Non è Israele a non volere lo Stato palestinese
ma chi spera che la demografia cancelli la maggioranza ebraica tra il Mediterraneo e il Giordano
Testata:
Data: 17/11/2006
Pagina: 1
Autore: Anna Momigliano
Titolo: Su Israele si affaccia l'incubo della “scomparsa”
Dal RIFORMISTA del 17 novembre 2006:

Il tempo sta scadendo. E proprio gli israeliani sono stati i primi ad accorgersene: «Molti palestinesi stanno perdendo interesse nella soluzione dei due Stati, e questo rischia di diventare la fine di Israele come Stato ebraico». Le preoccupazioni espresse da Ehud Olmert, allora vice premier, a pochi mesi dal ritiro da Gaza rappresentano ancora, e sempre di più, una spada di Damocle sul destino di Israele. Per la prima volta dalla sua creazione, i cittadini stanno cominciando a temere per la stessa sopravvivenza dello Stato ebraico. Non solamente per le minacce, che certo non vanno sottovalutate, da parte di Siria e Iran, ma anche a causa dello stallo dei negoziati con l'Autorità nazionale palestinese. Oggi la soluzione «due stati per due popoli» acquista perciò una urgenza davvero drammatica.
Gerusalemme sa di non avere scelta: uno stato palestinese si deve fare e nel tempo più rapido possibile. L'occupazione dei Territori non potrà continuare per sempre e l'unica alternativa sarebbe un unico stato per israeliani e palestinesi. Il che, considerati i dati della differente crescita demografica dei due popoli, significherebbe la fine di Israele come stato a maggioranza ebraica.
Insomma, si ripropone l'annosa questione tra la soluzione dei due stati (il principio «due popoli e due stati», invocato a ragione da tutta la sinistra italiana) e la cosiddetta soluzione binazionale («uno stato per due popoli»). Ma stavolta non si tratta di una questione astratta, filosofica: ne va dell'esistenza stessa di Israele. Di questo, si rendono conto tutte le forze politiche israeliane. I tempi di Oslo - quando la sinistra pacifista di Yitzhak Rabin propose la creazione di uno Stato palestinese suscitando indignazione tra i conservatori - sono lontanissimi. La creazione di uno stato palestinese è così diventata la priorità di Gerusalemme - anche se le scelte strategiche, a cominciare dall'unilateralismo, possono prestarsi a critiche. Nella controparte palestinese, invece, il fronte è molto più diviso. Hamas, com'è noto, si rifiuta di riconoscere lo stato israeliano, il che, più o meno indirettamente, equivale a un rifiuto della creazione di uno stato palestinese distinto e separato. Le ragioni degli islamisti sono note: l'attesa di due generazioni varrà bene il sogno di una Grande Palestina. Eppure, anche autorevoli esponenti di Fatah, incluso lo stesso Yasser Arafat, hanno spesso invocato la creazione di uno stato unico.
Il dibattito sullo scenario di uno stato unico per palestinesi e israeliani, accantonato nell'era dei negoziati, è rifiorito negli ultimi anni grazie al fallimento di Oslo. Nel gennaio del 2004, Yasser Arafat rilasciò al Guardian un'intervista dai contenuti espliciti: «Il tempo per la soluzione dei due stati sta finendo», fu l'avvertimento lanciato dal presidente palestinese. Nel giro di poche settimane, alle parole di Arafat fecero eco quelle di Abu Ala, allora primo ministro dell'Anp. Le dichiarazione dei due leader palestinesi toccarono un nervo scoperto e diedero vita a un vivace dibattito sulla stampa israeliana, che ha coinvolto i vertici politici (Olmert, David Landau), le più prestigiose penne giornalistiche (Danny Rubinstein, Ari Shavit) e numerosi accademici (l'israeliano Benny Morris, l'italiano Sergio dalla Pergola, e l'americano Tony Judt, docente alla New York University che si schierò a favore dello stato unico). Alle orecchie degli israeliani, ogni riferimento alla “soluzione binazionale” suona come una minaccia, un crudo richiamo al fatto che, alla lunga, i palestinesi tengono il coltello dalla parte del manico. Anche Saeb Erekat ha provocatoriamente evocato lo scenario di uno stato unico, proprio in un'intervista a questo giornale. Come a dire: uno stato palestinese conviene più a voi che a noi.
Alla luce di questa consapevolezza, non stupisce che un anno dopo i moniti di Arafat e di Abu Ala, Ariel Sharon presentò il piano di disimpegno da Gaza, primo passo per un più ampio disegno di “separazione dai palestinesi” che avrebbe dovuto portare alla creazione di due stati. Fu proprio Olmert, allora, a spiegare l'urgenza della questione in questi termini: «Purtroppo sempre più palestinesi stanno perdendo l'interesse nella soluzione dei due stati, perché vogliono cambiare la natura di questo conflitto da un “paradigma algerino” a un “paradigma sudafricano”». L'obiettivo dei palestinesi, consci del proprio vantaggio demografico, sarebbe insomma una transizione «da una lotta contro l'occupazione, a una lotta per il principio di “un uomo, un voto”». Un'eventualità che, secondo Olmert, si deve prevenire con la creazione di uno stato palestinese: «Questo cambiamento di strategia», ha spiegato, «significherebbe una lotta meno sanguinosa, ma, probabilmente, molto più efficace per i palestinesi. Per noi, invece, significherebbe la fine dello stato ebraico». Chissà cosa direbbe Olmert, se sapesse che in Italia molti settori dell'estrema sinistra -compreso il Forum Palestina che ha organizzato la manifestazione di domani a Roma - hanno fatto proprio lo slogan: «Uno Stato palestinese, subito». In chiave antisionista.

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