa con almeno due terzi del totale dei ministri, che è fissato a 24. Le dimissioni servivano a far cadere il governo libanese prima che potesse prendere una decisione sul tribunale internazionale creato dall’Onu per indagare l’assassinio di Rafiq Hariri. Con sei ministri sciiti fuori dal governo, i diciotto rimasti erano già sotto forte pressione, visto che mancava al governo il gruppo più poderoso della costellazione confessionale libanese. Ma un veloce conto aritmetico chiarisce che occorreva che altri tre ministri lasciassero il governo Siniora per far cadere l’esecutivo. Se non si dimettono da soli, l’assassinio di Pierre Gemayel c’insegna, un colpo alla nuca ottiene simili risultati.
Ieri il vecchio leader druso, Walid Jumblatt ha dichiarato che si aspettava nuovi assassinii. Lo aveva detto anche all’indomani dell’uccisione dell’ex premier Rafiq Hariri, trucidato il 14 febbraio 2005, memore del fato di suo padre, come lui politico antisiriano, ucciso da sicari mandati da oltre frontiera. Quella frontiera i siriani non l’hanno mai riconosciuta e da quando gli fu dato il pretesto, nel 1976, di occupare il Libano per pacificare un paese lacerato dalla guerra civile, i siriani non se ne sono più andati fino al 2005. In trent’anni di presenza militare, non hanno mai aperto un’ambasciata, mai inviato un ambasciatore. E la frontiera non è riconosciuta da Damasco se non come un provvisorio tracciato imposto dalle potenze coloniali che avrebbe separato il Libano dalla madrepatria. Per trent’anni i siriani hanno fatto il bello e il cattivo tempo in Libano, ammazzando chiunque li ostacolasse e sfruttando le divisioni settarie e le milizie nel paese per promuovere i loro interessi sullo scacchiere mediorientale e le loro ambizioni di completare il sogno di una Grande Siria.
Soltanto negli ultimi due anni, sotto la scure siriana sono cadute le teste di sei politici, tra cui l’ex premier Hariri e ora il ministro dell’industria Pierre Gemayel, figlio dell’ex presidente Amin, che successe al fratello Bashir, trucidato dai siriani nel settembre 1982. Fino alla morte di Hariri, i siriani erano convinti di avere gioco libero in Libano. Del resto, quand’era segretario di stato, era stato James Baker - lo stesso che sta ora elaborando una nuova strategia americana in Medio Oriente che probabilmente promuoverà un dialogo con la Siria - a sancire gli accordi di Taif dell’autunno 1989. Gli accordi, che avevano posto fine alla guerra civile in Libano, erano stati sponsorizzati da Siria e Arabia Saudita, avevano ridistribuito il potere tra comunità a svantaggio dei cristiani e avevano fatto della Siria il padrone di fatto del paese. La Siria aveva quindi proceduto a schiacciare ogni residuo d’opposizione, sotto gli occhi silenziosi dell’occidente. Grazie a quegli accordi, Baker avrebbe poi convinto i siriani a unirsi alla coalizione che sbaragliò Saddam Hussein nel 1991, liberò il Kuwait e diede il via libera al “Nuovo Medioriente” i cui cocci ingombrano ancora la regione.
Ma la strategia dei siriani si fondava su quattro pilastri improvvisamente minacciati dalla politica americana in Medio Oriente: lo status quo regionale, l’alleanza con l’Iran, il sostegno siriano al terrorismo palestinese e la presenza di Hezbollah in Libano. L’alleanza con l’Iran offriva a Damasco un ombrello convenzionale e non contro Israele, e la presenza di Hezbollah in Libano - il segno più tangibile di una completa simbiosi siro-iraniana - permetteva di controllare il Libano e metter pressione su Israele. Il sostegno al terrorismo permetteva ai siriani di interferire nel processo di pace israelo-palestinese. In quanto allo status quo, esso faceva di un regime forte come la Siria un interlocutore necessario.
L’arrivo di forze alleate in Iraq, la rimozione delle forze siriane dal Libano sotto pressione congiunta franco-americana e la dura batosta subita da Hezbollah l’estate scorsa hanno alterato parzialmente questo quadro. Ma l’alleanza siro-iraniana è divenuta ancora più solida e simbiotica e il loro desiderio di non perdere il Libano e di indebolire ulteriormente il fronte filoamericano nella regione spinge i siriani ad alzare la posta.
Le dimissioni di due settimane fa avvennero per cercare di bloccare il voto del governo libanese sul tribunale internazionale che l’Onu vorrebbe creare e che con tutta probabilità implicherebbe gli alti vertici siriani, presidenza compresa, nell’assassinio di Hariri. Con diciotto ministri rimasti, il governo avrebbe potuto ancora adottare la decisione dell’Onu. Dopo l’assassinio di Gemayel, di ministri ne rimangono 17, il che permette ancora, teoricamente, di prendere decisioni, a condizione che ci sia una pressoché totale unanimità o, se le fosche previsioni di Jumblatt si avverassero, l’unanimità se i ministri ora calassero bruscamente a sedici, cortesia di un altro sicario siriano. Ma sotto sedici anche l’unanimità non basta. Se fossi un politico libanese antisiriano, farei testamento.
Ci sono già tanti che gettano acqua sul fuoco, sostenendo che questa volta la Siria non c’entra. Del resto, lo fecero anche all’indomani dell’assassinio Hariri. Ma l’interesse della Siria, come i suoi metodi, è chiaro e gl’indizi puntano tutti a Damasco.
La Siria sta cercando di mettere in ginocchio il governo libanese e al contempo manda un messaggio all’Occidente: il prezzo di una qualsiasi cooperazione siriana sull’Iraq - che James Baker si appresta probabilmente a raccomandare all’amministrazione Bush - è il Libano. Come nel 1989, chi sostiene un dialogo con la Siria dovrà pagare il quid pro quo in valuta libanese e sacrificare l’unico paese arabo che finora offriva una prospettiva - per quanto stentorea, fragile e incerta - di un processo democratico che sottraesse gli arabi dal tragico dilemma tra dittatura e guerra civile.
Chi sostiene il dialogo con la Siria deve allora sapere questo: il prezzo sarà il Libano democratico. Con l’Europa riluttante a dare un pieno significato alla risoluzione 1701 e con il crescente desiderio di dialogare con la Siria, il rischio che le forze antisiriane si sentano isolate e decidano di ritornare alla via delle armi è alto: il che significa che presto i nostri soldati, mandati allo sbaraglio dall’avventurismo estivo del nostro governo a pattugliare il Libano senza un mandato preciso e senza strumenti politici sufficienti per difendersi e difendere il governo libanese, potrebbero trovarsi loro malgrado a presidiare una nuova guerra civile, dove le forze democratiche, abbandonate dall’Occidente, combatteranno una lotta impari contro Hezbollah e le forze filosiriane.
Parlare con la Siria significa sostenere la morte del Libano. Sarebbe peggio che un sacrificio degli ideali democratici a favore di una cinica realpolitik. Significherebbe, come disse Churchill di fronte al sacrificio della Cecoslovacchia a Monaco, di scegliere il disonore invece della guerra, finendo poi con l’avere entrambi.
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